LIRICA, ALLA SCALA LA QUARTA VOLTA DELLA “DONNA SENZA OMBRA”
Roma - Finora, in quasi 100 anni, l’opera era stata presentata a Milano solo in altre tre occasioni. Il motivo? Agli italiani non piacciono le favole come il lavoro di von Hofmannsthal e Strauss
Edizione completa
Stampa l'articolo
Roma - Domenica alla Scala è in calendario una delle prime rappresentazioni più attese dell’anno: un nuovo allestimento di “Die Frau ohne Schatten” (“La Donna Senz’Ombra”) di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss. L’allestimento è co-prodotto con la Royal Opera House di Londra. Nei quasi 100 anni che corrono dalla sua prima esecuzione, a Vienna nel 1919, questo lavoro si è conquistata un posto di riguardo fra le sei nate dalla collaborazione fra Hofmannsthal e Strauss, un’aura a sé. Alla Scala, “Die Frau ohne Schatten” è consegnata a tre sole apparizioni: nel gennaio 1940 con la direzione di Gino Marinuzzi (in versione ritmica italiana) e la regia di Mario Frigerio; nel marzo-aprile 1986 con l’allestimento storico di Jean-Pierre Ponnelle, direttore Wolfgang Sawallisch; nell’aprile-maggio 1999 con la direzione di Giuseppe Sinopoli e la ripresa dello spettacolo di Ponnelle che si è visto qualche anno prima anche a Firenze. Cosa voleva significare negli anni della prima guerra mondiale e cosa vuole dire oggi, circa un secolo dopo la sua prima messa in scena a Vienna nel 1919? Strauss considerava quest’opera il suo capolavoro assoluto. Quando, durante la seconda guerra mondiale, veniva invitato a dirigere “Der Rosenkvalier” (“Il Cavaliere della Rosa”), si schermiva dicendo che era un lavoro troppo lungo e quindi troppo faticoso per un uomo che viaggiava verso gli 80 anni. Diceva agli amici: “Però, se mi chiedessero dirigere ‘Die Frau ohne Schatten’, forse risponderei di sì”. Eppure sotto il profilo orchestrale e vocale quest’ultima è più lunga e molto più complessa di “Der Rosenkvalier”.
L’opera viene rappresentata molto raramente in Italia. Negli ultimi 30 oltre all’edizione minimalista alla Scala e a Firenze (commissionata del Teatro dell’Opera di Colonia, da dove i due teatri italiani hanno noleggiato l’allestimento) e una alla Fenice di Venezia. Viene spesso detto che una delle ragioni per la scarsa presenza di quest’opera nel nostro Paese è da imputarsi al costo dell’operazione: cinque grandi protagonisti, una schiera di comprimari (un totale di circa 25 solisti), un doppio coro, un organico orchestrale smisurato, un allestimento scenico che prevede un impianto a due livelli, trasformazioni a scena aperta, una cascata e via discorrendo. Ma osservazioni analoghe si possono fare anche per la pucciniana “Turandot”. Viene anche detto che il libretto è troppo macchinoso e troppo denso di simboli per essere compreso. In effetti, il nodo di fondo è che agli italiani non piacciono le favole. E “Die Frau ohne Schatten” è in primo luogo una favola, solo apparentemente complicata. Per comprenderla non è necessario leggere il denso epistolario tra Hofmannsthal e Strauss pubblicato in italiano dall’editore Adelphi circa 20 anni fa e forse neanche il mirabile saggio di Mario Bortolotto “La Serpe in Seno”. Non occorre addentrarsi nelle molteplici fonti e nei simboli dei numerosi personaggi, di cui uno solo ha un nome (Barak, il tintore) mentre gli altri sono indicati per la loro funzione o per una loro caratteristica (L’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via).
Il filo dell’apologo è lineare e ci conduce facilmente attraverso uno spettacolo che, intervalli compresi, dura oltre quattro ore: un uomo e una donna non sono tali se non hanno figli, i quali sono il nesso tra passato e futuro: restano un eterno presente senza significato (e senza storia) e in una nube di noia. La gioia si ha però unicamente al termine di un percorso iniziatico pieno di sofferenze. Le due coppie al centro della vicenda sono il giovane e bell’Imperatore con l’Imperatrice e un povero tintore con tre fratelli disabili e la sua donna. La prima coppia non può generare perché l’Imperatrice non ha un’ombra e quindi non è una donna completa. L’altra perché troppo stanca e stressata dalle fatiche quotidiane per fare l’amore. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggerito dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, causando però a quest’ultima e al suo Barak sofferenze ancora più gravi di quelle che avevano nella loro condizione precedente. Ma il “furto” non salva neanche la coppia imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza viene dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna e dal tentativo di aiutarla assieme a suo marito. È così la compassione dei Cieli trasforma il coro dei bambini non nati con cui termina il primo atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale. Nel loro lavoro, Hofmannsthall e Strauss pensavano senza dubbio alle esigenze di rinascita nell’Europa distrutta dalla Grande guerra: non per nulla nella loro opera precedente, “Ariadne auf Naxos”, avevano cantato in pieno primo conflitto mondiale, la vittoria di Eros su Thanatos.
Un messaggio più che mai attuale oggi, in un Continente vecchio e che sta invecchiando sempre di più e in cui l’edonismo vacuo sembra avere la prevalenza su quella vera gioia per giungere alla quale occorre soffrire. Per dare questo messaggio, Strauss avvolge il bel testo di Hofmannsthal di una partitura sontuosa: un sinfonismo continuo in buca di impronta wagneriana corredato da sette intermezzi, tutti su variazioni dello stesso tema, un espressionismo vocale che arriva a scelte stilistiche difficilissime (e che pochi interpreti osano affrontare), l’impiego di scale cromatiche complesse (anche mascherate) per dare, unitamente a contrappunti timbrici, una tavolozza di tinte sgargianti ai vari momenti della favola-apologo. L’allestimento scaligero ha la regia di Claus Guth, uno dei più apprezzati metteurs en scène tedeschi che ha di recente trionfato nella trilogia Mozart Da Ponte a Salisburgo. Cast di altissimo livello: Johan Botha, Emily Magee, Michaela Schuster, Samuel Youn, Mandy Fredrich, Maria Radner. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 06 Marzo 2012 19:23
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento