I fondi sovrani vogliono l’industria
DI GIUSEPPE PENNISI
Cosa potremo trovare nella bisaccia del presidente del Consiglio Mario Monti al rientro dall’Asia? Il motivo del viaggio è stato quello di attirare investimenti di fondi sovrani asiatici verso «l’Italia-cheriforma » in modo da contribuire a quella crescita che dopo quindici anni di stagnazione e tre di recessione sembra un’araba fenice. Anche soltanto per immaginare il contenuto della borsa, occorre avere un’idea di quale è la consistenza dei fondi sovrani, quanti sono, cosa fanno.
I fondi sovrani gestiscono circa 3000 miliardi di dollari, sono oltre un migliaio, non hanno un’associazione mondiale di coordinamento, ma si scambiano informazioni su strategie in incontri regionali oppure in seno a 'club' creati da alcuni di loro. Pochi sanno, ad esempio, che esiste un Long Term Investors Club (LTIC) di cui la Cassa Depositi e Prestiti Italiana è uno dei quattro soci fondatori ed a cui ha aderito, tra gli altri, uno dei fondi sovrani cinesi. Il documento più completo è il Working Paper n.58 /2012 della Banca per i Regolamenti Internazionali. Il volume contiene gli atti della Terza Conferenza Internazionali degli Investitori Pubblici tenuta a Basilea circa un anno fa: 80 partecipanti di 50 istituzioni si sono confrontati sulle strategie di investimento dei fondi sovrani. La conferenza è stata organizzata dalla Banca mondiale, dalla Banca centrale europea e dalla Banca per i regolamenti internazionali. Il tema centrale della riunione è stato il mutamento nell’allocazione delle attività dei fondi a ragione del cambiamento delle condizioni di mercato nel primo scorcio di questo decennio: in particolare da portafogli che davano la priorità all’investimento nei servizi finanziari (banche, assicurazioni) ed anche al mercato monetario (contribuendo ad apprezzare alcune valute) si sta passando ad una maggiore attenzione al manifatturiero ed alla sua diversificazione settoriale e territoriale.
I fondi sovrani della Repubblica Popolare Cinese hanno fatto da battistrada. Un documento di Ming Zhang e Fan He analizza in dettaglio come già nel 2007 (ossia cinque anni fa) la China Investment Corporation abbia cambiato direzione di marcia, principalmente a ragione della crescente volatilità di collocamenti finanziari. Lo illustra in dettaglio, uno studio dell’Università di Harvard, del M.I.T. e della Harvad Business School. I fondi condotti da gestori professionali tendono ad investire in industrie caratterizzate da rapporti tra prezzi delle azioni e valori della partecipazione (in gergo la P/E ratio) bassi ma che promettono di crescere, mentre quelli controllati da politici cadono spesso su indicatori P/E elevati nella speranza (spesso non soddisfatta) che crescano ancora di più.
Molto interessante lo studio, pubblicato nell’ultimo fascicolo dell’ Australian
Journal of Management del fondo sovrano di Singapore (la cui popolazione è al 90% di origine cinese), Temasek Holdings: utilizzando un campione di 150 società (nazionali e straniere) quotate alla Borsa di Singapore in un lasso di cinque anni, c’è una marcata tendenza a collocamenti in società per azioni di grandi dimensioni, con pochi azionisti o gruppi di azionisti che possano bloccare decisioni e con sistemi di incentivi (opzioni ai manager) ad aumentare fatturato e profitti.
Una notazione da tener presente viene da uno studio ancora in fase di completamento del Canergie Center. Riguarda i fondi dei Paesi del Golfo Persico più che quelli dell’Estremo Oriente: fuga dalla volatilità vuole dire anche certezza di regolamentazione e speditezza delle vertenze. Lo si pensa anche nel Bacino del Pacifico. Sono caratteristiche che l’Italia è in grado di offrire?
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