.
CLT - Musica, a Santa Cecilia una rinnovata “Leningrado” di Sostakovic
Roma, 11 nov (Il Velino) - E’ approdato per la prima volta a Roma, all’Accademia di Santa Cecilia, il giovane Kirill Petrenko, il quale, dopo una folgorante carriera in Germania, sta per diventare il direttore musicale dell’Opera di Stato di Monaco. Sul podio ceciliano, Petrenko ha eseguito in tre serate la “Sinfonia di Salmi” di Igor Stravinskij e la grandiosa settima sinfonia di “Leningrado” di Dmitri Sostakovic. I due compositori russi sono coloro che più hanno influito sulla musica del Novecento. Specialmente nell’integrazione tra vari generi: ad esempio, tra la grande sinfonica mahleriana e i sentieri dell’opera lirica aperti da maestri del teatro in musica, pur molto differenti, come Richard Strauss e Leos Janaceck, da un lato e il jazz e le esperienze timbriche più innovative, dall’altro. Occorre ricordare che in Italia solamente la Scala e i teatri di Firenze, Torino e Spoleto hanno messo in scena, nell’arco di un secolo, le due principali opere di Sostakovic (composte quando aveva tra i 24 e i 27 anni). Cosa spiega questo relativo oblio di un compositore che è stato, per tutta la vita, un comunista convinto, in un Paese come il nostro dove per decenni i comunisti, nelle cangianti denominazioni che ha preso specialmente negli ultimi tre lustri il loro partito politico di riferimento, hanno pur inteso detenere l’egemonia culturale? Come mai in Italia non si è trovato nessun distributore disposto a scommettere sul film di Tony Palmer “Testimony” del 1987 tratto dalle memorie di Sostakovic raccolte dal giornalista Solomon Volkov, nonostante il successo di pubblico in vari paesi ed una delle maggiori enciclopedie del cinematografo scriva :“B. Kingsley (il protagonista) è straordinario e c'è un eccezionale bianconero (con alcune sequenze a colori), pesante e fremente”? La vita e il percorso artistico di Sostakovic sono una dimostrazione incontrovertibile delle estreme difficoltà che l’intellettuale, anche un comunista convinto come lui, ha alle prese con il sistema (e la non cultura) del “socialismo reale”. Per questa ragione erano un tabù da non toccare negli anni dell’egemonia comunista nel pensiero culturale. I “percorsi predeterminati”, scrive il premio Nobel Douglas C. North nel libro, “Understanding the process of economic change”, sono radicati e pervicaci. Solo pochi coraggiosi , come l’ex sovrintendente dell’Opera di Roma Francesco Ernani (che quando era al Maggio Musicale aveva portato le opere di Sostakovic a Firenze) si sono impegnati a far conoscere agli italiani uno dei maggiori esponenti del “Novecento storico” sia musicale sia intellettuale.
Sostakovic nasce a San Pietroburgo il 25 settembre 1906. Studia nella sua città natale dove si accosta ai movimenti dell’avanguardia culturale incarnata da Majakovskij, Mejerhold, Prokofeev. Cresce da comunista doc. Il successo internazionale delle sue tre prime sinfonie, lo fanno diventare uno degli autori più ricercati per la composizione di musiche da film (il cinematografo era agli inizi e il Pcus ne aveva capito l’importanza al fine di plasmare l’opinione pubblica), nonché, a soli 24 anni, direttore del Teatro della Gioventù Operaia, il Malyi, della sua città (il cui nome era, nel contempo, diventato Leningrado). Il “suo” teatro si giustapponeva al paludato Marinskij, dove negli ori e negli stucchi dell’epoca zarista, si rappresentava l’opera dell’Ottocento, principalmente nella tradizione russa ed italiana, con alcune escursioni nel repertorio francese (ma quasi nessuna in quello tedesco). Un incarico che poteva essere attribuito unicamente a un fedelissimo del Partito, considerato come astro nascente della cultura marxista. E tale Sostakovic considerava se stesso ed era considerato dagli altri. Bisogna fare una precisazione: a Leningrado si respirava un comunismo libertario in alcune sfere (principalmente quella sessuale) molto differente da quella del burocratico moscovita. Il film di maggior successo era intitolato “L’amore a tre”; la commedia che “tutti dovevano vedere” era “La nazionalizzazione delle donne”; alcuni gay facevano “outing”, nonostante ai tempi degli zar l’omosessualità comportasse la pena di morte (come ben seppe Piotr I. Tchaikovskij)e successivamente venisse tollerata unicamente se praticata, in estrema discrezione, dai veri beniamini del regime (come il regista Serghei Eisenstein, che si appagava in lande lontane come il Messico e il Kazakistan). Le fotografie di Sostakovic mostrano che era di avvenenza straordinaria, nonché sempre vestito con estrema eleganza, vezzeggiato e adorato, quindi, dal gentil sesso tanto quanto il suo compagno di bagordi Michail Tuchaceckji, più anziano di lui di una decina di anni (abbastanza per essere stato “un eroe della rivoluzione” nonché della Prima guerra mondiale, ma, ciononostante, fatto fucilare da Stalin nel 1937).
In questo clima, nasce la sua prima opera, “Il naso”, da un racconto di Gogol del 1835, rappresentata con grande successo al Malyi il 18 gennaio 1930, quando non aveva ancora compiuto 25 anni. Era una satira terribile della burocrazia (quella zarista in Gogol, ma poteva sembrare anche quella moscovita). Un ritmo incalzante: dodici quadri in poco più di due ore di musica. Nonostante un’orchestra da camera, ben 60 personaggi in scena: 27 nel settimo quadro. Una partitura che fonde citazioni dalla grande tradizione classica con musica di puro intrattenimento e un campionario di effetti modernistici, quali intervalli esageratamente ampi, movimenti di scale, moti pendolari, trilli, canoni, artifici politonali. Ove ciò non bastasse a sbigottire, le scene erano astratte e cubiste (in Italia sarebbero state chiamate “futuriste”) e la regia si ispirava ai tempi velocissimi delle “comiche” del muto. Il pubblico, specialmente quello più giovane, andò in visibilio. Ma la critica accolse il lavoro (così distante dal realismo socialista che allora faceva i primi passi nell’estetica ufficiale) freddamente. Uno dei critici più accorti, Ivan Sollertinski, colse probabilmente nel segno scrivendo che “la musica distrugge sfumature storiche dei caratteri descritti, le generalizza e mostra uomini vivi, come fossero nostri contemporanei”. Dopo 14 repliche all’insegna del tutto esaurito, al direttore del Malyi, ossia a Sostakovic in persona, venne suggerita una pausa; l’opera venne ripresa la stagione successiva, ma successivamente, un silenzio, nell’Unione Sovietica, di ben 43 anni (nonostante venisse rappresentata all’estero, dove era giunta la partitura, e considerata come uno di capolavori della musica del Novecento a cui si ispiravano generazioni di giovani musicisti).
Tuttavia, i veri problemi dell’intellettuale comunista perbene, anche se “bon vivant”, stavano solo iniziando. A crearglieli, non era la vita personale complicata: intratteneva relazioni parallele con tre-quattro donne, di cui una, Nina Vasilevna Varzar diventò la sua prima moglie nel 1932 (ne ebbe tre) dopo un rapporto tempestoso oggetto di chiacchiere a non finire nella “San Pietroburgo-che-può”. Non erano neanche la cameristica e le musiche per film e per teatro che gli venivano commissionate senza tregua dalle istituzioni del regime. Fu la sua seconda e ultima opera lirica a farlo cadere in disgrazia con il sistema e a metterlo su una lunga strada di persecuzione. Dopo il grottesco “Il nano”, scelse un truculento racconto di Nicolai Leskov, uno scrittore contemporaneo di Tolstoi che pensava (a torto) di essersi assicurato un posto nella storia con romanzi “impegnati” sulla Russia contadina: “La lady Macbeth del distretto di Mensk”, uno storiaccia di sesso e sangue in cui la protagonista, Katerina Lvovna, borghese di provincia mal ammogliata e assatanata da pulsioni erotiche, uccide tutti gli uomini che si porta sotto le lenzuola (nel racconto, ammazza anche il proprio figlio in fasce, dopo averlo avuto dal bel Sergej, dotatissimo lavorante a giornata nell’azienda del suocero e del marito, già fatti fuori uno dopo l’altro). L’opera sarebbe dovuta essere la prima di una tetralogia dedicata alla donna russa, ovviamente alla donna post-rivoluzionaria, liberata sessualmente e, come scritto in “Testimony”, “di livello assai superiore al suo ambiente”. L’opera è “dedicata alla mia fidanzata, con cui poi mi sono sposato” e “imperniata su come potrebbero l’amore, se il mondo non fosse zeppo di cose abiette. Katerina è un genio della passione, per amore della quale è pronta a tutto, anche ad uccidere”. Una lettura del racconto di Leskov (autore apprezzatissimo da Gorki) in chiave marxista. Che l’argomento non fosse considerato poco appropriato, lo dimostra il fatto che probabilmente prima ancora di leggere il racconto, Sostakovic ne avesse avuto contezza tramite una versione cinematografica di Cesar Savinki: una lettura molto cruda in cui la protagonista appare come una vera e propria mantide serial killer. Quindi, nulla che potesse essere, almeno a prima vista, in contrasto con le tendenze del Partito in materia di arte e spettacolo. C’era, però, la musica. Prendiamo sempre cosa dice Sostakovic in persona in “Testimony”: “E’ musica fatta appositamente alla rovescia, in modo da non ricordare affatto la classica musica d’opera, da non avere nulla a che fare con il sinfonismo, con il linguaggio musicale semplice e comprensibile a tutti”. Sostakovic non poteva sapere che su percorsi analoghi si stavano mettendo compositori tedeschi (come Berg, Korngold, Krener, Zemlisky), le cui composizioni sarebbero state considerate degenerate dal nazismo e italiani (Malipiero, Dalla Piccola) i cui lavori sarebbero stati, invece, esaltati dal fascismo, specialmente dalla corrente modernista, e, quindi, anti-tradizionalista.
“La lady Macbeth” ebbe la prima rappresentazione il 22 gennaio 1934 al Malyi con un esito trionfale i cui echi furono tali da giungere oltre i confini dell’Urss, tanto che, cosa insolita in quegli anni, venne ripresa oltre che dai maggiori teatri russi anche Londra, a Praga e a Cleveland, nell’arco di meno di 18 mesi. Sembrava destinata ad un successo tale da assicurare l’ascesa del suo autore ai piani più alti delle gerarchie artistiche del regime. Sino a quando, la mattina del 28 gennaio 1936, la “Pravda” pubblicò un editoriale non firmato, ma pare dettato dallo stesso Stalin, e intitolato “Caos anziché musica”: si accusava il lavoro di pornografia e di cacofonia. Da allora, si era nel 1936, iniziò per Sostakovic non ancora trentenne, un processo di “mobbing” che durò sino alla fine degli anni ‘50. Si allontanò dal teatro in musica, nonostante avesse progettato di continuare la tetralogia sulla donna e stesse studiando anche altri libretti. Si buttò nella sinfonica per grande organico; la “quarta” sinfonia, composta tra sessioni di confronto con le “alte sfere” del partito (di cui, in piena sincerità, si dichiarava fedelissimo) non venne accolta dal successo delle prime tre ma da nuove critiche di “formalismo borghese”. Prende gradualmente le distanze dalla violenza iconoclasta del proprio linguaggio musicale degli anni ‘30. Dopo nuove critiche alla quinta sinfonia, la sesta, la settima, l’ottava e la nona rappresentano un percorso sempre più allineato a una visione conservatrice (ove non reazionaria) sotto il profilo musicale, ma proprio per questo vicina all’Accademia sovietica. Con la decima e l’undicesima, la transizione è completa: il dissacratore della Leningrado degli anni ‘30 è ormai approdato (siamo alle soglie degli anni ‘50) al tardoromanticismo di fine Ottocento in linea con il realismo socialista che piace a Andrei Zhdanov (il segretario del Comitato centrale del Pcus responsabile per la cultura e l’arte). Non solo. L’undicesima sinfonia (del 1957) e la dodicesima (del 1962) sono ormai dedicate alle celebrazioni, rispettivamente della guerra e rivoluzione del 1905 e di Lenin. Solo dopo la morte di Stalin, ritorna, moderatamente all’innovazione: nella tredicesima sinfonia introduce la voce solista (su testi di Evtuscenko). Nel 1963 propone una nuova edizione de “La lady Macbeth”, spurgata, però, nel testo, nella partitura e anche nel titolo (diventato “Katerina Lvovna”): ha grande successo in tutta l’Europa centrale nei repertori dei cui teatri entra definitivamente. E’ questa versione che viene conosciuta in Italia, principalmente tramite tournée dell’Opera di Zagabria, di Lubiana e anche di Sarajevo a Napoli, Genova e nei circuiti della Lombardia e dell’Emilia-Romagna tra gli anni ‘60 e ‘70. “La lady Macbeth” del 1934 si è ascoltata soltanto nel 1947 al Festival di musica contemporanea di Venezia, nel 1980 a Spoleto, nel 1987 a Trieste, nel 1992 alla Scala e nel 1994 e 1998 a Firenze.
La settima sinfonia eseguita a Roma da Petrenko, è stata già ascoltata diverse volte a Santa Cecilia. Le ultime due occasioni sono state nel 1998 e nel 2008, ambedue con la bacchetta di Valery Geergev ed è una delle più eseguite tra le 15 sinfonie di Sostakovic. Petrenko, che ha 38 anni e quindi non ha conosciuto l’orrore del comunismo se non quando era in piena implosione, ha dato un’interpretazione nuova al lavoro. Gli ha tolto la tinta guerriera per farla diventare una grande elegia di tutti coloro morti per il terrore sia nazista sia staliniano, come lo stesso di Sostakovic dichiarò nel libro di Volkov. L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha regalato un’occasione unica. Per i dettagli si veda la lunga recensione tecnica apparsa sul periodico britannico Music & Vision (www.dailyclassicalmusic.com).
(Hans Sachs) 11 nov 2010 11:27
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento