CLT - Lirica, la Fenice non cade nelle trappole dell’“Elisir d’amore”
Roma, 2 nov (Il Velino) - “L’Elisir d’amore” è un “melodramma giocoso” (tale la dizione ufficiale) di Felice Romani messo in musica da Gaetano Donizetti. Come tutti i capolavori è irto di trappole che, nelle esecuzioni più sempliciotte, si cerca di celare accentuando frizzi e lazzi resi possibili dal libretto. E’ un lavoro della piena maturità di un Donizetti trentacinquenne e sulla cresta dell’onda in quanto richiesto dai maggiori teatri. Si colloca, inoltre, come unica opera apparentemente leggera tra tanti drammi cupi (“Anna Bolena”, “Fausta”, “Ugo Conte di Parigi”, “Torquato Tasso”, “Lucrezia Borgia”) che caratterizzano un periodo creativo del compositore bergamasco travagliato da drammi personali e dai primissimi accenni del male che, dieci anni dopo, lo avrebbe portato alla pazzia e alla morte. Non è “buffo” di per se, ma un perfetto meccanismo in cui si combinano vari generi, alcuni dei quali comprensibili solo al pubblico del 1832, anno della prima (o giù di lì). Dei quattro protagonisti, unicamente il basso Dulcamara appartiene alla categoria dei “buffi”. Belcore è una satira raffinatissima, invece, delle convenzioni dell’“opera seria” in via di estinzione (si pensi al “Come Paride vezzoso”); Nemorino e Adina sono personaggi, anche vocalmente, da “comédie larmoyante” (quale, nel teatro italiano “La Gazza Ladra” rossiniana): non per nulla sono stati tra i cavalli di battaglia di Giuseppe Di Stefano, Nicolai Gedda, Carlo Bergonzi, Afredo Kraus il primo e Bidù Sayao, Renata Scotto, Mirella Freni, Joan Sutherland, la seconda. Non dimentichiamo che le interpretazioni più complete di Luciano Pavarotti, quando era nel fulgore della sua carriera, sono state proprie quelle in cui vestiva (con la sua mole) i panni del giovane e tenero contadinello in mal d’amore. Alle trappole vocali, si aggiungono quelle orchestrali. Pur nella piena maturità, Donizetti non ebbe nell’“Elisir” la compostezza orchestrale di altri suoi lavori, quali quelli intitolati alle tre regine Tudor o le opere composte in Francia. L’equilibrio orchestrale è instabile con i fiati (principalmente i tromboni) che tendono a sovrastare gli altri strumenti e in certi momenti a coprire i cantanti attori. “L’Elisir”, infine, è stato pensato per un teatro (quello della Canobbiana) di dimensioni medio-piccole, ove nessuno degli esecutori dove sforzarsi.
Occorre tenere conto di queste considerazioni per esaminare “L’ Elisir” in scena a Venezia a La Fenice sino all’11 novembre e che ci si augura trovi un vasto circuito dove essere visto e ascoltato, anche se a rigore non è un nuovo allestimento. La regia di Bepi Morassi e le scene i costumi di Gianmaurio Fercioni puntano su un spettacolo tradizionale e a costi contenuti: una scena fissa e una serie di siparietti dipinti dietro una piattaforma al centro del palcoscenico per dare corpo ai differenti ambienti. I toni sono sfumati, non sgargianti come si addice a una piéce dove è essenziale mantenere un delicato equilibrio tra i toni comici o ironici e quelli sentimentali che nell’ultima scena diventano erotici. Molta attenzione alla recitazione e a far partecipare il pubblico allo spettacolo con interventi del coro dalla platea. La sera della prima, il 29 ottobre, l’orchestra guidata da Matteo Beltrani, ha suonato in modo competente ma senza passione, ha scansato i trabocchetti, ha tenuto bene l’equilibrio buca-palcoscenico, ma è parsa lavorare essenzialmente al servizio delle voci.
Bruno De Simone (Dulcamara) e Roberto De Candia (Belcore) sono veterani dei ruoli e del grande palcoscenico de La Fenice (un teatro la cui acustica non è impeccabile, specialmente dopo i restauri resisi necessari dall’incendio). Affrontano i personaggi loro affidati con grande disinvoltura e, soprattutto De Candia, con l’auto-ironia di chi tutto ha compreso di Belcore. Desirée Rancatore ha la perizia vocale di Adina: sa soprattutto conservare la voce sino al breve, ma pieno d’effetti, rondò “Il mio rigor dimentica” che a grande richiesta del pubblico ha bissato. Poco prima Celso Albelo (nome relativamente nuovo della lirica italiana anche se ha avuto un grande successo nel “Rigoletto” romano pochi mesi fa) aveva bissato il terrificante “Una furtiva lacrima”, una delle arie favorite da Pavarotti, in cui ha dato prova di grande maestria, sfidando il Si bemolle della prima strofa e andando dolcemente al Re bemolle della seconda al Do di petto e al Sì naturale finale. Un’interpretazione memorabile anche in quanto timbro chiarissimo che riesce a esprime tutte le sfumature (anche il “Sì naturale”) di un “larmoyant” tenerissimo e dolcissimo tra cui “Cielo, si può morir” tinto da pulsioni erotiche che esplodono all’entrata in scena di Adina. Grandissimo successo.
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