L’IRANDA NON E’ LA GRECIA
Giuseppe Pennisi
L’Irlanda rischia di fare la fine della Grecia?
Il pericolo c’è. L’aumento dello spread tra gli interessi sui titoli irlandesi (e greci, spagnoli e portoghesi) rispetto a quelli di riferimento ( tedeschi, austriaci, francesi, finlandesi e del Benelux) è il sintomo di un male con radici profonde: da quando è nato l’euro, i disavanzi delle partite correnti di Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia hanno accumulato aumenti pari rispettivamente al 19%, 90%, l 85%, e 13% dei rispettivi Pil mentre le bilancia dei pagamenti di Germania, Paesi Bassi, Finlandia e Francia hanno rispettivamente accumulato saldi attivi pari al 32%, 54%,60% e 3% del Pil. Ciò è una conseguenza, in parte, del ristagno della produttività del lavoro (e per occupato e per ora lavorata) dei Paesi con i conti con l’estero in rosso. A sua volta, l’afflusso di capitali essenziale per saldare la bilancia dei pagamenti, ha causato un aumento del credito totale interno, la cui proporzione rispetto al Pil in Irlanda, Grecia e Spagna è raddoppiata, in Portogallo aumentata del 50% ed in Italia, grazie alla prudenza della nostra banca centrale e degli intermediari finanziari, cresciuta solo del 20%. L’aumento del credito totale interno, infine, ha causato un’inflazione strisciante (anche se “nascosta”) in tutti i settori dei Paesi in deficit ed in alcuni di loro (specialmente Spagna) una crescita iperbolica di comparti – come l’immobiliare – a basso rendimento.
Perché Dublino risponde negativamente alle offerte di aiuti dell’Eurogruppo del Fondo monetario?
Non lo fa né per orgoglio né per pregiudizio ma per ragioni economiche. In primo luogo, la cintura di sicurezza europea non è sufficiente a soddisfare il fabbisogno complessivo di Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia. In secondo, gli aiuti verrebbero letta dai mercati come una sconfitta, una dimostrazione d’incapacità equivalente ad un’insolvenza – con un aumento del costo di nuovi finanziamenti esteri per anni. In terzo, gli aiuti comporterebbero un severo programma di riassetto strutturale che Dublino teme di non essere in grado di sostenere.
Quali conseguenze per l’Italia?
Ciò che ci differenzia da Irlanda, Grecia, Spagna e Portogallo è l’aumento moderato del credito totale interno e, quindi, una minore inflazione “nascosta” e solo isolati “parossismi” (in alcuni quartieri di certe città) dell’immobiliare. In rapporto alla media dell’area dell’euro, però la produttività del nostro lavoro (e per occupato e per ora lavorata) è diminuita dal 1998: questa è la vera insidia.
Come uscirne?
E’ in corso uno smottamento dell’unione monetaria analogo a quello che avvenne nel 1967 prima della traumatica fine dell’area della sterlina. Per evitare il ripetersi di quel film, occorre una revisione dell’unione monetaria con una rinegoziazione delle parità centrali sottostanti l’euro (quanto un euro spagnolo o greco vale in termini dell’euro tedesco), bloccate (per motivi di convenienza politica- facilitare il negoziato di Maastricht) a quelle sottostanti il vecchio ECU (European Currency Unit) dello SME nel 1989 (mentre produttività, credito totale interno, prezzi hanno preso percorsi divergenti). Fantaeconomia coniugata con fantafinanza? Trent’anni fa, Wilhelm Hankle dell’Università di Francoforte ha documentato in un libro (Ceasar’s Money) che ha funzionato proprio così l’unione monetaria che è durata più a lungo: quella dell’Impero Romano. I nostri antenati non si intendevano solo di ponti e strade ma anche di come rendere solide le monete assestandone, di tanto in
La guerra delle monete coinvolge anche l’euro?
Anche se la "guerra delle monete" riguarda principalmente gli Stati Uniti e la Cina (ed i Paesi le cui valute sono in vario modo agganciate al dollaro Usa ed allo yuan cinese) le tensioni internazionali in atto acuiscono quelle all'interno dell'area "effettiva" dell'euro che, come sottolineato su Avvenire del 20 ottobre, si estende dai Caraibi al Pacifico a ragione di legami formali od informali con Paesi legati in qualche modo a Eurolandia.
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