UNA VORAGINE NELLE CASSE E CRESCITA ZERO. ECCO QUANTO CI COSTEREBBE UNA CRISI AL BUIO
Giuseppe Pennisi
Un “25 luglio” comporta, in primo luogo, la probabilità di un aumento del differenziale (in gergo lo spread) tra i tassi d’interesse sui titoli di stato a medio termine rispetto a quelli più favorevoli nell’area dell’euro (oggi quelli della Germania federale) e, quindi, di un aumento e dello stock di debito pubblico e degli oneri per fare fronte alle sue scadenze. Prima degli ultimi sussulti politici, i tassi d’interesse sui titoli di Stato italiani a dieci anni erano il 3,89 per cento l’anno rispetto al 2,56 per cento di quelli tedeschi. Le stime correnti sono che una “crisi al buio” potrebbe comportare un aumento dello “spread” tra i 20 ed i 40 punti di base (ossia, se i titoli tedeschi restano al 2,56 per cento l’anno, quelli italiani toccherebbero il 4,09-4,19 per cento l’anno).
Al fine di mantenere i saldi di cassa quali definiti nella “decisione di finanza pubblica”, ciò comporterebbe nuove misure, di una portata simile a quella effettuata dal Governo Dini nella primavera del 1995 (a fronte di una situazione analoga). Allora, l’operazione venne effettuata prevalentemente dal lato delle entrate. Oggi si dovrà operare, esclusivamente sul fronte della spesa pubblica non solo perché tanto il Governo quanto l’opposizione si sono impegnati a non aumentare la pressione tributaria contributiva (la seconda più elevata al mondo) ma anche perché nessun Esecutivo vorrà presentarsi alle urne sulla scia di un aggravio fiscale. Anche se non fortissimo – 7-8 miliardi di euro –, l’”aggiustamento” sarà tale da rendere difficile effettuare tagli “lineari” (ossia ridurre della stessa percentuale il bilancio di ciascun dicastero ed altri enti di spesa, come effettuato negli ultimi due esercizi finanziari); innescherà una battaglia su chi soffrirà di più e metterà lo scompiglio nelle amministrazioni che stanno già faticosamente dedicando tempo ed energia a riassestare i proprio programmi in seguito alla “decisione di finanza pubblica”e ai “tagli” ad essa conseguenti. Nel lessico degli economisti, il costo di transazione (disorientamento degli uffici, lavoro duplicato per i nuovi “tagli” ) sarà una pesante addizionale.
Gli effetti sull’economia reale sono un probabile rallentamento della produzione di beni e servizi rispetto alle stime più recenti: il “consensus” dei 20 maggiori istituti internazionali di previsione pongono all’1% per cento l’anno sia il preconsuntivo del 2010 (che sta per terminare) sia la stima “media” per il 2011. La media è il risultato di un campo di variazione ampio: due istituti stimano, per l’anno prossimo, un tasso di crescita dell’1,5 per cento (nell’ipotesi di un forte andamento del commercio internazionale) ma ben quattro pongono l’aumento del Pil italiano attorno allo 0,5 per cento. E’ probabile che, nell’eventualità di un “2% luglio” , in realtà, l’economia vada verso la punta più bassa e l’Italia si trovi un’altra volta a crescita zero o rasoterra. In tal caso, l’obiettivo di giungere al 2014 al Pil realizzato nel 2007 (l’anno della crisi finanziaria) dovrà essere spostato in avanti , allungando il numero di “annate di vacche magre”.
Non ci si devono aspettare conseguenze pesanti dal lato dei prezzi (il cui tasso di aumento è, ora, attorno all’1,6 per cento l’anno. Grave, invece, l’impatto sull’occupazione . Il tasso di chi cerca lavoro senza trovarlo viaggia verso il 10 per cento di chi può e vuole lavorare. L’incertezza derivante dalla crisi aumenterà l’isteresi, termine che l’economia ha mutuato dalla fisica per indicare i tempi perché le imprese riprendano, dopo una crisi, a riassumere.
A queste conseguenze macro-economiche a breve e medio termine si aggiungono quelle , più difficilmente, quantizzabili del mancato avvio delle riforme previste nel piano i cui contenuti sono stati anticipati dal Foglio.
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