L’ITALIA, L’EU E LA POLITICA INDUSTRIALE
Giuseppe Pennisi
In che misura una “politica industriale” italiana in questo primo scorcio di 21simo secolo può essere in linea con quel documento Ue “Europa 2020” che dovrebbe costituire la stella polare delle strategie di integrazione europea nei prossimi anni?
E’ utile ricordare quali sono i punti essenziali di “Europa 2020” e cosa si è inteso in Italia per “politica industriale”.Il primo è un compito semplice. Più complesso il secondo poiché il significato del termine ha avuto un’evoluzione considerevole neegli ultimi decenni.
“Europa 2020” è un documento snello di 30 pagine a stampa fitta- un merito importante data la nota predilezione di Bruxelles per volumi ponderosi. La crisi economica – afferma la premessa del documento - ha messo a nudo le gravi carenze di un'economia già resa fragile dalla globalizzazione, dal depauperamento delle risorse e dall'invecchiamento demografico. La Commissione dichiara che questi ostacoli possono essere superati, se l'Europa decide di optare per un mercato “più verde e innovativo”. La strategia individua le seguenti priorità: sostenere le industrie a basse emissioni di CO2, investire nello sviluppo di nuovi prodotti, promuovere l'economia digitale e modernizzare l'istruzione e la formazione. Propone inoltre cinque obiettivi quantitativi, compreso l'innalzamento del tasso di occupazione ad almeno il 75% dall'attuale 69% e l'aumento della spesa per ricerca e sviluppo al 3% del prodotto interno lordo. Attualmente quest'ultima rappresenta soltanto il 2% del PIL, un livello di gran lunga inferiore a quello di Usa e Giappone. La nuova strategia riconferma gli ambiziosi obiettivi dell'UE in materia di cambiamenti climatici (20/20/20) e propone di ridurre il tasso di povertà del 25% per aiutare circa 20 milioni di persone ad uscire dall'indigenza. Nel campo dell'istruzione, la Commissione vuole portare il tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10% (dall'attuale 15%) e accrescere in maniera significativa (dal 31% al 40%) la percentuale dei giovani trentenni con un'istruzione universitaria. Nessuno di questi obiettivi sottintende una “politica industriale” nei vari significati che, di volta in volta, ha avuto il termine.
Il documento propone che i governi concordino obiettivi nazionali che tengano conto delle condizioni di ciascun paese, aiutando nel contempo l'UE nel suo insieme a raggiungere i suoi traguardi. La Commissione controllerà i progressi compiuti e, in caso di "risposta inadeguata", formulerà un monito. L'UE già sorveglia le finanze pubbliche per evitare squilibri tali da mettere in pericolo l'area dell'euro. La nuova strategia va tuttavia oltre e affronta anche altri problemi che potrebbero minare la competitività dell'UE.
Vengono individuate sette iniziative prioritarie per stimolare la crescita e l'occupazione. Tra queste figurano i programmi per migliorare le condizioni e l'accesso ai finanziamenti nel settore della R&S, l'introduzione in tempi rapidi dell'Internet ad alta velocità e il maggiore ricorso alle energie rinnovabili. Programmi che potrebbero essere letti come parte di una “politica industriale” “a basso potenziale” e tale ds guardare al lungo periodo, piuttosto che al breve e medio (quali le situazioni di crisi di questa o quella azienda o di questo o quel comparto).
L’Italia, Paese definito di “tarda industrializzazione” nelle storie economiche dell’Europa, non ha parlato di “politica industriale”, ma ne ha fatta a partire dell’età giolittiana, intensificandola (ed, in gran misura, razionalizzandola durante il fascismo). “Politica industriale” è stata uno dei temi principale di dibattito a partire dall’inizio degli Anni Sessanta e, quindi, dall’inizio del centro-sinistra. In una prima lunga fase si è seguita quella che veniva chiamata “la politica dei settori”, ossia l’identificazione di settori che, tramite poli di sviluppo ed interdipendenze, fossero in grado di trainare il resto dell’economia. Si è favorita l’industria di base (metallurgia, siderurgia, chimica), unitamente, sin troppo ovviamente, con la metalmeccanica. I risultati sono stati inferiori alle aspettative, in gran misura perché puntavamo su comparti i cui costi di produzione erano notevolmente inferiori ai nostri in Paesi del vicino Mediterraneo. Negli ultimi due decenni del 20simo secolo, l’accento è passato ad una “politica dei fattori”, sgravi tributari e deroghe alla normativa generale sul lavoro, sia generalizzati sia diretti a comparti od ad aree territoriali da promuovere o d cui alleviare il declino. La “politica dei fattori” è stata accompagnata da strumenti etichettati “incentivi” che celavano sussidi più o meno espliciti a questo o quel comparto da incoraggiare o di cui attenuare le difficoltà. La “politica dei fattori” è stata rivalutata recentemente in analisi retrospettive degli Anni Ottanta, ma è stata gradualmente abbandonata in quanto molti dei suoi aspetti, e delle sue misure specifiche, non in linea con le regole EU in materia di concorrenza. Anche ove una lettura forzata della normativa europea, rendesse possibile un rilancio della “politica dei fattori”, le difficoltà di bilancio pubblico non rendono pratica una “politica dei fattori” (ed ancor meno una “politica dei settori) analoghe a quelle del passato.
Come affrontare allora i nodi delle vertenze per industrie in difficoltà che si accumulano al Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) ? E, soprattutto, come rilanciare il manifatturiero in modo che l’Italia sia in grado di agganciarsi ai segni di ripresa mondiale?
Nel breve periodo, la strada più facilmente percorribile consiste nel facilitare ristrutturazioni e riorganizzazioni mirate ad una migliore produttività ed ad una maggiore competitività ; occorre ,però, un’attenta valutazione finanziaria ed economica dei piani specifici di riorganizzazione e ristrutturazione. Il MISE dispone a riguardo di un’apposita unità di valutazione, che dovrebbe essere utilizzata a pieno regime.
Per il più lungo termine, le giaculatorie di “Europa 2020” per una maggiore e migliore ricerca ed innovazione minacciano di diventare mere novene se non accompagnate da risorse finanziarie (anche esse attentamente valutate) che la finanza pubblica non è in grado di fornire. Una possibilità da esplorare con attenzione consiste nell’attirare l’attenzione e l’interesse del Long Term Investors Club, l’associazione di grandi investitori istituzionali come la Cassa Depositi e Prestiti, la Caisse de Depots et Consignations, la Banca europea degli investimenti, ed alcuni fondi sovrani. E’ una strada perfettamente in linea con “Europa 2020”.
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