CLT - Opera/ Il Regio accoglie freddamente (a ragione) “I Vespri” verdiani
Parma, 13 ott (Il Velino) - Doveva essere il boccone più succulento del Festival Verdi in corso a Parma sino a fine ottobre. “I Vespri Siciliani” sono un’opera raramente messa in scena a ragione delle difficoltà che comporta (se ne ricorda un solo allestimento memorabile, quello del 1986 a Bologna). Invece la “prima”, domenica scorsa, è stata accompagnata da alcuni fischi, lunghi intervalli tra una scena all’altra, mentre il pubblico in sala si domandava cosa stesse accadendo dietro il sipario (verosimilmente si negoziava sul continuare o meno), applausi al baritono (Leo Nucci), al basso (Giacomo Prestìa) e al coro, freddezza per la regia, la concertazione e gli altri interpreti. Tra il quarto e il quinto atto è stato annunciato che Fabio Armiliato era indisposto. Ma la situazione non stava andando bene sin dal primo duetto con Daniela Dessì che ha interpretato lo stesso ruolo una quindicina di anni fa a Roma. Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, l’allestimento (Pier Luigi Pizzi cura regia, scene e costumi). L’azione viene spostata dal 1282 al 1855, o giù di lì e le viene dato un afflato risorgimentale. Un espediente trito e ritrito, dato che il libretto, già utilizzato per “Il Duca d’Alba” di Gaetano Donizetti, di risorgimentale non ha nulla. Una sola opera verdiana “La Battaglia di Legnano” ha uno spiccato carattere patriottico in quanto commissionata dalla Repubblica Romana del 1849. Inoltre Verdi partecipò con distacco al movimento per l’unità d’Italia e ancor meno risorgimentale poteva essere un lavoro commissionato dai Teatri Imperiali di Napoleone III, non certo un sanculotto o un rivoluzionario.
Nell’allestimento “povero”, quattro barche rappresentano Palermo, un salone con specchiera il palazzo angioino e via discorrendo sino ai siciliani abbigliati da “picciotti”, più adatti a “Cavalleria Rusticana” che a “I Vespri”. Inoltre la vicenda pare svolgersi tutta di notte: manca il sole della Sicilia, nonostante Verdi vi avesse inserito, con poco rispetto per la storia, pure un lucente bolero. Non mancano, occorre sottolinearlo, intelligenti movimenti del coro, in tutta la sala e nei palchi (non unicamente sul palcoscenico) con relativi effetti stereofonici. Difficile vedere come se ne potrà trarre un dvd senza profonde modifiche. Per quanto riguarda la concertazione, Massimo Zanetti non si è distanziato dalla più vieta routine. Nulla di analogo alla lucente concertazione di Riccardo Chailly a Bologna nel 1986 o a quelle di Riccardo Muti in uno spettacolo scaligero, in cui le voci però subirono una batteria di sonori fischi. Infine, le voci sono la parte più delicata di un’opera riscoperta negli anni Settanta a Parigi grazie a un’interpretazione da favola di Monserrat Caballè.
Il lavoro richiede undici solisti e affida al soprano, e ancor di più al tenore, difficoltà terrificanti negli acuti, nei “si” naturali e nel terribile “re” dell’ultima aria. Solo pochi tenori italiani (Filippeschi, Lucchetti) sono usciti indenni da una scrittura vocale concepita per l’agilità, il volume e la tinta che furoreggiavano all’Opéra alla metà dell’Ottocento. In tempi recenti, alcuni tenori americani, britannici e asiatici si sono cimentati abbastanza bene con questo tipo di repertorio. Analogamente il soprano alterna momenti di intesa drammaticità vocale con quelli di grandi lirismo. Dopo quattro ore, il Regio era gelido. Pare che lo spettacolo debba andare in estate allo Sferisterio Festival di Macerata. Auguriamoci che nei prossimi mesi venga ripensato.
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