lunedì 18 ottobre 2010

ALLE ORIGINI DELL’ECONOMIA DELLA FELICITA’ in CHARTA MINUTA Ottobre

ALLE ORIGINI DELL’ECONOMIA DELLA FELICITA’
Giuseppe Pennisi

Il dibattito sintetizzato, in Italia, con l’etichetta “Oltre il Pil”, è antico quasi quanto le disciplina economica o , almeno la contabilità economica nazionale. Angus Maddison (“Monitoring the World Economy”, OECD 1995 ), scomparso di recente ma certamente il maggiore specialista in materia degli ultimi sei decenni, è riuscito a ricostruire la contabilità economica nazionale dei maggiori (ricostruendo, quindi, la contabilità economica mondiale) dal 1830 o giù di lì. Prima di allora le tecniche di raccolta ed elaborazione dei dati non erano tali da consentire una stima anche solo approssimativa di quanto venisse prodotto e consumato nell’economia di un Paese: può interessare che, secondo il certosino lavoro di Maddison, nel 1830 oltre il 40% del Pil mondiale venisse prodotto e consumato in due soli Paesi – Cina ed India: prima della rivoluzione industriale, in un mondo dominato dall’economia di sussistenza , è naturale che gran parte della produzione fosse per auto consumo e, di conseguenza, il Pil fosse essenzialmente funzione della popolazione.
Nella mia attività professionale, mi sono interessati a tematiche tecnico-statistiche connesse alla contabilità economica nazionale solamente all’inizio delle mia carriera in Banca mondiale: ancora allora, in molti Paesi dell’Africa a sud del Sahara , l’agricoltura di sussistenza rappresentava circa la metà del prodotto lordo di un Paese e, di conseguenza, il Pil era in gran misura funzione della popolazione e della propria produzione per autoconsumo (non sempre agevole da stimare). Negli ultimi anni, mi sono riavvicinato a queste tematiche più per le implicazioni di politica economica in Paesi ad alto livello di sviluppo e di reddito che sotto il profilo tecnico-statistico.
In effetti si è sviluppata una letteratura scientifica molto vasta che ha influito su una pubblicistica divulgativa pure essa vastissima (anche se, spesso, poco accurata) . Insieme questi due tipi (pur molto differenti) di letteratura hanno alimentato un dibattito anche in “think tanks” e fondazioni d’ispirazione politica. Questa nota ha l’obiettivo di facilitare la comprensione di alcuni concetti di base poiché il dibattito in corso rischia di diventare confuso. Riguarda essenzialmente uno dei quattro aspetti in cui è stato declinato il dibattito: quello dell’”economia della felicità” che non aspira a nuove convenzioni statistico- contabilità internazionali (che , al pari di quelle attualmente seguite- in gergo SEC 95, richiedere un utopistico accordo internazionale, meglio se in seno alle Nazioni Unite , ossia un trattata ratificato da circa 200 parlamenti), ma meramente integrazioni alle prassi correnti.
Per un’analisi di come “l’economia della felicità” si coniughi con il dibattito “oltre il Pil) , credo che tutti gli interessati debbano leggere e meditare il saggio di Marc Fleurbaey “Beyond the GDP : the Quest for a Measure of Social Welfare”, pubblicato sul numero di dicembre 2009 del Journal of Economic Literature . Si tratta, a mio avviso, della più completa rassegna della letteratura disponibile (circa 300 titoli), molti dei quali facilmente reperibile sui principali siti di ricerca in materia di economia. Fleurbaey costruisce una tassonomia dei principali filoni del dibattito:
• a) in primo luogo, l’introduzione di correzioni alle attuale regole e prassi di contabilità economica nazionale, una strada impervia non solo per l’aspetto giuridico-organizzativo a cui si è fatto cenno ma anche per difficoltà tecnico-statistiche quali quelle attinenti alla “contabilità verde” ed alla “contabilità degli impatti sulle generazioni future”. In breve , le integrazioni più promettenti riguardano stime di produzione e lavoro non retribuito e di certe categorie di consumi (integrazioni non troppo dissimili da quelle per le stime dell’economia di sussistenza.
• b) in secondo luogo, la scuola di pensiero che mette l’accento sulla “capacitazione”, ossia sulle opportunità di cui fruiscono i componenti della collettività di cui si cerca di misurare il “Pil esteso”. Il concetto di “capacitazione” deriva dalle analisi di Amartya Sen in materia di “nuova economia del benessere”. La sua applicazione alla contabilità economica nazionale, ed alla “misurazione del Pil esteso”, ha sino ad ora prodotto unicamente un lungo elenco di problemi (non solo statistici ma soprattutto di scelte collettive) da risolvere. Una strada, quindi, lunga ed impervia.
• c) In terzo luogo, il percorso degli “indicatori sintetici”, sovente adottato in documenti della Commissione Europea ed analogo ad esercizi effettuati nei primi passi della programmazione economica in Italia, negli Anni Sessanta. E’ stato riproposto, soprattutto in Francia ed in Italia, ma non si aggancia ad una teoria economica solida e può facilmente dare luogo a conclusioni arbitrarie.
• d) in quarto luogo, la strada dell’”economia della felicità” , con attenzione speciale alle difficoltà di raffrontare stati di soddisfazione di vari gruppi della società. Nonostante i suoi limiti, l’”economia della felicità” ha il vantaggio di collegarsi a vari aspetti della “nuova economia del benessere” tutti tesi a giungere ad una maggiore e migliore comprensione della distribuzione di preferenze e valori tra varie categorie della società, campi su cui si lavora da anni e che, proprio a ragione di analisi iniziate alcuni decenni fa, possono rappresentare un percorso utile per andare “oltre il Pil”.


Negli ultimi cinque anni, alla ricerca di un sentiero che porti “oltre il Pil”, Joseph Stiglitz ha abbracciato l’”economia della felicità” con l’entusiasmo dei neofiti. In effetti – chi sa se si ricorda ancora di quando, all’inizio anni Settanta, a Nairobi e si andava a lunch a The Thorn Tree a Kimaty Road ed a cena o da Jacques o a The Lobster Pot – il suo principale contributo alla professione è stata la teoria economica dell’informazione tanto sotto il profilo macro quanto sotto quello micro. Cominciò a lavorarci – ne fece il punto centrale della prolusione pronunciata quando gli venne conferito il Premio Nobel dell’Economia nel 2001- in quella fucina di pensiero e fantasia che era l’Istitute of Development Studies (IDS) della capitale del Kenya. Lì lavorava, fianco a fianco, con John Harris, Micheal Todaro e Richard Jolly specialmente sull’economia del lavoro e del capitale umano allo scopo di comprendere cosa inducesse tanti genitori e tanti ragazzi a completare cicli d’istruzione e migrare verso città dove non c’era lavoro per loro. Stiglitz, con Harris, Todaro e Jolly risposero che la determinante era un sistema distorto d’informazioni. Ho vivo e vivido in mente quel periodo perché, allora in Banca Mondiale, faceva luchi e frequenti soggiorni a Nairobi e frequentava l’IDS. Temi importanti ma distanti dall’”economia della felicità”ma che erano stati al centro dell’attenzione degli economisti classici scozzesi e degli studiosi di economia pubblica e scienza delle finanze italiani e svedesi all’inizio del secolo scorso.

L’”economia della felicità “ –alla voce “economics of happiness” di Goggle escono circa 10 milioni di “entry”- viene da lontano ed è entrata anche nella pubblicistica giornalistica da decenni. Alla metà degli Anni 80, ad esempio, uscì sul “Wall Street Journal” un lungo articolo di un economista d’azienda giapponese intitolato, non senza una punta di polemica, “Konatabe, GNP!” (“Vai al diavolo, Pil ”- ma in nipponico, l’espressione è molto più volgare). In breve, l’articolo sosteneva che poiché il fine pure costituzionale del Giappone moderno è il “perseguimento della felicità”, occorre misurare la crescita non in termini di aumento del valore aggiunto di beni e servizi e della sua consueta ripartizione tra consumi e risparmi/investimenti ma in termini di incremento della felicità sia pubblica sia privata. Tanto più che tecniche di indagine socio-economica e psicologica (quali quelle delle “valutazioni contingenti”) ne rendevano fattibile la misurazione.

L’”economia della felicità” è divenuta una disciplina a se stante , con cattedre ad essa specificatamente intitolate, all’inizio degli Anni 90. Da una decina d’anni c’è anche una manualistica per integrare le analisi consuete , con tecniche condivise per il calcolo della felicità, specialmente sotto il profilo micro-economico. Non si tratta, necessariamente, di letteratura che fa ricorso a modellistica arcana ed ad algoritmi complicati. Tra i lavori in italiano (nonché basati su studi ed esperienze italiane) di rilievo il libro Luigino Bruni e Stefano Zamagni “Economia civile, equità, felicità pubblica” , Il Mulino 2004.) . A livello pubblicistico, io ne ho trattato spesso sul settimanale “Il Domenicale” e su alcuni quotidiani.
Tra le applicazioni recenti, utile ricordare il dibattito su tassazione progressiva e felicità (sia pubblica sia privata) . Importante l’indagine empirica sull’impatto del benessere economico in termini di felicità in Australia , Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi ed Ungheria. L’indagine individua un tratto comune nei cinque: le spese per beni di consumo durevole contano almeno quanto i flussi di reddito in termini di felicità. Inoltre (altro tratto comune) cambiamenti in livelli di ricchezza, di reddito e di consumo producono mutamenti relativamente modesti in termini di soddisfazione, ossia di felicità. Da diversi anni, gli abbonati al servizio telematico del Social Science Resarch Network ricevono – ogni giorno – due newsletter con abstracts di saggi (con la possibilità di scaricarli) che trattano di “economia dei comportamenti” ; una delle due riguarda la metodologia, l’altra esperimenti concreti effettuati quasi in condizioni quasi di laboratorio (come un’aula universitaria allo scopo, ad esempio, di determinare cosa renda “più felice” un gruppo di giovani, voti più alti agli esami o maggior tempo libero).
Guardando verso il futuro a lungo termine, secondo un’analisi del servizio studi della Banca d’Italia, alla fine del XXI secolo, ci accontenteremo di un Pil a crescita rasoterra poiché comunque, a ragione della diminuzione della popolazione, il reddito pro-capite mostrerà leggeri aumenti.
Facciamo un passo indietro . Negli anni 80, l’”economia della felicità” non aveva ancora raggiunto il rango di una disciplina vera e propria, con cattedre ad essa attribuite e pure Premi Nobel tra i suoi cultori. Si era agli inizi. O meglio ai prolegomeni. Mahbub-ul-Haq, a lungo dirigente della Banca Mondiale, e successivamente Ministro della Programmazione del Pakistan, prima di andare alla guida del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, aveva fondato l’Human Development Center e pubblicava ogni anno un “Human Development Report”, corredato da appositi indicatori (nonché indici compositi) di sviluppo umano che facesse da contraltare al “World Development Report” della Banca Mondiale. Richard Jolly, allora Vice Direttore generale dell’Unicef, proponeva l’utilizzazione di indicatori di sviluppo umano per la valutazione dei progetti come integrazioni di quelli dell’analisi costi benefici (ed in certi casi come loro alternativa).
Oggi, non si è più ad uno stadio meramente pionieristico. Anche se c’è ancora molta strada da fare prima di giungere ad una manualistica puntuale con tecniche condivise per il calcolo della felicità in termini sia micro-economici sia soprattutto macro-economici, non mancano lavori accessibili anche al pubblico che non ha preparazione matematico-formale. Questi lavori analizzano gli effetti economici della felicità e di converso il ruolo della felicità nel plasmare politiche economiche. Tra i più utili vale la pena citare il libro di Bruno Frey e Alois Stutzer “Happiness and Economics; how the economy and the institutions affect human well-being”, “Felicità ed economia; come l’economia e le istituzioni incidono sul benessere umano” Princeton University Press, 2002. Bruno Frey – ricordiamolo – è noto in Italia per i suoi studi teorici ed empirici in tema di economia delle arti sceniche (in particolare di quella musa bizzarra ed altera che è l’opera lirica), nonché di economia del terrorismo e nell’anti-terrorismo; economista di vasti interessi è diventato titolare della cattedra di “economia della felicità” all’Università di Zurigo. Un nesso tra lo studio delle arti sceniche, del terrorismo e della felicità c’è ed è molto forte: si ha, comunque, a che fare con l’analisi economica dei sentimenti e con l’interazione tra comportamenti economici (sia micro sia macro) e sentimenti- campo a cui ha dato apporti di grande spessore, negli ultimi dieci anni, Jon Elster ed in cui la strumentazione dell’economia deve essere coniugata con quelle della psicologia e della sociologia.
Sulla scorta del lavoro di Bruno Frey e Alois Stutzer , il Cancelliere dello Scacchiere britannico, ha fatto riferimento ai paradigmi della “nuova economia della felicità” in un paio delle relazioni di presentazione, al Parlamento di Westminister, del bilancio di previsione, un documento analogo al nostro Dpef . A convincere il flemmatico inglese non è stato solo il dotto libro di Frey e Stutzer, due svizzeri un po’ pedanti, ma anche e soprattutto le quantizzazioni di Andrew Oswald dell’Università di Warwick e di Andrew Clarck del Cnr francese in un interessante saggio dal titolo “un metodo statistico semplice per misurare gli effetti della vita che incidono sulla felicità”. Oswald è lieto di mandarne copia telematica a chi glielo chiede a.j.oswald@warwick.ac.uk. Con il “metodo statistico semplice” si quantizza ad esempio che una vita di coppia ben vissuta ed ovviamente basata sul matrimonio (non su qualche sorta di Pacs) vale € 90.000 euro l’anno di felicità economica. Il divorzio equivale ad una perdita di felicità economica per ben € 270.000 l’anno (sino a quando gli interessati non costruiscono, su nuovi matrimoni, nuove felici vite di coppia). La morte del coniuge, invece, causa una perdita di felicità economica che, in certi casi, sfiora i € 200.000 l’anno nei primi tempi dopo l’avvenimento per ridursi via via che passano gli anni. Il valore, in termini di felicità economica, della perdita del lavoro varia notevolmente su base regionale (in funzione delle opportunità dal lato della domanda e delle rigidità da quello dell’offerta).
E le pensioni? Oswald e Clarck stanno lavorando a quantizzare quanto andare in quiescenza vale in termini di aumento o perdita di felicità, individuale e nazionale. Li ha battuti sui tempi Kerwin Kofi Charles della Università del Michigan che a fine luglio ha pubblicato un voluminoso studio dal titolo: “La pensione deprime? Incentivi a restare sul mercato del lavoro ed il benessere psicologico nell’ultima fase della vita”. Charles è generoso: lo invia, per pochi dollari di spese postali, a chi (senza dirlo al suo editore) gli scrive a kcharles@unimich.edu . Il lavoro consiste in un raffinato modello econometrico dell’interazione tra vita attiva, vita da pensionato, benessere psicologico e felicità (e dei suoi effetti su aggregati e politiche). L’analisi empirica riguarda tre campioni: coorti di sessantenni e settantenni (negli Usa l’età della pensione non è obbligatoria) andati a riposo all’inizio degli Anni Novanta e coorti, sempre di sessantenni e di settantenni, in pensione dall’inizio degli Anni Ottanta. Dopo pagine e pagine di algoritmi e statistiche, le conclusioni: la pensione deprime chi ce la ha, danneggiando sia l’individuo sia il Paese. “La ricerca economica non se ne è accorta perché ha posto l’accento sulle cause non sulle conseguenze della decisione di andare in pensione”. Lo sanno, però, nella lontana Singapore, dove chiunque fa un giro turistico della città Stato, viene informato dalla guida sulle misure che vengono prese per mantenere gli anziani “attivi e mentalmente e fisicamente sani”: ginnastica in tutti i quartieri, protezione dell’ambiente e giardinaggio, cura dei bambini in età pre-scolare, supporto a fare i compiti per quelli che vanno a scuola, assistenza ai disabili (loro coetanei o meno), gestione di biblioteche, impieghi part-time nel terziario (favoritissimi i fast food) e via discorrendo.
Tra le altre applicazioni recenti, interessante il dibattito su tassazione progressiva e felicità (sia pubblica sia privata) che ha contrapposto tra l’altro due esperti americani di rango di scienza delle finanze come Thomas Griffith e Diane M. Ring. Importante , e molto attuale, l’indagine empirica condotta da Ruud Muffles (Università di Tilburg), Bruce Headey e Mark Wooden (ambedue dell’Università di Melbourne) sull’impatto del benessere economico in termini di felicità in Australia , Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi ed Ungheria. L’indagine (basata sulle inchieste periodiche sui consumi delle famiglie effettuate dagli uffici statistici dei cinque Paesi) individua un tratto comune nei cinque Paesi (per molti aspetti distinti e distanti in termini di sistema economico e di reddito-pro-capite): le spese per beni di consumo durevole contano almeno quanto i flussi di reddito in termini di felicità. Inoltre (altro tratto comune) cambiamenti in livelli di ricchezza, di reddito e di consumo producono mutamenti relativamente modesti in termini di soddisfazione, ossia di felicità.
E’ un tema solo da Paesi e società che hanno raggiunto livelli di reddito di reddito e di consumo tali da poter fare fronte alle loro esigenze di base? Non proprio. Così come un quarto di secolo fa, i contributi alla costruzione degli indici di sviluppo umano sono venuti in gran parte da economisti e sociologi dei Paesi invia di sviluppo, ancora una volta apporti teorici all’economia della felicità vengono da studiosi di economia, sociologia e psicologia (materia fondante della disciplina) di lande lontane, spesso ancora del tutto ignoti in Europa e negli Usa. Un esempio è Viswanatha Sankara Rama Subramanian che ha pubblicato, in India, un saggio molto stimolante (disponibile, in Europa, unicamente sul web o rivolgendosi a drvsrs@hotmail.com ) sullo sviluppo (e sulla gestione) della felicità come pre-requisito per la crescita economica, o per accelerarne i tempi.
Si possono applicare alcuni paradigmi dell’economia delle felicità alla situazione economica italiana? Vediamone un paio di esempi prima di lanciare una provocazione. Innanzitutto, altrove ho offerto una spiegazione dell’andamento economico italiano negli ultimi dieci anni non solamente in termini del contesto internazionale e delle politiche di forte aumento della pressione fiscale (sette punti punti percentuali del pil) attuate nella legislatura 1996-2001 dai quattro Governi di sinistra allora succedutesi proprio mentre si restringevano anche i freni monetari. E’ in gioco anche l’economia della felicità: il tenore di vita viene misurato ed avvertito in termini di reddito spendibile pro-capite, che in un Paese caratterizzato da marcato invecchiamento e demografia stazionaria (sarebbe calante senza l’apporto degli immigrati), aumenta anche quando il pil ristagna. Pertanto, se le nostre prospettive sono (come documentato da Albert Ando, Mit, e da Sergio Nicoletti Altimari, Bce, in un lavoro commissionato e pubblicato dalla Banca d’Italia) di un declino della popolazione italiana da 55 milioni nel 2005 a 25 milioni alla fine del secolo, ci accontentiamo e ci accontenteremo di un Pil a crescita rasoterra perché comunque il reddito pro-capite mostrerà leggeri aumenti. Una spiegazione analoga può essere offerta al dibattito in corso ormai da due anni sulle poche ore di lavoro effettivo svolte dagli europei (e dagli italiani in particolare) relativamente a quelle effettuate dagli americani: in un contesto di reddito pro-capite comparativamente elevato, “il salario di riserva” per l’ora aggiuntiva di lavoro (ossia quello si richiede per lavorare un’ora in più) diventa elevato, perché tale diventa la disutilità della fatica. Già alla fine degli Anni Ottanta, Luca Meldolesi scriveva “Mezzogiorno con gioia!” per indicare che i nodi dello sviluppo meridionale si sarebbero potuti affrontare unicamente mettendo nel cassetto la melanconia mediterranea e prendendoli di petto “con gioia”.

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