Roma-Teatro Nazionale
La maschera di Punkitititi
Opera in tre atti
Ideazione e Libretto di Quirino Conti e Marco Ravasini
Musica di Marco Taralli
In primo luogo, è sempre da salutare con gioia la “prima mondiale” di una nuova opera italiana . Quando ero giovane, era una consuetudine di quasi tutti i teatri d’opera italiani, specialmente dei più importanti (come quelli di Roma e Milano) presentarne una ogni stagione; oggi è prassi dei teatri americani, tedeschi e nord-europei e comincia ad esserlo anche di quelli francesi. Mentre in Italia è un’occasione rara. Specialmente se si tratta di commissioni a compositori ancora giovani. In secondo luogo, è anche da salutare con gioia che la commissione non riguardi necessariamente la contemporaneità o anche l’avanguardia più avanzata, ma uno spettacolo che strizza un occhio al pubblico, con un intreccio ben articolato, un pizzico di sesso trasgressivo ed una partitura tonale; negli Stati Uniti, questi ingredienti hanno portato ad un nuovo genere di teatro in musica – in Italia se ne è avuto un assaggio alcuni fa con A Streetcar named Desire di Previn a Torino e se ne avrà un altro con 1984 di Maazel tra qualche mese a Milano – che sta facendo rinascere l’opera commerciale per il grande pubblico. Quindi, occorre complimentarsi con il Teatro dell’Opera di Roma per l’idea.
Fatta questa premessa, veniamo alle specifiche del lavoro. La Maschera di Pùnkititi è stata inizialmente commissionata tra le opere da mettere in scena nel corso delle celebrazioni mozartiani del 2006. I tagli improvvisi del Fondo unico per lo spettacolo (Fus) costrinsero ad un rinvio – nel corso del quale il lavoro deve essersi dilatato, poiché da “un atto (e tre quadri)” inizialmente annunciato è adesso un’”opera in tre atti”che, con un solo breve intervallo, tra il primo atto e gli altri due, ha una durata complessiva di oltre due ore e mezzo e richiede un organico orchestrate di medie proporzioni.
Pùnkititi è uno dei tanti pseudonomini che, come si ricava dal suo epistolario, Mozart utilizzava parlando di se medesimo nel corso dei suoi viaggi. La vicenda dell’opera ruota attorno una scultura in cera in omaggio a Wolfgang Amadeus. Siamo nel Nord Europa agli inizi del Novecento, nel laboratorio di un ipotetico Museo dell’Uomo, lo sculture Volfango si propone questo compito e vuole creare una statua il più simile possibile all’originale (di cui non si conoscono le esatte fattezze). E’ poco interessato a Mozart, ma molto a Wagner e a Beethoven, il direttore (e si presume) proprietario del Museo, l’anziano Lardoux. I due hanno in comune un legame omo-erotico con il bel modello Morel. Lardoux non sa di “divedere” Morel con Volfango. Il modello è verosimilmente bisessuale perché corteggia intensamente la giovane e bella assistente di Volfango, Corinne, pur se è sinceramente innamorato dello scultore ed a Lardoux vende le proprie prestazioni in cambio di denaro. Morel riesce a trovare la maschera mortuaria di Mozart ed a darla come pegno d’amore a Volfango. Prima ancora però che lo sculture apra il pacco, veda la maschera e legga la lettera, viene ucciso, per errore, da Lardoux che rientrando, con la propria bellissima moglie, da un concerto, gli spara scambiandolo per un ladro (ed in effetti il bel Morel stava cercando di scassinare la cassaforte del suo, per così dire, mecenate ed amante). Il testo di Quirino Conti (eclettico architetto e stilista) e Marco Ravasin (verificatore) tratta la materia con tutta la delicatezza e l’eleganza del caso.
Il programma di sala parla di atmosfera proustiana e di incontro tra Mozart e Proust. Il lancio stampa ha posto molto l’accento sugli aspetti “gay” dell’opera, presentandola come prima opera “gay” italiana. In effetti, Volfango (baritono), Lardoux (basso) e Morel (tenore) sono adulti consenzienti – il primo ed il terzo di mezza età, il terzo anziano – tutti e tre in scena sempre in giacca e cravatta; le loro effusioni avvengono fuori scena o brevemente dietro un paravanto. Questo intreccio principale è condito da intrecci secondari: la rivalità tra Corinne e la precedente assistente di Volfango, la complessa psicologia della moglie di Lardoux, e via discorrendo. In pratica, questi altri aspetti appesantiscono la drammaturgia di quella che potrebbe essere una piece d’atmosphère , inserendovi elementi eruditi che rallentano l’azione. Ad esempio, l’intero primo atto è Ein Koversationsstück für Musik (per dirla tedesco) o una Chit-Chat Opera (per dirla in inglese) oppure una Conversazioni in musica tra Volfango, Corinna e la sua assistente precedente (Morel arriva soltanto alla fine dell’atto) , ma manca il genio di Clemens Krauss e Richard Strauss; resta, dunque, piuttosto sterile, ove non noioso. Anche in quanto infarcito di continue citazioni – mozartiane - e non solo (molto presenti pure quelle pucciniane) tanto da diventare quasi un gioco ad indovinare i riferimenti.
La scrittura musicale e vocale è – si è detto – tonale. Ciò non è di per se stesso un difetto; considero Salvatore Giuliano (la cui scrittura è rigorosamente tonale) di Lorenzo Ferrero uno dei lavori più interessanti di teatro in musica dell’ultimo quarto di secolo, mentre apprezzo poco le opere tonali di Marco Betta, specialmente i Singspiel. In questo lavoro, Taralli non è cugino né di Ferrero né di Betta; la sua scrittura sembra rifarsi all’inizio del secolo scorso, ove non a Cilea. E’ musica gradevole che si ascolta piacevolmente (la si gusterebbe ancora di più se il lavoro fosse più breve) e che segue tutte le convenzioni dei primi anni del Novecento: dal sinfonismo in buca d’orchestra, al “conversar cantando” ed al declamato che scivolano in numeri, al concertato finale (rafforzato da un terzetto per voci bianche) all’intermezzo orchestrale tra il secondo il terzo atti. La scrittura è impeccabile ed alcuni momenti (ad esempio l’intermezzo) molto belli. Sembra, però, di essere tornati indietro di cento anni. Occorre anche dire che la paritura migliora di atto in atto, acquisendo nel terzo una tensione drammatica che non ci sarebbe affatto attesi sulla base del primo. L’orchestra ed il coro del Teatro dell’Opera, guidati da Vittorio Parisi e Gea Gatti Ansini danno una buona prova.
E’ necessario, però, fare un distinguo importante: all’inizio del Novecento, dopo la lunga fase del melodramma verdiano (passionale ma mai erotico), con Manon Lescaut l’eros era ri-esploso prepotentemente nel teatro in musica italiano (non era mai sparito da quello tedesco e francese) mentre, nonostante l’intreccio “gay” (ed il battage di stampa creato per l’occasione), di eros non c’è neanche un accenno nella partitura di Taralli. Ancora una volta, l’eros può essere trascinante in opere su temi “gay”: si pensi a Castor et Polluce di Rameau (lussuosa lettura “gay” della Versailles del Re Sole) oppure a Bully Budd di Britten (dove il sadismo “gay” di Claggart viene contrapposto al rapporto affettivo, prima che erotico, tra Billy e il novizio, prima che quest’ultimo si venda a Claggart) oppure ancora al duetto del secondo quadro del secondo atto di Eugene Oneighin Tchaikosvky. Nelle musica di Pùnkititi di eros non c’è traccia. Questo è uno dei limiti maggiori del lavoro.
Il Teatro dell’Opera di Roma ho prodotto comunque un allestimento di grande classe. L’allestimento, le scene ed i costumi di Quirino Conte utilizzano in molto molto astuto lo spazio, non certo felice, del Teatro Nazionale (palcoscenico poco profonda, buca d’orchestra ristretta). Di poustiano c’è l’atmosfera, quasi il profumo. Di mozartiano l’impianto ed i colori degli allestimenti di Don Giovanni e Nozze di Figaro di Conte nella sala più grande, il Teatro Costanzi. Grande attenzione – come sempre negli allestimenti di Conte – ai dettagli ed alla recitazione.
Lo asseconda una buona squadra di cantanti attori. Dopo un periodo in cui ci era parso di avere perso lo smalto, Paolo Coni sembra tornato ai suoi tempi migliori (quelli dell’Oneighin bolognese del 1991) pure in quanto è alle prese con un ruolo in cui la recitazione fa premio su una vocalità piuttosto semplice. Danilo Formaggia conferma di essere un tenore con ottimo registro di mezzo. Efficace Enzo Capuano nel breve, ma importante ruolo di Lardoux. Tra le voci femminili, spiccano la Corinna di Donata D’Annunzio Lombardi e la Mme Lardoux di Olga Adamovich.
E’ obbligo del cronista riferire che alla “prima” c’era il “tout Rome” delle grandi occasioni che ha coronato lo spettacolo con circa dieci minuti di applausi. Doveroso anche aggiungere che il giorno successivo alla “prima” ho ascoltato tre opere cariche di eros, nell’ordine Le Compte Ory di Rossini, Die Gezeichneten di Schreker e la libidinosissima Die Ägyptsche Helena di Strauss.
Roma, Teatro Nazionale, 18 dicembre
Giuseppe Pennisi
LA LOCANDINA
La maschera di Punkitititi
Opera in tre atti
Ideazione e Libretto di Quirino Conti e Marco Ravasini
Musica di Marco Taralli
Maestro di coro
Andrea Giorgi
Regista
Quirino Conti
Scene, Costumi
Quirino Conti
Direzione Musicale
Maestro del coro
Vittorio Parisi ~
Gea Garatti Ansini
Volfango
Paolo Coni
Corinna
Donata D'Annunzio Lombardi
Madame Bernardaky
Rosa Ricciotti /
Morel
Danilo Formaggia
Madame Lardoux
Paola Francesca Natale
Monsieur Lardoux
Enzo Capuano
La Pettinatrice
Gemma Gabriella Stimola
Il Truccatore
Carlos Natale
Il Sarto/Un Impiegato
Roberto Nencini
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