sabato 29 dicembre 2007

QUANTO COSTANO LE (NON) RIFORME ANNUNCIATE

A che gli faceva notare quanto fosse “alta” la spesa per l’istruzione (una delle voci principali del bilancio francese), Marc Blondel, leader storico di Force Ouvrière , il sindacato laico francese, usava rispondere: “l’ignoranza è molto più cara”.
Dovrebbe ricordarsene, Romano Prodi. Alla conferenza stampa di fine 2006, promise (dopo la maxistangata fiscale) un programma di riforme per lo sviluppo a lungo termine. A quella del 27 dicembre 2007, di riforme non ha parlato. Avrebbe avuto ben poco da mostrare: una contro-riforma in materia previdenziale, ritocchi in altri campi, inazione in tema di privatizzazioni e di liberalizzazioni. In breve, volge al termine “l’anno delle non-riforme”. Le riforme costano (poiché occorre compensare alcuni gruppi sociali per certi costi di breve periodo). Parafrasando Blondel, pensiamo che le “non-riforme” sono molto più care. Non in base all’intuizione che le “non-riforme” sono una delle determinanti del più basso potenziale di crescita di lungo periodo (tra quelli dei Paesi Ocse) computato dalla Bce per l’Italia, un misero 1,3% l’anno (vedi Libero Mercato del 22 dicembre). Ma sulla scorta di analisi puntali note allo staff economico di Prodi (e di TPS).
La prima è uno studio dell’Ocse di pochi mesi fa che non avuto quasi alcuna diffusione in Italia. Misura il differenziale di lungo termine di un indicatore composito (livelli e crescita del tenore di vita a parità di potere d’acquisto) rispetto ad un benchmark (metro di confronto) convenzionale, gli Usa: Italia e Giappone sono i Paesi che presentano il divario maggiore. Le non-riforme ci costano un tasso di crescita potenziale di almeno mezzo punto del pil l’anno: una legislatura di non riforme vuol dire una riduzione media dei tenori di vita almeno del 3% rispetto a quanto sarebbe stato possibile. Un’analisi freschissima del maggiore istituto tedesco di ricerca economica (l’Ifo) conferma queste stime.
Lo studio contiene indicazioni specifiche per mettersi al passo. Per l’Italia, esse sono le seguenti: a) intensificare l’utilizzazione del lavoro (riducendo il cuneo fiscale ed incoraggiando la contrattazione collettiva decentrata al posto di quella nazionale) e b) aumentarne la produttività (promuovendo la concorrenza nei servizi cominciando dalla privatizzazione e liberalizzazione di quelli pubblici, migliorare scuola e università, modernizzare corporate governance e diritto fallimentare). Tutte aree, avrebbe detto il comico Petrolini, in cui l’azione del Governo è stata così fine che non si vede.
Un lavoro di Michel Strawczynki della Banca centrale d’Istraele, ancora in bozza ma discusso in questi giorni in Bankitalia, mette in luce un altro aspetto: a fronte di shock esterni forti e persistenti, quali quelli che caratterizzano l’Italia alle prese con l’integrazione internazionale, la politica di bilancio tende ad essere pro-ciclica, ossia ad assecondare lo shock non a contrastarlo, aggravandone gli effetti (proprio come avvenuto con le ultime due finanziarie).
In Bocca al Lupo e Buon Anno!

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