MALI/ Così la Francia mette a rischio Europa e cristiani
sabato 19
gennaio 2013
In questi giorni, la stampa italiana si interessa
molto del Mali, nonostante sino a poche settimane fa molti nostri giornalisti
non sapessero dove indicare il Paese sulla carta geografica (anche se la crisi
politica e militare maliana, e lo scontro tra islamisti radicali e moderati
fossero noti da tempo a chi si interessa dei problemi non solo dell’Africa a
Sud del Sahara ma anche del Mediterraneo). In effetti, ho letto un unico
articolo equilibrato e ben informato (sotto il profilo dell’analisi politica)
quello di Nicoletta Pirozzi su Affari Internazionali, il bel magazine
dell’Istituto Affari Internazionali. È una dura requisitoria contro la politica
estera francese in Africa (e nel Mediterraneo), un avvertimento all’Unione
europea (e agli Stati che ne fanno parte) a non seguirla e una proposta su come
risolvere la crisi facendo leva sulle organizzazioni regionali africane (prime
tra tutte l’Ecowas) nell’ambito dell’Unione africana.
Nicoletta Pirozzi non tratta, però, né delle
lunghe premesse storiche della crisi, né del suo significato economico. Il Mali
non è solo una vasta e ondulata distesa di sabbia sino al fiume di Niger, ai
suoi affluenti e alla catena di montagne che lo separa dal Burkina Faso. È
anche il terzo produttore d’oro del mondo, uno dei maggiori esportatori di
carne e di bestiame e uno dei maggiori esportatori di cotone a fibra lunga
(molto ricercato per la haute couture). Non è poi escluso che il suo sottosuolo
contenga petrolio e potassio (sono in corso ricerche) di qualità simili a
quelle del Marocco e dell’Algeria.
Nei 18 anni passati in Banca Mondiale e nei
quattro passati alla Fao ho lavorato prevalentemente sull’Estremo Oriente e
sull’Africa a Sud del Sahara. Ho avuto modo di conoscere paesi, Capi di Stato,
Ministri, accademici e soprattutto tanta gente comune. Il Mali è stato il mio
“battesimo” africano: vi passai circa otto settimane nell’aprile-giugno 1969 e
da allora ho avuto modo di visitarlo molte altre volte, riuscendo a masticare
un po’ di Bambara, la lingua dell’etnia dominante nel Sud.
Il Mali e i suoi confini geografici sono frutto
dell’epoca coniale, quando nel 1890 (in seguito al Trattato di Berlino
arbitrato da Bismarck) Gran Bretagna e Francia si divisero la zona
immediatamente a sud del Sahara in due parti, per l’appunto il Sudan francese e
il Sudan britannico. Dopo l’indipendenza, quello “francese” prese il nome di un
antico impero africano (per l’appunto il Mali dal tredicesimo al sedicesimo
secolo) e fu uno dei due paesi di quella che era stata l’Africa coloniale
francese a schierarsi non con l’antica metropoli ma con il Patto di Varsavia,
prima, e con la Cina, poi.
Nel 1969, la Banca Mondiale fece una prima
profonda analisi economica del Paese, dopo che un nuovo Governo (militare), con
l’aiuto di Rue Monsieur a Parigi (formalmente Ministero della Cooperazione, ma
essenzialmente sede di intrighi politici-commerciali-industriali
dell’ex-metropoli nei confronti delle ex colonie aveva messo alle porte i russi
e raffreddato i rapporti con i cinesi. Nell’ambito dell’antico impero del Mali
(da cui emerse l’Impero Songhai che controllò per un secolo parte del Paese)
convivevano varie etnie e forme statuali (come nel Sacro Romano Impero del
Seicento); dal diciottesimo secolo all’arrivo dei francesi nelle ultime decadi
del diciannovesimo, gli Imperi del Mali e del Songhai si frammentarono in Regni
continuamente in guerra gli uni contro gli altri. Nel quattordicesimo secolo,
con Musa I Imperatore, l’Islam divento “la religione di Stato”, come confermato
da editti su tessuto conservati a Timbuctù.
Negli Settata e Ottanta del secolo scorso (quando
sono stato spesso nella regione), nonostante il Paese fosse formalmente una
Repubblica, da Mopti a quello che ora è il Burkina Faso molte questioni
venivano risolte nell’ambito delle regole tradizionali del Regno Dogon, il cui
Re (educato a Parigi e Mosca) ho più volte incontrato. Nonostante l’influenza
francese, e l’esistenza di una bella Cattedrale a Bamako (in stile anni
Trenta), il cristianesimo non hai fatto troppa strada. La popolazione era, ed
è, o animista o musulmana; non per nulla in Mali ci sono magnifiche moschee
(stupenda quella di Mopti, contornata dal fiume Niger e dai suoi affluenti: una
Venezia che sbuca dal deserto) e l’ormai abbandonato grande centro universitario
e culturale di Timbuctù .
Dissidi etnici sono sempre stati una
caratteristica della regione. Prima dell’arrivo degli europei, venivano risolti
o in modo cooperativo per problemi di sopravvivenza ecologica (nella
transumanza si decideva collegialmente quali uomini e quali bestie si dovevano
lasciare indietro quando il pascolo si inaridiva) oppure con guerre. Chi
perdeva diventava schiavo del vincitore e dal Seicento veniva portato, dopo un
lungo percorso a piedi (almeno la metà periva nel tragitto) all’isola di Gorée,
di fronte a Dakar, per essere venduto di solito a mercanti portoghesi; ancora
oggi si possono visitare le prigioni e il mercato dove avveniva l’asta,
principalmente di uomini - poche erano le donne prigioniere che venivano di
solito adibite ai servizi domestici del vincitore.
I contrasti e le lotte tra clan ed etnie sono
sempre stati endemici come lo erano nel Sacro Impero Romano in Europa e in
India tra i Rajput. Con lo sviluppo tecnologico, in un terreno del genere, si
alimenta inevitabilmente il terrorismo. Mentre numerose voci esultano per
l’intervento della Francia in Mali, ne vedo serie insidie. L’esito può essere
disastroso, come lo è stato dieci anni fa nella regione dei Grandi Laghi
(Ruanda e Burundi, due Stati fantoccio governati da plenipotenziari di Rue
Monsieur) e in Congo, nonché più recentemente in Libia. Anche se si giungerà a
una tregua (come in Costa d’Avorio) sarà probabilmente di breve durata e
aggraverà i sentimenti anti-europei e anti-cristiani (si veda cosa sta
avvenendo in Nigeria).
Cosa fare? I problemi sono millenari: meglio lasciare
che i Bambara, i Dogon, i Tuareg, i Kita, i Fulani, i Boufalabé, i Sarakole, i
Malinke se li risolvano tra loro come fanno da sempre. Oppure con un intervento
dell’Ecowas (l’unione economica dell’Africa Occidentale) e dell’Unione
africana. Oppure ancora con quello delle Nazioni Unite. Un supporto armato
dell’ex metropoli coloniale (benedetto dall’Europa) in favore dei Bambara
rischia di aggravare la situazione in Mali e di esportare nuovo terrorismo in
Europa, soprattutto verso quei paesi che offrono anche solamente supporto
logistico.
Non si tratta di perdere solamente l’oro del Mali, il
cotone a fibra lunga e potenzialmente potassio e oli minerali, ma di evitare
un’ondata di terrorismo. Al pari dei Rajuput indiani, i Bambara, i Dogon, i
Tuareg, i Kita, i Fulani, i Boufalabé, i Sarakole, i Malinke sono guerrieri e
guerriglieri prima di essere allevatori o coltivatori.
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