martedì 29 gennaio 2013

LA PREVEGGENZA DI UN MUSICISTA ED INTELLETTUALE SCOMODO: BENJAMIN BRITTEN in Nuova Antologia No 4 2012

Una ricorrenza che rischia di passare inosservata
L’anno prossimo tutti i teatri e tutte le sale da concerto saranno impegnati
a celebrare il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi e di Richard
Wagner, due sommi maestri del teatro in musica di tutti i tempi. Il 2013 è
anche il centenario della nascita di Benjamin Britten. Con Richard Strauss
e Leóš Janácˇek, Benjamin Britten è uno dei tre maggiori autori del teatro in
musica del «Novecento storico». Inoltre, una delle sue opere più note The
Turn of the Screw (Il giro di vite dall’omonima novella di Henry James)
nasce da una commissione del Teatro La Fenice di Venezia nell’ambito
della Biennale di musica contemporanea quando (e non in tempi tanto
lontani: la «prima» ebbe luogo il 14 settembre 1954) i teatri italiani commissionavano
capolavori ai maggiori compositori internazionali. Sotto il
profilo personale, Britten era molto legato all’Italia. C’è il rischio che la
ricorrenza passi inosservata, così come stava per avvenire nel 2012 per il
centocinquantenario dalla nascita di Claude Debussy, di cui si è ricordato
quasi solamente il Festival MiTo che ogni settembre lega Torino e Milano.
C’è un precedente relativo a Britten. Nel 2006, anno mozartiano per
eccellenza, ricorreva il trentennale dalla sua morte. In quella occasione, la
Fondazione Parma Capitale Europea della Musica ha organizzato un minifestival,
affidandolo alla bacchetta di Bruno Bartoletti ed alternando The
Turn of the Screw con il War Requiem (ascoltato, peraltro, pochi mesi
prima, nell’ottobre 2005, a Roma, eseguito dall’orchestra dell’Accademia
di Santa Cecilia guidata da Antonio Pappano, grande estimatore di Britten
ed allora appena insediato alla guida dell’orchestra romana, e più di recente,
nel maggio 2011 sempre al Parco della Musica di Roma con i comples-
LA PREVEGGENZA DI UN MUSICISTA
ED INTELLETTUALE SCOMODO:
BENJAMIN BRITTEN
La preveggenza di un musicista ed intellettuale scomodo: Benjamin Britten 179
si dell’Accademia diretti da Semyon Bychkov). Sempre a Parma, nel 2006
si è tenuta una giornata di studio su Britten musicista ed intellettuale «scomodo
». Altra iniziativa di rilievo è stata presa dai teatri di Rovigo e Modena
che hanno messo in scena un allestimento delizioso della squisita
opera per bambini The Little Sweep (Il piccolo spazzacamino). Questa
volta, alcuni dei maggiori teatri hanno, per così dire, giocato d’anticipo;
La Scala ha, ad esempio, presentato in primavera avanzata Peter Grimes.
Il Teatro dell’Opera di Roma ha proposto, proprio per il solstizio d’estate
A Midsummer Night’s Dream, il Festival di Spoleto è stato aperto in luglio
da un nuovo allestimento di The Turn of the Screw, ma per il 2013 l’unica
proposta di cui si sente parlare è la rappresentazione, se possibile in una
chiesa romana, delle tre brevi parabole religiose nell’ambito della stagione
del Teatro dell’Opera.
Non si può certo pensare che Britten non riscuota il favore del pubblico
italiano. Poco eseguito in Italia per anni (la sola eccezione è Roma grazie
principalmente ai programmi di musica contemporanea dell’orchestra della
Rai), in questi ultimi due lustri c’è stata una ripresa dell’interesse e dei
teatri e – quel che più conta – del pubblico. The Turn of the Screw è stato
visto, prima che a Parma nel 2006 ed a Spoleto nel 2012, a Torino, a Roma
ed a Cagliari nella seconda metà degli anni Novanta; Peter Grimes a Firenze,
a Milano, a Reggio Emilia ed a Ferrara; Billy Budd a Venezia, Torino e
Genova; A Death in Venice a Genova, Firenze e Milano; e The Rape of
Lucretia a Genova e Firenze, A Midsummer Night’s Dream a Roma già una
dozzina di anni fa, a Napoli, alla Scala e nel circuito toscano; Albert Herring
nel circuito emiliano ed a Cosenza; gli apologhi sacri sono stati messi in
scena a Spoleto; il Saint Nicholas a Bari ed a Montepulciano; The Little
Sweep a Palermo, oltre che a Rovigo e Modena. L’elenco non è esaustivo
ma indicativo del successo del teatro in musica di Britten. L’Orchestra di
Roma e del Lazio, quando era in attività, ha proposto gran parte della sua
musica sacra. Il pubblico non è mai mancato; gli «esauriti» sono la prova
più concreta dell’apprezzamento. D’altro canto, basta pensare che la sua
ultima opera, A Death in Venice, ha avuto nel solo 1973, anno della sua
prima rappresentazione, ben 15 differenti allestimenti (tra cui Aldeburgh
dove Britten risiedeva, Venezia, Edimburgo, Bruxelles e Londra) e l’anno
seguente è approdata con enorme successo al Metropolitan di New York.
Lo stile musicale eclettico di Britten non rifiuta mai la scrittura tonale ed
è accattivante anche per chi non ha dimestichezza con le convenzioni della
musica del Novecento: pur continuando nella grande tradizione britannica
iniziata con Purcell, fa propria (nel teatro in musica) la tecnica di Alban Berg
(almeno negli ultimi lavori) di adottare la forma classica di un tema su cui
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costruire ciascuna scena inserendo molteplici variazioni, ed intercalando le
varie scene con intermezzi indipendenti che servono da elementi di unificazione
musicale e drammatica. Altro aspetto fondante è la capacità di ottenere
il massimo colore e calore orchestrale con il minimo di organico (unicamente
13 elementi ad esempio in The Turn of the Screw ed una versione ad organico
ridotto per Billy Budd pur concepito, inizialmente, come un grand opéra).
Grande attenzione, poi, alle voci. Pur nel rispetto delle convenzioni,
riscopre il controtenore e lo accompagna (in A Midsummer Night’s Dream)
in duetti estatici con un soprano di coloratura. Oppure, in Billy Budd utilizza
17 voci maschili (5 tenori, 8 baritoni, un baritono basso e 3 bassi) e
nessuna voce femminile, affidando la vocalità chiara ad un quartetto di
adolescenti e dieci fanciulli che non cantano ma chiacchierano sullo sfondo.
In The Turn of the Screw, invece, le voci sono quasi esclusivamente femminili
(tre soprani e due voci bianche) con cui contrasta un bari-tenore. Naturalmente
il metodo di organizzazione cambia quando si tratta di musica
concepita per essere eseguita in chiesa, in cui il pubblico viene considerato
non in veste di spettatore ma di compartecipe all’azione liturgica; quindi,
alcune parti erano pensate perché venissero eseguite dall’intera congregazione.
Britten era molto religioso e non è chiaro se ad un certo momento
della sua vita fosse diventato cattolico, anche a ragione di composizioni, tra
cui una Missa Brevis, basate sulla liturgia cattolica.
A fronte di una certa avanguardia atonale e dodecafonica che aveva
trovato il proprio fortilizio a Darmstadt, che espandeva l’organico anche al
di là di quanto previsto da Mahler e che componeva su testi di impronta
marxista, Britten era scomodo per vari motivi: mostrava che si poteva innovare
(sino a costruire nuove esperienze foniche) ed avere successo pur
lavorando con mezzi ridotti e scrivendo partiture che avevano il favore del
pubblico; traeva ispirazione da una vasta gamma di fonti (dalla Bibbia alle
leggende popolari Usa, al teatro nô nipponico, alla letteratura inglese, alla
storia romana, alla narrativa di Maupassant e di Mann), nessuna delle quali
di stampo marxista, ma molte di origine religiosa oppure rilette in chiave
cristiana. Era anche scomodo perché, pur riconosciuto come «compositore
di corte» (l’opera Gloriana composta per il Covent Garden in occasione
dell’incoronazione della Regina Elisabetta II è, però, forse uno dei suoi lavori
meno rappresentati e tra quelli da molti considerati tra i meno riusciti),
si teneva lontano dal mercato delle sovvenzioni pubbliche: si vantava di
riuscire a mandare avanti il Festival di Aldeburgh in gran parte con la biglietteria
ed i diritti d’autore per i suoi lavori (che avevano grande successo
non solo nel mondo anglosassone ma anche in Estremo Oriente, dove trasse
ispirazione per la breve opera Curlew River, il balletto The Prince of
La preveggenza di un musicista ed intellettuale scomodo: Benjamin Britten 181
Pagodas ed il ciclo Songs from the Chinese). Era soprattutto un intellettuale
scomodo perché era diventato il compositore ufficiale di corte pur avendo
eluso la leva alla Seconda guerra mondiale (andando oltre Atlantico) e
dividendo la propria vita, dall’età di 23 anni sino alla morte con il tenore
Peter Pears, senza mai dare adito a scandalo (e, forse, mantenendo un rapporto
casto), in una Gran Bretagna dove vigevano leggi pesanti contro chi
praticava l’omosessualità (tanto che per mettere in scena a Londra il dramma
di Arthur Miller A View from the Bridge nel 1956, con la regia di Peter
Brook, si dovette ricorrere al sotterfugio di trasformare il teatro New Watergate,
nel West End, in un club privato). Ce ne è abbastanza per essere,
per certa intellighenzia, scomodo ancora adesso.
In questa nota, però, non intendo cercare di ricordare la vasta e complessa
opera di Britten ma di leggere alcuni dei suoi lavori fondanti sotto un
punto di vista preciso: la preveggenza di un compositore, principalmente ma
non solamente, di teatro in musica che si poneva, incessantemente, il problema
di come far vivere la «musa bizzarra e altera», ossia l’opera lirica, e
darle un pubblico, in un’epoca densa di tante altre sollecitazioni (dal cinema,
alla televisione alla riduzione dei tempi e dei costi dei trasporti e, quindi,
all’aumento del turismo) ed in cui gli alti costi di produzione di uno spettacolo
rendono questa forma di espressione artistica sempre meno competitiva
rispetto alle altre. Per questa ragione, già nel 1946, in una Gran Bretagna
impoverita dal conflitto, Britten riapre il Festival di Glyndebourne nel Sussex,
ora diventato il più esclusivo dei festival musicali (non accetta sovvenzioni
pubbliche e la lista di attesa per diventarne soci è di 20 anni). Nel 1947, poi,
Britten crea l’English Opera Group – una compagnia itinerante che con
pochi mezzi potesse portare la lirica in città anche minori della Gran Bretagna
(ebbe gran successo pure in Svizzera ed in Olanda). Sempre per questo
motivo, pur considerato «compositore di corte» (e di una corte protestante),
si trasferisce, con il suo compagno di vita, il tenore Peter Pears, ed il suo
librettista preferito, il poeta Eric Crozier, in una piccola «casa rossa» nella
cittadina di Aldeburgh, nel Suffolk, dove quasi tutte le sue opere vengono
pensate per la Jubilee Hall (250 posti e senza una vera buca d’orchestra od
un effettivo palcoscenico, sino a quando non venne ampliata in occasione
della prima di A Midsummer Night’s Dream nel 1960). Non tratterò i lavori
di Britten in ordine cronologico, ma partendo dai due grand opéra, Gloriana
e Billy Budd (e dal War Requiem ad essi assimilato a ragione della
grandezza della concezione e dell’organico richiesto) per arrivare a quelli
più intimi e più ristretti, da cui ancora oggi a cento anni dalla nascita ed a
circa 37 dalla morte, Britten può essere d’insegnamento.
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I grand opéra: Billy Budd, War Requiem, Gloriana
Credo che a Britten si debbano attribuire tre, non due, lavori nello
stile di un moderno grand opéra; per moderno, intendo con analogie al
grand opéra americano (ad esempio Antony and Cleopatra di Samuel Barber
o Sophie’s Choice di Nicholas Maw) non a quello «padano» che ebbe
un certo successo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (e di
cui l’unico esempio ancora in scena è La Gioconda di Amilcare Ponchielli).
Di questi il primo (Billy Budd del 1951) deve considerarsi unicamente
frutto della sua ispirazione e di quella dei suoi librettisti (Edward Morgan
Forster ed Eric Crozier), mentre gli altri due (Gloriana del 1953 e War
Requiem del 1962) sono commissioni avute rispettivamente per i festeggiamenti
relativi all’incoronazione di Elisabetta II ed il completamento nel
1962 del restauro della Cattedrale di Canterbury, seriamente danneggiata
dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale.
Quando Britten affrontò Billy Budd aveva già composto uno dei suoi
capolavori Peter Grimes che era andato in scena, nel 1945, al Sadler’s Wells
Theatre, riscuotendo un enorme successo ed era stato riproposto nei maggiori
teatri d’opera di tutto il mondo (anche se l’autore non era stato completamente
accettato nell’ambiente musicale britannico). La prima di Billy
Budd alla Royal Opera House e la parallela commissione da presentare alla
corte, al governo ed a capi di Stato e di governo convenuti a Londra per le
cerimonie dell’incoronazione dimostra che, nel giro di un lustro, Britten era
diventato il più importante compositore della Gran Bretagna, consacrato
come «compositore di corte», nonostante la sua «diversità» e la sua sostanziale
diserzione nella Seconda guerra mondiale.
Nella versione iniziale, Billy Budd era un grand opéra in quattro atti, ridotto,
per un’esecuzione alla BBC in un lavoro in due atti con prologo ed epilogo
(la versione corrente di riferimento) e successivamente ancora modificato per
un organico leggero (per le tournée) ed ancora per una versione cameristica,
con una riduzione del cast e l’accompagnamento di due pianoforti. L’opera è
tratta da un lavoro tra gli ultimi di Herman Melville, scritto tra il 1888 ed il
1891 e pubblicato postumo nel 1924. Mentre la disorientante grandezza di
Moby Dick, il capolavoro di Melville, è imperniata sulla sfida dell’uomo contro
un universo in cui c’è posto per il mare, per le balene e per le stelle ma non per
Dio, Billy Budd è una navigazione verso la straordinaria mitezza e la Fede: il
mondo è una nave (dove domina la crudeltà) ma è sovrastato dalla pace del
mare e della serenità cristiana dell’accettazione del dolore e del torto.
Benjamin Britten aveva poco più di 35 anni quando compose Billy Budd
da cui Giorgio Federico Ghedini aveva tratto, poco tempo prima, un’opera
La preveggenza di un musicista ed intellettuale scomodo: Benjamin Britten 183
in un atto (su libretto di Salvatore Quasimodo) andata in scena a La Fenice
di Venezia nel 1949. Quelli di Britten e di Ghedini sono due lavori profondamente
differenti ma hanno in comune la scelta non di un tenore lirico ma
di un baritono lirico di agilità per il ruolo del giovane mozzo, protagonista
e del romanzo e delle due opere.
Cosa portò Britten a mettere in musica Billy Budd e ad amare tanto il
soggetto da produrne quattro edizioni differenti nell’arco di due lustri? Il
racconto è un apologo sul conflitto tra bene primordiale e male primordiale,
da un lato, e la giustizia umana (costretta, suo malgrado, a favorire il
secondo), dall’altro. Siamo nel 1797, Billy è un giovane marinaio tanto
bello quanto innocente; ha solo un difetto, la balbuzie (perché nessuno,
neanche i migliori, sfuggono alle tracce del peccato originale). Ha la simpatia
di tutti, soprattutto del comandante, Edward Fairfax Vere. L’innocenza
si incunea nella violenza di bordo e mette a repentaglio il protagonista.
L’omosessuale sadico maestro d’armi, John Claggart è attratto fisicamente
da Billy, il quale neanche se ne accorge. Claggart lo accusa di fomentare un
ammutinamento. Messo a confronto con le accuse, Billy è colto da una
crisi di balbuzie e non sa difendersi; fende un pugno a Claggart, facendolo
cozzare con un stipite ed, involontariamente, uccidendolo. Vere sa che
Billy non ha colpa, ma, in guerra, l’assassinio di un sottufficiale comporta
l’impiccagione. Nel morire, Billy ringrazia Dio per la vita che gli ha dato e
gli chiede di benedire Vere.
I due temi principali di quasi tutte le opere di Britten – la sopraffazione
dell’innocente e l’essere diverso – sono centrali all’interpretazione data alla
novella di Melville. Dato l’orientamento sessuale di Britten non mancano
momenti omoerotici (quali la scena in stiva tra Budd ed un suo compagno).
Vengono, però, trattati con pudore. La differenza principale tra racconto e
libretto è che, nell’opera, la vicenda è un lungo flash-back dell’ormai anziano
capitano Vere, il quale, nel ricordare l’episodio fondante della sua avventura
umana, medita sul suo significato. Nella prima versione i quattro atti
erano strutturati come i movimenti di una sinfonia – il primo un andante a
carattere narrativo, il secondo un notturno meditativo, il terzo uno scherzo
pieno di azione ed il quarto un grande finale drammatico. In quella ormai
entrata in uso corrente, i quattro atti sono compattati in due e i movimenti
si fondono in un sinfonismo dominato dai colori del mare (alternarsi tra re
bemolle maggiore e re minore), della bontà e bellezza (si naturale), del male
(fa) e dalla giustapposizione tra do e la. Ho avuto la fortuna di vedere
l’allestimento di Francesca Zambello che ha debuttato a Ginevra nel 1994
ed è stato successivamente riproposto, tra l’altro, a Londra, New York,
Houston, Los Angeles. Un vero grand opéra con una scena a due livelli ed
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un cast eccezionale (Robert Tear, Rodney Gilfry e Willard White nei ruoli
principali), il coro della Suisse Romande rafforzato da quello di Praga e la
direzione musicale di Roderick Bryden. Di buon livello anche l’edizione
presentata a Torino nel 2004, come titolo inaugurale della stagione. Il vasto
palcoscenico del Teatro Regio è trasformato in una grande nave a più livelli
(scene di Tiziano Santi) in un Canale della Manica dove domina il grigio,
anche nei costumi (volutamente moderni). La regia di Davide Livermore dà
un ritmo incalzante ad un’azione che, a tratti, potrebbe essere statica. Il
giovane Christopher Franklin ha guidato l’orchestra del Regio accentuando
il sinfonismo della partitura e sottolineandone i momenti timbrici. Di buon
livello il vasto cast, in particolare, Christopher Maltam (dolcissimo Billy),
Stephen West (diabolico Claggart) e Keith Williams (tormentato Vere).
Data la contiguità del tema ritengo utile trattare l’altro grand opéra di
guerra (il War Requiem del 1962) prima di Gloriana del 1953. Come accennato,
il lavoro è stato ascoltato più volte di recente in Italia; ne ricordo due
edizioni a Roma ed una a Parma, ma ce ne sono state altre. Britten aveva
lasciato la Gran Bretagna alla volta del Canada e degli Stati Uniti, con il suo
compagno di vita Peter Pears nel maggio 1939. Aveva 25 anni, un’età in cui
avrebbe potuto essere richiamato in guerra in caso di conflitto; e le ostilità
sarebbero scoppiate solo quattro mesi più tardi. Era una fuga per «pacifismo»?
O c’erano anche altre ragioni? Senza dubbio, Britten non era a suo agio in
un’Europa dove stava per iniziare quella che sarebbe stata la Seconda guerra
mondiale. Il War Requiem è stato composto dal «compositore di corte»
per un’occasione specifica: la consacrazione nel maggio 1962 della nuova
Cattedrale di Canterbury ricostruita dove l’antica era stata distrutta da un
bombardamento tedesco nel novembre 1940. Non solo, l’enorme composizione,
in cui il rituale in latino (in effetti cattolico piuttosto che anglicano)
è intercalato da arie e duetti su poesie di Wilfred Owen (morto al fronte il
4 novembre 1918, quindi a meno da una settimana dall’armistizio) è dedicata
a quattro amici morti «per il Re e per la Patria» nella Seconda guerra
mondiale; due di loro erano partiti come volontari – uno era un riservista. Il
War Requiem si pone, nell’opera complessiva di Britten, subito dopo la seconda
edizione di Billy Budd (e di Billy Budd riprende la magia dei duetti
per baritono e bari-tenore, il gusto timbrico, alcuni accordi degli ottoni e dei
fiati). Mentre, come si è visto, Billy Budd non ha nulla di «pacifista» – al
contrario il giovane protagonista viene impiccato perché il Paese è in guerra,
e nel morire benedice «per il Re e per la Patria» i suoi esecutori –, il War
Requiem non è certo un’esaltazione della guerra – come, ad esempio, la
Missa in tempore belli (o Paukenmesse) di Joseph Haydn, composta nel 1796
quando le truppe di Napoleone stavano per invadere la Styria. È un lavoro
La preveggenza di un musicista ed intellettuale scomodo: Benjamin Britten 185
«pacificatore». Per Britten, la guerra è l’«inutile strage» lamentata da Benedetto
XV; per questo motivo termina con un duetto delicatissimo tra i due
belligeranti che si sono uccisi a vicenda, senza sapere il perché, ed anelano
solamente a dormire mentre il coro di fanciulli invoca il requiescant in pace.
In effetti, al pari de La Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, è arduo dire
se si è alle prese con musica sacra o con un grande melodramma – chiaramente
laico in Verdi, a metà tra il laico ed il religioso in Britten.
Le esecuzioni ascoltate e citate sono state tutte di altissimo livello.
Ricordo in questa sede quella di Antonio Pappano, il quale ha chiaramente
una preferenza per l’opera ed ha trattato il lavoro come un vasto dramma
sin dalla disposizione stessa dell’organico: il coro di voci bianchi degli angeli
(supportato da un organo) in alto (quasi nascosto dall’ultimo ordine di
galleria), la grande orchestra, il doppio coro (la comunità dei fedeli) ed il
soprano (protagonisti della Messa in latino) dispiegati sul palcoscenico, ed
il piccolo ensemble da camera (principalmente percussioni) con il tenore
ed il baritono quasi in trincea accanto al concertatore. Oltre ad un effetto
musicali stereofonico ed a più livelli, ciò comporta anche un grande effetto
scenico. L’orchestra ed i cori (anche quello di bambini) hanno mostrato
tutte le loro qualità e capacità. Tra i solisti si è distinto Ian Bostridge, un
bari-tenore dal timbro molto simile a quello di Peter Pears. Christine Brewer
ha dato un taglio quasi straussiano o wagneriano al suo ruolo. Bravo come
sempre Thomas Hampson.
Gloriana viene considerata dal musicologo tedesco Kurt Malisch come
la «most underrated» (la meno apprezzata, ingiustamente) tra le opere di
Britten. È stato un insuccesso alla prima, l’8 giugno 1953 alla Royal Opera
House, ma le riprese nel 1966, al Sadler’s Wells, e nel 1984 all’English National
Opera (ENO) e nel 2102 alla Royal Opera House hanno avuto un buon
esito. Non so se è mai approdata in Italia in forma scenica (a metà degli anni
Sessanta è stata presentata in forma di concerto alla Sagra Musica Umbra).
La conosco essenzialmente tramite il DVD dell’allestimento ENO del 1984.
L’occasione – si è detto – è stata l’incoronazione di Elisabetta II. È un vero
grand opéra che può ricordare, sotto certi aspetti, il verdiano Don Carlo: il
libretto di William Plomer tratta di vicende di amore ed intrighi politici negli
ultimi anni del Regno di Elisabetta I, alle prese con una sommossa in Irlanda
e la guerra con la Spagna. La trama, analoga a quella del Roberto Devereux
di Gaetano Donizetti, ma con maggiore accento sul contesto politico, fornisce
anche il pretesto per grandi balli di corte, concertati tra i protagonisti ed il
coro. Viene esaltata la funzione patriottica di Elisabetta che sacrifica il proprio
amore alla pace all’interno del Regno ed alla vittoria internazionale nei confronti
della Spagna. Nell’opera, l’eclettismo di Britten trova modo di fondere
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con eleganza la musica antica del Seicento inglese (nelle scene di ballo, del
canto di Exeter con il liuto) dando forte tensione all’insieme ed amalgamando
efficacemente scene grandiose con momenti da musica da camera. Per la
«prima», vennero scelti i migliori esecutori dell’epoca (con Pears nel ruolo
del protagonista maschile), anche per coreografie, scene e costumi. Ma l’accoglienza
fu fredda tanto che – scrive il musicologo britannico Arnold Whittal
– Britten accantonò, per sempre, il progetto, a cui stava lavorando, di
trarre un’opera dallo shakespeariano King Lear. Senza dubbio, sulla «prima»
di Gloriana pesò il pubblico di invitati alla festa per l’incoronazione che non
si attendevano certo, nel terzo atto, un’Elisabetta, anziana, senza parrucca e
disperata in quanto donna nel fare il dovere di Regina. Questo nonostante
che libretto e musica fossero stati ascoltati ed approvati dalla stessa Elisabetta
II. Inoltre, la rarità delle riprese dipende dagli altissimi costi di allestimento.
Drastico Malisch: dopo lo scacco di Gloriana la strada verso il minimalismo
parve segnata. L’unica eccezione fu il War Requiem.
Verso l’opera per il XXI secolo
Per comprendere la preveggenza di Britten verso il teatro d’opera del
XXI secolo è essenziale sapere perché Britten ha lasciato le grandi opere
spettacolari – che nel teatro musicale americano, ad esempio, venivano viste
(e lo sono in parte ancora) come uno degli antidoti principali al declino ed
al progressivo sparire della «musa bizzarra e altera». Musicista molto precoce,
aveva preso la strada di comporre teatro in musica – pur non trascurando
la cameristica e soprattutto la musica «dello spirito» d’ispirazione
religiosa e filosofica – già molto giovane, riuscendo a comporre nel 1941
Paul Bunyan su libretto di W. H. Auden, esule anche lui negli Usa . È un
Singspiel ossia un’operetta su un mito popolare americano; richiede un organico
orchestrale striminzito ma molti personaggi in scena, tra cantanti ed
attori. Scritta pensando a Broadway, venne presentata, senza successo, nel
teatro della Columbia University, non approdò da nessuna parte ed unicamente
nel 1976 venne rappresentata in Gran Bretagna (nell’ambito di un’«integrale
» del compositore). Con il senno del poi, nonostante i suoi difetti,
Paul Bunyan ha tutti i germi della frizzante opera del 1947 Albert Herring,
una effettiva opera comica in cui un borgo piuttosto bigotto premia un bel
giovanotto come il più virtuoso del suo gruppo di età per accorgersi poi che
ne compie di cotte e di crude. Ha senza dubbio merito il brillante libretto di
Crozier, molto più fine e molto più astuto della novella di Guy de Maupassant
Le Rosier de Madame Husson (da cui è tratto). Senza il vero profumo di
La preveggenza di un musicista ed intellettuale scomodo: Benjamin Britten 187
champagne che Britten trae da un piccolo organico orchestrale e molti solisti,
il lavoro – per molti aspetti very British – non avrebbe potuto appassionare
solo pochi anni fa il pubblico di Cosenza, Modena, Piacenza e Reggio
Emilia. Per giungere da Paul Bunyan a Albert Herring , Britten era passato
in un percorso che includeva due capolavori: Peter Grimes (1945) e The
Rape of Lucretia (1946). Il primo è molto noto ed è stato visto di recente
più volte anche in Italia. Il secondo è, forse, più importante, anche se raramente
eseguito, perché chiara indicazione di quella che Britten vedeva come
la strada per l’opera del futuro.
The Rape di Lucretia (da tradursi «lo stupro» piuttosto che «il ratto»
di Lucrezia, come avviene di frequente) ha un organico all’osso (otto cantanti
e 12 professori d’orchestra) non solo per potere essere portata in
tournée ma per tracciare un percorso di teatro d’opera a basso costo. Appartiene
alle riflessioni sulla violenza e sulla virtù di un Britten giovane,
alle prese con la propria diversità, e proponeva un morality play sullo stupro
della guerra (anticipando Billy Budd e il War Requiem). Nell’edizione presentata
una decina di anni fa, e vista al piccolo Teatro Goldoni di Firenze,
l’impianto scenico di Giovanni Carlucci (a due livelli e con molte proiezioni)
e la regia di Daniele Abbado facevano toccare con mano tutta la violenza
della guerra; l’orchestra, guidata con perizia da Alistair Dawes, rigorosamente
cameristica, faceva palpare i singoli strumenti e gruppi di strumenti
(specialmente i fiati). Molto buone le voci, specialmente Jeremy Ovenden
(anche se leggermente più alto dell’inconfondibile Peter Pears), Annie Vavrille,
Davide Damiani e Debora Veronesi. Il «coro», in questa opera da
camera, è ridotto a solo due solisti.
In questo percorso è doveroso situare Peter Grimes, il primo dramma
in musica che nel 1945 impose Britten all’attenzione mondiale. Ha un organico
orchestrale contenuto e non richiede un coro ma una quindicina di
solisti, in gran misura in ruoli secondari per dare vita al cicaleccio del borgo
marinaro del Suffolk, gretto e pettegolo, ma soprattutto incapace (tranne
la maestra di scuola Ellen) di comprendere il dramma dell’esclusione
sociale progressiva del protagonista. Ebbe – come si è detto – la «prima» al
Sadler’s Wells poiché ritenuta simile a Porgy and Bess di George Gershwin
ma, dopo l’esecuzione, venne salutata come il segno del riscatto del teatro
musicale inglese e, nel giro, di pochi anni rappresentata in tutto il mondo
principalmente in lingua originale. Ho avuto la fortuna di vederne due
edizioni nell’ultimo decennio: a Firenze nel 2003, con la direzione musicale
di Seji Ozawa, la regia di David Kneuss e Philip Langrige nel ruolo del
protagonista, ed alla Scala concertata da Robin Ticciati, allestita da Richard
Jones e con John-Graham Hall nella parte di Grimes. Due esecuzioni di
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grandissimo livello. Nella prima, il mare era costantemente presente nell’allestimento
scenico (come è d’uopo) mentre nella seconda, il giovane Ticciati
estraeva dall’orchestra della Scala sonorità di grandissimo livello,
specialmente negli interludi.
Nel 1945 Peter Grimes era rivolto al futuro: sviscerava temi nuovi con
soluzioni musicali nuove proprio perché eclettiche ed in cui per la prima
volta dai tempi di Purcell si sfruttava tutta la musicalità della lingua inglese.
Tratto da una novella inglese del tardo Settecento, con un libretto di Montagu
Slater e la musica di Britten, è british dall’inizio alla fine, nonostante
rappresenti una rivoluzione che ha inciso profondamente sul teatro in musica
della seconda metà del Novecento. C’è senza dubbio una ricerca volta
a snellire l’organico, ma lo si sfoltisce soltanto rispetto a quello tradizionale
dell’opera lirica. In Peter Grimes non c’è happy ending: il protagonista
(innocente dei crimini di cui è accusato) viene indotto al suicidio in mare
mentre il borgo torna tranquillo (ora che il «diverso» non c’è più) alle sue
occupazioni di sempre. Non manca, però, un velo di pietà cristiana nei
confronti del «diverso». La scarna vicenda di solitudine e incomprensione
è arricchita non solo da un testo stringato ed efficace, ma anche da una
partitura ricchissima: sei «interludi marini» separano le varie scene e la
vocalità alterna declamato con ariosi di grande lirismo e concertati di spessore
(sia a quattro voci femminili sia di tutta la compagnia).
Subito dopo il disappunto con Gloriana, Britten torna all’opera dell’avvenire,
snella, secca, con un organico piccolo e pochi esecutori: The Turn
of the Screw, presentata a Venezia il 14 settembre 1954. È la sua l’opera
più rappresentata, certamente in Italia. A proposito del racconto di Henry
James da cui è tratto il lavoro, Britten utilizzò tre aggettivi «meraviglioso,
sinistro e terrificante». Dalla novella, Britten fece trarre un libretto affascinante
da Myfanwy Piper: due atti (di otto scene e 50 minuti esatti ciascuno)
pensati come uno specchio: a ciascuna breve e rapida scena del primo atto
se ne riscontra una analoga nel secondo in cui però la tonalità musicale è
rovesciata o più semplicemente duplicata con un leggero mutamento.
L’organico è composto da tredici orchestrali e da sei voci (che possono
essere ridotte a cinque) di cui due «bianche», due soprani e un tenore. La struttura
a specchio e la prevalenza di voci «alte» fa sì che le singole rapide scene
diano il senso dell’avvitarsi della vicenda sino alla tragica «giacona» finale.
La novella di James e il dramma in musica di Britten sono imperniati
sulla perdita dell’innocenza – tema fondante della poetica del compositore ma
in questo caso specifico –, una perdita «ambigua» in quanto non è mai palese
se siano stati i bambini Flora e Miles ad essere corrotti oppure anche complici
dei loro corruttori (ormai morti e divenuti fantasmi) o se il desiderio della
La preveggenza di un musicista ed intellettuale scomodo: Benjamin Britten 189
loro nuova governante di riscattarli celi un più sottile tentativo di conquista.
Non è neanche chiaro se la perdita dell’innocenza sia connessa a possesso
intellettuale, psicologico o sessuale. Britten pensò The Turn of the Screw come
opera «portatile», da trasferta da un teatro all’altro con pochi orchestrali e
poche voci. Per diversi anni si è visto in vari teatri italiani un allestimento di
Luca Ronconi, presentato a Torino (al Carignano non al Regio), Roma (all’Argentina
non al Teatro dell’Opera), Cagliari, Parma ed altre città. Le scene di
Margherita Palli, i costumi di Vera Marzot e la regia di Luca Ronconi ci portavano
in una Gran Bretagna vittoriana ossessiva. Pochi anni dopo, un’edizione
firmata da Luc Bondy dava ai due tempi una regia incalzante, alla
Hitchcock, anche in quanto aiutata dalle belle scene (studiate per rapidi cambiamenti)
di Richard Peduzzi e dai costumi di Moidele Bickel: eliminati tutti
i ciarpami vittoriani, il The Turn of the Screw diventa un nostro contemporaneo
che ci prende ancora di più. L’edizione partì da Aix-en-Provence e girò
per vari teatri europei. Ad Aix il vero capolavoro è stata la direzione intensa
e travolgente del piccolo organico orchestrale da parte di Daniel Harding.
L’allestimento proposto a Spoleto l’estate 2012 si deve confrontare con queste
due pietre miliari della realizzazione di The Turn negli ultimi quindici
anni. Perfetta la resa musicale da parte dei sette interpreti e del complesso
della Verdi di Milano guidato da Johannes Debus. È un lavoro molto difficile
sotto il profilo sia orchestrale sia vocale. Ciascun atto, come si è detto, si
basa su un tema e una serie di variazioni (una per scena), Johannes Debus ed
il piccolo ensemble (meravigliosa la celesta) hanno fanno sì che idee musicali
così complesse venissero espresse con grande naturalezza e spontaneità e
che l’organico cameristico fosse in grado di esprimere negli intermezzi sonorità
sinfoniche. Dal punto di vista vocale, l’opera ha due trappole: l’ascoltatore
deve essere in grado di comprendere ogni parola (e ogni parola è legata
a tonalità specifiche) poiché si è alle prese con un «giallo»; inoltre, la vocalità
della protagonista è impervia in quanto spesso imperniata sull’acuto. Ottimo
il cast vocale ma si è rimasti perplessi dalla regia di Giorgio Ferrara e alle
scene di Guido Quaranta: si ispirano al quadro del simbolista di tardo Ottocento
Arnold Böcklin sull’isola dei morti, idea di recente utilizzata per lavori
così differenti come il Macbeth di Verdi, Ariadne auf Naxos di Strauss e,
nella messa in scena di Pier Luigi Pizzi per vari teatri italiani, pure per A
Death in Venice di Britten (deve essere di moda!). Mancava sia il clima vittoriano
dell’edizione di Ronconi, sia soprattutto il passo incalzante alla
Hitchcock di quella di Bondy, sia infine l’atmosfera di «opera da camera».
Forse sarebbe stato meglio progettare l’allestimento per il Teatro Caio Melisso
delle dimensione del Théâtre du Jeu de Paume di Aix-en-Provence che
avrebbe reso necessario un apparato scenico e registico meno debordante.
190 Giuseppe Pennisi
Ancora più minuto Noye’s Fludde (1958), un morality play sul diluvio
universale di un’ora presentato a Aldeburgh, ma in chiesa, non nel teatrino
costruito accanto alla casa dove viveva con Pears. L’orchestra richiede un
quintetto d’archi, un organo (siamo in chiesa), timpani e campane. L’organico
vocale un basso-baritono, un soprano e la Voce di Dio (recitante), oltre
a tre bambini, un ragazzo con voce bianche e due bambine. Il coro sono i
bambini presenti in chiesa, fondendo, quindi, voci di cantanti professionisti
con quelle di dilettanti. Procedimento già sperimentato con successo nella
cantata Saint Nicholas nel 1948 ed in The Little Sweep del 1949.
Rappresenta un passo indietro A Midsummer Night’s Dream che debuttò
a Aldeburgh nel giugno del 1960 e per la cui messa in scena la Jubilee
Hall venne ampliata da 250 a circa 350 posti, venne costruita la buca d’orchestra
ed allargato il palcoscenico? Attenzione: un teatro di 350 posti è
minuto rispetto alle dimensioni del Teatro dell’Opera di Roma, del Teatro
La Scala e del Teatro San Carlo dove l’opera è stata vista ed ascoltata. A
Midsummer Night’s Dream è uno dei lavori più affascinanti di Britten.
Viene utilizzato (opportunamente ridotto dallo stesso autore e dal tenore
Peter Pears) il testo di Shakespeare, eliminando scene e ruoli secondari per
evitare una durata spropositata e accentuando la differenza tra la città
(Atene, dove regnano regole formalmente eque ma sostanzialmente ingiuste)
e la foresta, dove regna la natura, trovano rifugio i giovani amanti, la regina
delle Fate Tytania riconquista il re delle fate Oberon e i villici diventano
poeti – occasione per un’«opera nell’opera», ancora più cameristica (la
rappresentazione del mito di Tiramo e Tisbe). Richiede un piccolo golfo
mistico (per un organico quasi cameristico) e 18 giovani solisti in gran
misura ragazzi e ragazze. Al debutto, nella poco confortevole Jubilee Hall
per uno spettacolo di circa tre ore e mezzo, ebbe un successo enorme, nonostante
fosse un lavoro «scomodo»: ironizzava sia sulla «buona società»
britannica dell’epoca (con uno studio sulla giovinezza e l’amore sessuale)
sia sulla storia della musica del Regno Unito, con richiami e citazioni vagamente
messe alla berlina. Nell’ultima dozzina di anni, in Italia si sono visti
quattro allestimenti dell’opera: due erano chiaramente concepiti per piccoli
teatri, quello di Dennis Krief del 1999 per il Teatro Nazionale di Roma
(che allora non disponeva ancora di una buca d’orchestra) e quello di Lindsay
Kemp del 2004 per il circuito toscano di «Città Lirica». I due allestimenti
firmati dallo scozzese Paul Curran (Napoli, 2001 e Teatro dell’Opera,
Roma, 2012) si basano in varia misura su una produzione concepita per
l’Opera di Sidney, teatro di medie dimensioni e piccolo palcoscenico. Alla
Scala nel 2009, Robert Carsen ha adattato alla più grande struttura uno
spettacolo sontuoso che aveva debuttato una dozzina di anni prima nello
La preveggenza di un musicista ed intellettuale scomodo: Benjamin Britten 191
spazio del cortile dell’Antico Arcivescovado di Aix-en-Provence. Anche in
un’opera shakespeariana con numerosi personaggio in scena, continua il
viaggio verso un teatro d’opera più adatto ai budget ristretti ed alle esigenze
di poter viaggiare da teatro a teatro e da Paese a Paese.
Un cenno all’allestimento più recente. Sul podio il direttore statunitense
James Conlon. Il mondo di fate, folletti e creature irreali della commedia
shakespeariana nella rilettura proposta da Curran assume forme reali, fisiche.
L’elemento fiabesco viene riportato nell’inaspettato, nella meraviglia.
L’ambientazione è moderna: un museo di storia naturale con l’esibizione di
un tempio maya. Il gioco, gli amori, le liti e gli scambi di partner declinano
una vasta gamma di rapporti erotico-sentimentali e il rimpianto per la giovinezza
(per due delle quattro coppie, ormai un ricordo). Una scena unica,
con pochi elementi per caratterizzare i differenti ambienti, rende lo spettacolo
a basso costo e facilmente trasferibile. In scena voci giovani: la coppia
fantastica di Oberon e Tytania è intrepretata da Lawrence Zazzo e Claudia
Boyle, gli innamorati Lysander e Hermia, sono interpretati da Shawn Mathey
e Tamara Gura, Helena è Ellie Dehn, Demetrius è Phillip Addis,Theseus è
Peter Savidge e Hippolyta Natascha Petrinski; Puck Michael Batten.
Siamo al vero minimalismo – e ad un minimalismo da viaggio – con le
tre Church Parables, o parabole da chiesa: Curlew River del 1964, The
Burning Fiery Furnace del 1966 e The Prodigal Son del 1968 – orchestre
da camera, pochi cantanti professionisti, elementi scenici essenziali. Un
teatro d’opera del Nord della Gran Bretagna celebrerà il centenario della
nascita di Britten mettendo in scena le tre parabole, in primo luogo, nella
chiesa di Orford, quella più frequentate dal compositore a Aldeburgh e
portandole, poi, alla Cattedrale di Southwark a Londra, alla Chiesa di Santa
Caterina, alla Cappella dell’Hermitage a San Pietroburgo e alla Cattedrale
di Tokio. I tre lavori, forse, si ascolteranno e vedranno a Roma. Sono
collegati, oltre che dal minimalismo dell’organico, dal piccolo cast vocale e
dai pochi elementi scenici (tale minimalismo non è da confondere con
quello della scuola americana, ad esempio Philip Glass, perché Britten trae
da pochi strumenti e poche voci sonorità ricchissime), dall’afflato religioso.
Curlew River è, forse, la più intrigante: proviene da un’antica cerimonia
giapponese (la traversata di un fiume per arrivare ad un tempio) ma ha un
forte alone cristiano, richiede cinque voci (tra cui il tenore, alla «prima» era
Pears, nel ruolo di una donna folle), un piccolo coro di pellegrini ed un
ensemble essenziale (flauto, corno, viola, basso doppio, arpa, percussioni
ed ovviamente organo). In meno di un’ora, si è in un’atmosfera magica di
trascendenza. Ottima un’edizione nata oltre dieci anni fa a Aix-en-Provence
e vista in vari Paesi. The Burning Fiery Furnace è forse la meno riuscita
192 Giuseppe Pennisi
delle tre parabole ma riporta il fascino di un lavoro solo per voci maschili,
come in Billy Budd, tre tenori (di cui uno lirico leggero) e quattro baritoni
con un ensemble strumentale non troppo distante da quello di Curlew River.
The Prodigal Son è la nota parabola che ha ispirato molti musicisti; è vista
con ottica quasi junghiana e nell’interazione tra il giovane ed il tentatore
abbiamo quasi una premonizione di quello che sarebbe stato l’ultimo importante
lavoro per la scena di Britten: A Death in Venice, un’opera intrisa
di nebbia e di umidità dall’inizio alla fine.
Non so se Britten pensasse alla morte a Venezia del padre del Musikdrama,
Richard Wagner quando appena sessantenne ma già con una grave
disfunzione cardiaca (delle cui possibili conseguenze aveva piena contezza),
affidò a Myfanwy Piper il compito di ridurre, in 17 rapide scene, il romanzo
di Thomas Mann Der Tod in Venedig. Erano gli anni in cui Luchino
Visconti, anziano e già visibilmente malato, aveva portato, con un cast internazionale,
la novella sullo schermo, ottenendo un buon successo di critica
e di pubblico. La lettura del racconto di Mann fatta da Britten è molto
differente da quella che, più o meno negli stessi anni, faceva Visconti. Nel
film, si dava molto rilievo all’attrazione erotica come aspetto fondante del
dramma. Nel lavoro di Britten, tale attrazione, pur presente, è meno importante
della crisi dell’intellettuale di fronte all’invecchiamento ed alla morte,
alla consapevolezza dell’indebolirsi della creatività, ai suoi rimpianti ed
anche al rimorso per le colpe commesse.
A Death in Venice è opera di rigore estremo, segnata dalla povertà dei
mezzi utilizzati (dall’organico strumentale alle voci ed allo stesso corpo di
ballo, appositamente pensati per il piccolo teatro di Aldeburgh, a scene
brevissime). Il flusso orchestrale, fluido e continuo, non copre mai una
sola parola dello splendido libretto. Il linguaggio musicale è chiaramente
connotato: il cromatismo appartiene al mondo di Aschenbach, il ritmo
orientaleggiante a quello di Tadzio. Ci sono anche evidenti motivi conduttori;
dalla linea dodecafonica iniziale di Aschenbach, che ritorna in varie
versioni, al tema gamelan di Tadzio fino al tema quasi tonale del deuteragonista,
la «morte» incombente che si presenta di volta in volta nelle vesti
di un viaggiatore, di un barbiere, di un gondoliere, e via discorrendo. È un
tema presentato già all’inizio dell’opera nell’arioso «Marvels unfold» e che
via via accompagna il basso-baritono nelle varie caratterizzazioni sceniche.
Nonostante l’evidente assunto autobiografico, non troviamo nell’opera alcuna
contemplazione estetizzante della morte anche se la death ricorre sin
dal titolo e dalla prima scena al cimitero. Britten sapeva che questa sarebbe
stata la sua ultima opera. Però, più che un’attesa della fine (come nel romanzo
di Mann e soprattutto nel film di Visconti), la pagina è una riflessio-
La preveggenza di un musicista ed intellettuale scomodo: Benjamin Britten 193
ne di un sessantenne sulla giovinezza che non c’è più («la stagione che ha
un tempo solo» delle Scènes de la vie de Bohème di Murger).
La grande idea teatrale della Piper è l’incomunicabilità tra il coltissimo,
eloquentissimo e raffinatissimo Aschenbach, da un lato, e «gli altri», dall’altro.
Tadzio e la sua famiglia sono mimi che non hanno parola; con i ruoli
minori si scambiano solo frammenti di frasi; c’è un unico interlocutore: la
morte, nei suoi sette volti interpretati da un unico cantante (il baritono). In
effetti, Britten aveva già scritto la «sua» contemplazione della morte, una
contemplazione particolarissima di un credente segnato dalla propria omosessualità,
in Billy Budd e nel War Requiem. Britten è morto il 4 dicembre
1976. Quasi a 35 anni dalla fine della sua esistenza terrena, il Teatro La
Scala ha proposto l’allestimento prodotto nel 2007 dall’English National
Opera e ripreso nel 2009 a La Monnaie di Bruxelles. Un’eccellente idea
quella di portare a Milano, dove l’opera non era mai stata rappresentata, una
produzione esemplare. È una messa in scena molto differente da quella,
elementare, creata nel 1973 nel teatrino di Aldeburgh e vista pochi mesi
dopo a La Fenice, nell’unica esecuzione scenica italiana prima di quella
genovese del 1999, ripresa a Firenze nel 2002 ed a Venezia nel 2008. Alcuni
anni prima una produzione dei teatri di Genova-Firenze-Venezia colpiva
per l’eleganza; in quella del 2007-2009, utilizzando al massimo la tecnologia
ed i vasti palcoscenici (sia del Coliseum di Londra sia della Scala), la regista
Deborah Wagner ha dato vita ad una Venezia stilizzata in stile anni Venti
con un forte contrasto tra la città (umida, calda e scura perché densa di
nubi di scirocco) ed il luminoso Lido. In questa Venezia filtrata dalla memoria,
il tenore John Graham-Hall (Aschenbach) in grande forma, contempla
la propria vita, inseguito da un Peter Coleman-Whright sorprendente per
versatilità e destrezza nei sette ruoli previsti dalla parte. Il protagonista insegue
la giovinezza perduta raffigurata da Tadzio (il ballerino Alberto Terribile)
ed echeggiata nella voce di Apollo (il controtenore Iestyn Davies).
Con poche, pochissime forze strumentali, vocali e sceniche viene creato, a
basso costo, un grand opéra come Billy Budd, War Requiem e Gloriana.
Graham-Hall ha una vocalità simile a quella di Peter Pears, per cui è
stato concepito il ruolo: un solido registro centrale da cui svettano acuti.
Accanto a lui, il pur bravo Peter Coleman-Whright mostra una consistenza
vocale un po’ sottotono (così almeno ci è parso la sera della «prima»). L’orchestra
della Scala, diretta da Edward Gardner, completa il quadro di uno
spettacolo memorabile. Gardner privilegia tempi dilatati che, specialmente
nel secondo atto, rendono lo spettacolo ancora più struggente.
Il pubblico, di solito sospettoso nei confronti della musica contemporanea,
ha espresso il suo convinto apprezzamento per l’opera britteniana.
194 Giuseppe Pennisi
La sera della «prima» vere e proprie ovazioni per John Graham-Hall ed
applausi per tutta la vasta compagnia.
Merita un cenno il lavoro appena precedente A Death in Venice, Owen
Wingrave, sempre tratto da un racconto di Henry James e con un libretto
Myfanwy Piper. In effetti, è un dramma musicale in due parti (e nove quadri)
concepito per la televisione e commissionato dalla BBC che non sfrutta
le possibilità offerte dalla nuova tecnologia. È stato anche rappresentato
in teatro (mai in Italia, che io sappia, ma esiste un buon DVD con la direzione
musicale di Kent Nagano). La prima trasmissione televisiva risale al
1971. La televisione avrebbe, in linea di principio, facilitato un organico
orchestrale di vaste dimensioni e scene corali (anche a ragione delle risorse
a disposizione della BBC). Abbiamo invece otto solisti, nessun coro ed
un’orchestra essenziale, resa ancora più scarna in una seconda versione per
tournée. Britten si accosta al sistema dodecafonico. Ma senza entusiasmo.
Di grande rilievo, infine, Phaedra composta per la Regina Madre, e
soprattutto per il mezzo soprano Janet Baker, da un Britten ormai non più
in grado (a ragione dei suoi gravi problemi cardiaci) di comporre un completo
lavoro per la scena. È per una piccola orchestra ed un mezzo soprano
e dura un quarto d’ora – di grandissima potenza ed effetto.
Tiriamo le fila
In occasione dell’ormai imminente centenario della nascita di Britten,
in questo articolo si è tracciato il percorso che lo ha portato a definire un
genere di spettacolo musicale a basso costo e facilmente trasportabile da
un teatro ad un altro. In questo primo scorcio di XXI secolo, numerosi
compositori hanno preso questa strada, nella consapevolezza che l’opera di
un tempo non potrà rinascere a ragione degli elevati costi di produzione.
Pochi rammentano che Britten ha dato un contributo essenziale in questa
riforma e modernizzazione del teatro in musica.
Giuseppe Pennisi

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