Lirica, le luci e le ombre di una
riforma necessaria
Proteste per il decreto che consente di declassare le fondazioni
Proteste per il decreto che consente di declassare le fondazioni
DI GIUSEPPE PENNISI N on se ne è parlato quando, il 22 dicembre, il Consiglio dei Ministri lo ha approvato e ha diramato una scarno comunicato. Ora che il testo circola, alcuni i sindacati autonomi e alcuni sovrintendenti protestano, anche se, a Via di Santa Croce in Gerusalemme (sede della Direzione Generale dello Spettacolo dal Vivo del Mibac) si assicura che il testo è frutto di ampie consultazioni in un 'tavolo' che è durato oltre un anno.
Di che si tratta? Dello schema di Decreto del Presidente della Repubblica (DPR) sul «nuovo assetto ordinamentale ed organizzativo » delle fondazioni liricosinfoniche. È un decreto legislativo previsto dalla norma di riforma del 2010 (in gergo Legge Bondi). Alla ripresa dei lavori a Camere rinnovate, le pertinenti Commissioni parlamentari avranno ciascuna sessanta giorni per esprimere osservazioni. Successivamente, il Consiglio dei Ministri esaminerà di nuovo il testo e le osservazioni del Parlamento, deciderà se e in che misura modificare il testo del 22 dicembre e trasmetterà il prodotto finale al Quirinale. C’è chi spera in modifiche radicali del provvedimento. È difficile però che ciò avvenga data la situazione della finanza pubblica, le elevate sovvenzioni alle fondazioni (250 euro per spettatore pagante), la loro scarsa produttività (70 alzate di sipario l’anno rispetto a una media europea di 150), costi per rappresentazione pari al doppio della media europea, lo stock di debiti (che ammonta a oltre 300 milioni di euro). Oggi molti si chiedono se si può continuare in questo modo, mentre si devono chiudere ospedali e asili nido e a livello locale enti e imprese esprimono interesse solo a parole.
Principalmente, il disegno complessivo del DPR avvicina il finanziamento della lirica alla normativa e prassi nel resto d’Europa. Il cardine dello schema del decreto (e anche l’aspetto più contrastato) è l’articolo 2 con il quale si pone un vincolo al finanziamento dello Stato centrale: per essere tale una fondazione dovrà coprire la metà del proprio bilancio con entrate proprie (biglietteria, sponsorizzazioni) e contributi da enti locali (Regioni, Province, Comuni), nonché apporto di soci privati. Molti affermano che in questo modo si uccide la lirica. La norma, però, porta la legislazione italiana in linea con quella di Stati europei come la Germania, l’Austria e la Francia dove la lirica è una realtà viva e vivace proprio a ragione del supporto a livello locale. Gli enti locali italiani sostengono di essere già troppo oberati: ciò li costringerà a decidere se utilizzare gli stanziamenti per la cultura a pioggia, se finanziare la fiera della patata rossa e i concorsi di bellezza o se contribuire al 'loro' teatro, spesso un gioiello architettonico ereditato dalle generazioni precedenti. Ciò li costringerà anche a 'mettere bocca' nella programmazione del teatro, a cercare sinergie, ad attivare circuiti con istituzioni simili in Italia ed all’estero. Chi non può o non vuole sostenere la propria fondazione lirica, chi non la sente radicata nella propria comunità, subirà un declassamento: la fondazione diventerà un teatro di tradizione (con finanziamenti statali basati sul numero delle rappresentazioni effettive). Ma negli ultimi anni alcuni circuiti di teatri di tradizione (ad esempio quello toscano estesosi alla Romagna, quello lombardo estesosi alle Marche) hanno mostrato vitalità e innovazione e hanno dato ampio spazio ai giovani talenti. Non c’è nulla di offensivo nel diventare teatro di tradizione se a livello locale non si vuole mostrare il supporto in maniera concreta: aprendo la borsa.
Quando nel 1945 la commissione del Piano Marshall rise in faccia al Borgomastro di Vienna che aveva posto in cima alle priorità la ricostruzione della Staatsoper, i viennesi non si persero d’animo: votarono all’unanimità un’imposta di scopo per riportare il 'loro' teatro all’antico splendore. E, dopo la ricostruzione lo inaugurarono con nove recite (ciascuna con un titolo differente) in cui tutti (direttori, cantanti, orchestra, maestranze) lavorarono gratis, i prezzi dei biglietti erano stracciati e venduti a lotteria (tale era la domanda). Il punto debole dello schema di DPR è che non si prevedono incentivi di carattere europeo per la deduzioni dei contributi privati: nel resto d’Europa si aggirano sul 30% dell’elargizione filantropica mentre in Italia si è al 19%. Altro punto difficile è la valutazione della qualità della programmazione, elemento che entra nelle decisioni sull’entità dei finanziamenti. Si può pensare di affidarla alla Consulta per la Musica del Ministero, ma sono essenziali criteri trasparenti quali il numero di Premi Abbiati ricevuti, le coproduzioni con grandi teatri stranieri, le prime mondiali. Inoltre, lo schema di DPR prevede la sostituzione della contrattazione collettiva nazionale con contrattazioni dei singoli cori ed orchestre. Questo aspetto irrita le maestranze. Però ci avvicina all’Europa, dove in molti casi cori e orchestre hanno personalità giuridica autonoma che negozia con i teatri.
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In caso di non autosufficienza dai fondi dello Stato scatterebbe il passaggio a teatro di tradizione Ma lo schema avvicina la norma alla prassi nel resto d’Europa
Una scena di un’opera lirica. Il settore vive un momento molto difficile
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