sabato 26 gennaio 2013

Lirica, le luci e le ombre di una riforma necessaria in Avvenire 27 gennaio



Lirica, le luci e le ombre di una riforma necessaria

Proteste per il decreto che consente di declassare le fondazioni


DI GIUSEPPE PENNISI N on se ne è parlato quan­do, il 22 dicembre, il Consiglio dei Ministri lo ha approvato e ha diramato una scarno comunicato. Ora che il te­sto circola, alcuni i sindacati au­tonomi e alcuni sovrintendenti protestano, anche se, a Via di San­ta Croce in Gerusalemme (sede della Direzione Generale dello Spettacolo dal Vivo del Mibac) si assicura che il testo è frutto di ampie consultazioni in un 'tavo­lo' che è durato oltre un anno.

Di che si tratta? Dello schema di Decreto del Presidente della Re­pubblica (DPR) sul «nuovo as­setto ordinamentale ed organiz­zativo » delle fondazioni lirico­sinfoniche. È un decreto legisla­tivo previsto dalla norma di rifor­ma del 2010 (in gergo Legge Bon­di). Alla ripresa dei lavori a Ca­mere rinnovate, le pertinenti Commissioni parlamentari a­vranno ciascuna sessanta giorni per esprimere osservazioni. Suc­cessivamente, il Consiglio dei Mi­nistri esaminerà di nuovo il testo e le osservazioni del Parlamento, deciderà se e in che misura mo­dificare il testo del 22 dicembre e trasmetterà il prodotto finale al Quirinale. C’è chi spera in mo­difiche radicali del provvedi­mento. È difficile però che ciò av­venga data la situazione della fi­nanza pubblica, le elevate sov­venzioni alle fondazioni (250 eu­ro per spettatore pagante), la lo­ro scarsa produttività (70 alzate di sipario l’anno rispetto a una media europea di 150), costi per rappresentazione pari al doppio della media europea, lo stock di debiti (che am­monta a oltre 300 milioni di euro). Oggi molti si chiedono se si può continuare in questo modo, mentre si devono chiudere ospedali e asili nido e a livello locale enti e im­prese esprimono interesse solo a parole.

Principalmente, il disegno complessivo del DPR avvicina il finanziamento della lirica alla normativa e prassi nel re­sto d’Europa. Il cardine dello schema del decreto (e anche l’aspetto più contrastato) è l’ar­ticolo 2 con il quale si pone un vincolo al finanziamento dello Stato centrale: per essere tale u­na fondazione dovrà coprire la metà del proprio bilancio con entrate proprie (biglietteria, sponsorizzazioni) e contributi da enti locali (Regioni, Province, Comuni), nonché apporto di soci privati. Molti affermano che in questo modo si uccide la lirica. La norma, però, por­ta la legislazione italiana in linea con quella di Stati euro­pei come la Germania, l’Austria e la Francia dove la lirica è una realtà viva e vivace proprio a ragione del supporto a livello locale. Gli enti locali italiani sostengono di essere già troppo oberati: ciò li costringerà a decidere se utilizza­re gli stanziamenti per la cultura a pioggia, se finanziare la fiera della patata rossa e i concorsi di bellezza o se contri­buire al 'loro' teatro, spesso un gioiello architettonico e­reditato dalle generazioni precedenti. Ciò li costringerà anche a 'mettere bocca' nella programmazione del tea­tro, a cercare sinergie, ad attivare circuiti con istituzioni si­mili in Italia ed all’estero. Chi non può o non vuole soste­nere la propria fondazione lirica, chi non la sente radica­ta nella propria comunità, subirà un declassamento: la fondazione diventerà un teatro di tradizione (con finan­ziamenti statali basati sul numero delle rappresentazioni effettive). Ma negli ultimi anni alcuni circuiti di teatri di tra­dizione (ad esempio quello toscano estesosi alla Roma­gna, quello lombardo estesosi alle Marche) hanno mo­strato vitalità e innovazione e hanno dato ampio spazio ai giovani talenti. Non c’è nulla di offensivo nel diventare tea­tro di tradizione se a livello locale non si vuole mostrare il supporto in maniera concreta: aprendo la borsa.

Quando nel 1945 la commissione del Piano Marshall rise in faccia al Borgomastro di Vienna che aveva posto in ci­ma alle priorità la ricostruzione della Staatsoper, i vienne­si non si persero d’animo: votarono all’unanimità un’im­posta di scopo per riportare il 'loro' teatro all’antico splen­dore. E, dopo la ricostruzione lo inaugurarono con nove recite (ciascuna con un titolo differente) in cui tutti (diret­tori, cantanti, orchestra, maestranze) lavorarono gratis, i prezzi dei biglietti erano stracciati e venduti a lotteria (ta­le era la domanda). Il punto debole dello schema di DPR è che non si preve­dono incentivi di carattere europeo per la deduzioni dei contributi privati: nel resto d’Europa si aggirano sul 30% dell’elargizione filantropica mentre in Italia si è al 19%. Al­tro punto difficile è la valutazione della qualità della pro­grammazione, elemento che entra nelle decisioni sull’en­tità dei finanziamenti. Si può pensare di affidarla alla Con­sulta per la Musica del Ministero, ma sono essenziali cri­teri trasparenti quali il numero di Premi Abbiati ricevuti, le coproduzioni con grandi teatri stranieri, le prime mon­diali. Inoltre, lo schema di DPR prevede la sostituzione del­la contrattazione collettiva nazionale con contrattazioni dei singoli cori ed orchestre. Questo aspetto irrita le mae­stranze. Però ci avvicina all’Europa, dove in molti casi co­ri e orchestre hanno personalità giuridica autonoma che negozia con i teatri.

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In caso di non autosufficienza dai fondi dello Stato scatterebbe il passaggio a teatro di tradizione Ma lo schema avvicina la norma alla prassi nel resto d’Europa



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Una scena di un’opera lirica. Il settore vive un momento molto difficile

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