Quanto è british il Falstaff alla Scala
di Giuseppe
Pennisi
Dopo oltre trent'anni, il Teatro
alla Scala di Milano ha mandato in pensione il Falstaff di Verdi nell'edizione
Maazel-Muti-Strehler. Il nuovo allestimento, coprodotto con il Covent Garden e
la Canadian Opera, in scena fino al 12 febbraio, è molto differente dalle
versioni tradizionali che pongono l'accento sugli aspetti marcatamente
farseschi dell'ultimo capolavoro del compositore.
Più ancora che la trasposizione dall'epoca elisabettiana alla metà del
Novecento in Gran Bretagna (declino dell'aristocrazia e ascesa di ceti borghesi
ad alto reddito) è la direzione musicale di Daniel Harding a marcare il segno.
Più vicina a quella di un indimenticabile edizione di Giulini che a
Maazel-Muti, con il braccio sinistro largo e la bacchetta scattante nel destro,
Harding scava nelle parti liriche e nostalgiche, non dimenticando i momenti
ironici (più che comici). Falstaff è la riflessione serena di un ottuagenario
che riguarda alla propria esperienza di vita e a una vasta gamma di rapporti di
coppia e relazioni sociali. Lo assecondano bene l'orchestra e il cast. La
partitura recupera matrici antiche come la polifonia ma anticipa il
chiacchierar cantando del Novecento. Ambrogio Maestri è forse il miglior
Falstaff su piazza, ottime le comari (Carmen Giannattasio, Daniela Barcellona,
Laura Polverelli) e deliziosi i giovani innamorati (Francesco Demuro e Irina
Lungu). Nel numeroso gruppo maschile spicca Fabio Capitanucci. La regia di
Robert Carsen (elegantissimi i costumi delle signore) può lasciare
insoddisfatti gli spettatori che si aspettano frizzi e lazzi, ma lo spettacolo
è stato accolto con applausi e lunghe ovazioni. (riproduzione riservata)
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