martedì 28 maggio 2013

Senza Ilva diciamo addio all’industria italiana ed europea in Formiche 28 maggio




Senza Ilva diciamo addio all’industria italiana ed europea

28 - 05 - 2013Giuseppe Pennisi
Senza Ilva diciamo addio all'industria italiana ed europea
La chiusura definitiva dell’impianto vorrebbe dire abbandonare non solo la siderurgia ma quella "grande industria" che può essere il germe di "campioni europei" anche di origine italiana.
Non tutto il male viene per nuocere. I problemi giudiziari, ambientalisti, finanziari e occupazionali che in queste ore travagliano l’Ilva, Taranto, il governo e i sindacati possono essere la molla per aprire quello che da anni definisco “il dibattito proibito”, ossia il dibattito su quali devono essere i contenuti della politica industriale dell’Italia. L’ultimo documento coerente e completo in questa materia è stato preparato trent’anni fa quando era ministro dell’Industria Renato Altissimo. Lo curò il compianto Mino Caffarena con l’ausilio di Riccardo e Maurizio Paternò (e di pochi altri).
Il crollo della produzione industriale
L’Italia è un Paese eminentemente manifatturiero; ai tempi del “Rapporto Altissimo” (o Caffarena, come sarebbe meglio chiamarlo) il valore aggiunto della produzione industriale era pari ad un terzo circa del Pil; dall’inizio della recessione nel 2008, la produzione industriale ha subito, in valore, una contrazione a prezzi costanti del 22%. Oggi in percentuale del Pil il valore aggiunto nell’industria toccato il 18% del prodotto nazionale alla vigilia della recessione e sembra cadere a picco e minaccia di raggiungere il 15% circa della Francia. Quale che sia la strategia per tornare su un sentiero di crescita non potrà prescindere da una politica industriale ben articolata e da strumenti per sostenerla. Nelle enunciazioni dei programmi pre-elettorali (peraltro non sempre finalizzati) di partiti, coalizioni e movimenti, la “politica industriale” non sembra avere la centralità che meriterebbe. Si ondeggia dalla riproposizione di “poli di sviluppo” attorno a “campioni nazionali” (come negli anni Sessanta) all’incoraggiamento di iniziative dal basso, su base territoriale, in forma cooperativa o consortile. Non mancano, certamente, buone idee. Non è, poi, che in questi anni si sia rimasti con le mani in mano: un’indicazione eloquente è l’istituzione, nell’ambito della Cassa Depositi e Prestiti e con la partecipazione della Banca d’Italia, di un “fondo strategico italiano” perché in settori chiave si incoraggi l’integrazione di imprese, l’innovazione, l’internazionalizzazione, l’efficienza e la competitività.
L’assenza di campioni europei
E’ mancato, però, un dibattito sulla opportunità e desiderabilità o meno di cercare, in un’Europa sempre più integrata ed in un’economia sempre più globalizzata, di andare, specialmente, in campioni comparti, verso “campioni” non “nazionali” ma “europei” con la vocazione di diventare player mondiali, giocando da protagonisti non da comprimari. Il Centro per l’Economia e lo Sviluppo Internazionale (Ceis) dell’Università di Tor Vergata, ad esempio, ha appena pubblicato un interessante raffronto tra il modello econometrico del Ministero dell’Economia e delle Finanze (in gergo Item) e la strumentazione analoga della Commissione Europea (Quest III) per valutare in termini quantitativi gli effetti e gli impatti di riforme strutturali in materia di mercato del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni e simili (Annichiarico, Di Dio, Felici, Nucci, 2013). La conclusione è che l’impiego simultaneo delle due strumentazioni può migliorare a comprendere la qualità delle misure di politica economica in un contesto comunque circondato da incertezza. Ambedue gli strumenti, però, hanno breve respiro (un lasso temporale di 24-48 mesi) mentre appare sempre più chiaro che i problemi dell’Italia riguardano il lungo periodo.
Gli studi in materia
Utile esaminare, ad esempio, due lavori completati dal servizio studi della Banca d’Italia. Il primo (James, O’Rourke, 2011) esamina la crescita e lo sviluppo dell’Italia in quella che gli autori chiamano “la prima età della globalizzazione” (1961-1940). In quel periodo, secondo lo studio, l’Italia era alle prese con severa scarsità di capitale ma fu in grado di superare questo vincolo con soluzioni innovative specialmente di politica industriale negli anni attorno al 1880 ed al 1930, innovazioni che vennero replicate anche in altri Paesi. A mio avviso, l’analisi di James e O’Rourke è esatta nelle conclusioni a cui arriva ma adotta un periodo discutibili. Di solito, anche nei libri di O’Rourke (uno storico dell’economia di grande qualità), la prima età della globalizzazione viene situata tra il 1870 ed il 1910 poiché una delle risposte alla prima guerra mondiale fu la chiusura dei mercati agli scambi commerciali, nonché lo smantellamento di unioni monetarie (come quella latina che resse, in vario modo, dal 1865 al 1927.
La politica industriale e il caso francese
Il dibattito di politica industriale è vivo e vivace a livello europeo, principalmente per opera della Commissione. Sarebbe fin troppo facile ironizzare che “europeizzare” tutto ciò che si può fa parte del dna dell’Esecutivo di Bruxelles. Una dibattito ancora più profondo è quello in corso nella vicina Francia, là dove nel Quindicesimo Secolo è nato la Stato-Nazione, dove il senso di patriottismo nazionale è molto forte e dove vige ancora la tradizione colbertista (dal nome del Ministro dell’Economia di Luigi XIV) di proteggere (nel limite consentito dagli accordi internazionali) la produzione e la cultura nazionale. Nel 2005 il Raport Beffa (dal nome del Presidente ed Amministratore Delegato dalla Compagnie Saint Gobain, Jean-Louis Beffa a cui l’Eliseo lo aveva commissionato) getto un sasso nello stagno: proponeva di individuare, con i maggiori partner europei, “campioni industriali europei” con cui sostituire (anche tramite aggregazioni transnazionali) “campioni nazionali” ormai sulla via del tramonto. E’ cambiato, più di una volta, l’inquilino dell’Eliseo; e la maggioranza all’Assemblea Nazionale francese. Un nuovo documento, il Rapport Gallois, altro noto industriale a riposo, è sul tavolo di François Hollande, che lo ha commissionato lo scorso ottobre: anche in quanto dal 2005 è stata somministrata unicamente aspirina, il documento afferma che la Francia avrà difficoltà a far fronte alla competizione mondiale (e forse pure a restare uno dei leader nell’eurozona) se non mette in atto una “terapia shock”: liberalizzazione del mercato del lavoro, riassetto della previdenza e della sanità, sgravi tributari ai settori produttivi, abbandono dei veri o presunti “campioni nazionali” in favore di “campioni europei” e via discorrendo. Il Consiglio di Analisi Economica della Presidenza della Repubblica francese propone un ‘triangolo’per un’efficiente ed efficace politica industriale ‘europea’: politica della concorrenza, politica della tecnologia e politica del commercio internazionale.
La nota Tajani
In parallelo quasi con il completamento del Rapport Gallois, la Commissione Europea ha inteso di nuovo fare il punto con una nota del Commissario Antonio Tajani diretta ad aggiornare il documento di politica industriale An Integrated Industrial Policy for the Globalisation Era nel contesto della strategia “Europa 2020″ (gli obiettivi di crescita sostenibile da raggiungere nel 2020), Bruxelles torna sul tema perché, nonostante lo champagne stappato nell’ottobre 2010, sono stati fatti modesti passi concreti, specialmente in alcuni Stati dell’Unione. La nota (che ha avuto poca eco in Italia) pone l’accento su quattro punti meritevoli di urgente attenzione: a) stimolare investimenti in settori a basso consumo di energia e non inquinanti; b) permettere alle imprese europeo di ottenere i massimi benefici dal mercato unico interno e da quello internazionale, migliorando la competitività; c) migliorare l’accesso al credito particolarmente da parte delle piccole e medie imprese (anche al fine di ampliare le loro dimensioni); d) assicurare le professionalità di cui necessità l’industria per effettuare una vera “rivoluzione industriale”.
I settori in cui operare per la creazione di campioni europei
Nella “nota” ed in altri documenti europei vengono individuati i settori dove operare per la creazione di “campioni europei” con la vocazione di diventare protagonisti nel mercato mondiale: a) tecnologie dell’informazione e della comunicazione; b) biotecnologie; c) telecomunicazioni; d) trasporto (soprattutto aereo); d) industria della difesa; e) energia rinnovabile.
Il percorso europeo
Non mancano esempi di “campioni europei” (dall’Airbus alla STmicroelectronics). Notevoli passi sono stati fatti, più che nel manifatturiero, nel campo dei servizi finanziari (dalle banche alle assicurazioni) La strada, però, è tutta in salita a ragione di resistenze sia di management sia di lavoratori (di imprese che potrebbe diventare parte di “campioni europei”). Al ministero dello Sviluppo Economico si ragiona a lungo su questi temi, con la preoccupazione, però, che entrare a fare parte di “campioni europei” potrebbe implicare una posizione minoritaria negli organi di governo e di gestione. I guai di Alitalia (che è voluta restare “campione nazionale”) ed l’entusiasmo con cui le Borse hanno salutato la rete pan-europea di telecomunicazioni indicano che il solco è tracciato. E che chi se ne allontana, o procrastina, rischia grosso.
Addio all’Ilva, addio alla grande industria europea
Cosa c’entra l’Ilva con tutto questo? Molto. La chiusura definitiva dell’impianto vuol dire abbandonare non solo la siderurgia ma quella “grande industria” che può essere il germe di “campioni europei” anche di origine italiana. Tornare al “piccolo è bello” delle prime crisi petrolifere degli Anni Settanta. Restare fuori dal dibattito sulla crescita dell’Europa. Per il Continente vecchio e per il resto del mondo.

Nessun commento: