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Premessa
Il 13 maggio, l’Unicef ha diramato sul web (il
cartaceo è in arrivo) un interessante studio di Isabelle Ortiz e Matthew
Cummins su The Age of Austerity in cui si esaminano le
previsioni del Fondo monetario per 181 Paesi mettendo a confronto il
periodo 2005-07 (ossia prima della crisi) con il 2008-09 (quando scoppiò la
crisi), il 2010-12 (la fase centrale della crisi) ed infine le previsioni
per il 2013-15 (il periodo dei tentativi per uscire dalla crisi). Lo studio
passa in rassegna anche 314 rapporti del Fondo su 174 Paesi sugli effetti
sociali dell’’austerità’. Invoca, infine, azioni urgenti per
l’attuazione di misure alternative di rilancio socio-economico.
Proprio in questi giorni il Governo italiano
si sta chiedendo è in che misura occorre perseguire una politica di
austerità per raggiungere ‘l’equilibrio strutturale di bilancio ’ ove non
nel 2013 (come inizialmente proposto) almeno nel 2014 (come previsto nel Fiscal
Compound) . L’aumento del disagio sociale (incremento di
differenze di reddito e consumo per fasce sociali, del numero delle
famiglie incapienti, della disoccupazione giovanile) è documentato dalle
rilevazioni Istat e Banca d’Italia ed è stato al centro di un seminario
interno del MEF il 23 aprile; le slides presentate dal banchiere Pietro
Modiano, nella sua veste di Presidente di Nomisma, al seminario
sono allegate a questa nota. Il nodo centrale è in che misura gli effetti
delle politiche di bilancio su differenze di reddito e di opportunità di
mobilità sociale hanno carattere di breve periodo e sono necessarie
per giungere ad equilibri finanziari, e ad una riduzione del peso del
debito pubblico sul Pil, tale da riavviare un processo di crescita duraturo
e sostenibile.
Questa nota ha l’obiettivo di riassumere, in
termini non-tecnici (e soprattutto non econometrici) i termini del
dibattito e di fare alcune considerazione per ulteriori approfondimenti e
contiene : a) una sintesi del dibattito; b) le mie osservazioni sulle
posizioni in campo e sulle implicazioni che se ne possono trarre.
I termini del dibattito In estrema sintesi (in poche
settimane la letteratura in materia è diventata vastissima), i termini del
dibattito possono essere riassunti facendo riferimento a tre testi: a)
un libro; b) un paper ; c) un lungo articolo di giornale.
Il libro è This Time is Different: Eight
Century of Financial Folly pubblicato nel 2009 da Carmen Reihart e Kenneth
Rogoff presso la Princeton University Press per presentare in
modo organico una serie di studi prodotti nell’arco di dieci anni. Il paper
è il lavoro Does High Public Debt Consistently Stifle Economic Growth? A
Critique of Reinhart and Rogoff’ pubblicato il 15 aprile da
Thomas Herndon, Micheal Ash, e Robert Pollin della Università
del Massachussetts a Ahmerst dal Political Economy Research Institute come working
paper n 322 . L’articolo è un lungo testo apparso sul ‘New
York Times’ del 27-28 aprile (una versione ridotta è stata pubblicata
sull’ “International Herald Tribune”)
Non si tratta di una disputa accademica tra
econometrici su questioni di lana caprina. Il libro consolida quel ‘teorema
di Reinhart e Rogoff’ in base al quale se lo stock di debito
pubblico supera il 90% del Pil, la crescita ‘potenziale’ subisce un
freno pari ad un punto percentuale del Pil. Nel caso specifico
dell’Italia, la crescita ‘potenziale’ è stata stimata attorno
al 2007 da Fondo monetario, Banca centrale europea (Bce) e Commissione
Europea , in lavori differenti anche se apparsi quasi contemporaneamente,
attorno all’1,3% del Pil (a ragione della struttura demografica e
produttiva), ciò vuol dire un drastico ‘tagliadebito’ (quale quello
proposto circa sei mesi fa in un lavoro di Astrid) e molti anni di austero
rigore, se non si vuole finire in recessione permanente poiché con una
crescita ‘potenziale’ dello 0,3%, si sarebbe, alla prima e più
piccola intemperie internazionale, ad una contrazione del Pil.
La ‘regola Reinhart-Rogoff’ è diventata ‘dottrina
dominante’ nella professione ed elemento centrale di una lettera del
2011 di Olli Rehn, Vice
Presidente della Commissione Europea, in cui si richiamavano i Ministri
Economici e Finanziari dell’eurozona (e dei PIIGS in particolare) ad
osservarla con ‘appropriate’ politiche di bilancio. Era, quindi,
sottostante anche alla lettera, con indicazioni più specifiche, inviata,
nel novembre 2011, dai Presidenti della Bce e della Banca d’Italia al
Governo del nostro Paese. Dunque, ha avuto un peso politico non
indifferente nell’interpretazione dei trattati europei in generale e del Fiscal
Compact in particolare.
Il lavoro a tre di Herndon, Ash e Pollin confuta
il lavoro econometrico su cui si regge la ‘dottrina dominante’ sotto
vari profili: i periodi utilizzati, le ponderazioni attribuite a gruppi di
Paesi inclusi nel campione, l’esclusione (dal campione) di Paesi
(Australia, Canada, e Nuova Zelanda) che per diversi anni hanno
coniugato alto debito ed alta crescita. L’analisi di Reinhart e Rogoff,
in particolare si basa su un campione di 20 Stati industriali nel
periodo 1945-2009 e negli ultimi 200 anni e di 20 Sati emergenti nel
periodo 1970-2009. A ciascun gruppo di Stati viene attribuito un peso
(di importanza relativa al fine della definizione di implicazioni di
politica economica). Secondo il loro paper, mediamente con un debito
leggermente superiore al 90% del Pil si cresce al 2,2% non si decresce
dello 0,1% l’anno, come quantizzato negli studi di Reinhart e Rogoff.
Quindi, il ‘teorema’ su cui poggia la dottrina
dominante a supporto delle politiche di austerità non ha un’adeguata
verifica econometrica; anzi, i dati suggerebbero un allentamento delle
restrizioni di bilancio che, unitamente a politiche monetarie
‘accomodanti’, stimolino la crescita e, quindi, una riduzione del rapporto
indebitamento delle pubbliche amministrazioni. Pil e stock di debito:Pil da
ottenersi in buona misura aumentando il denominatore. Il paper sottolinea
anche alcuni errori materiali di tecnica econometrica nel libro di Reinhart
e Rogoff e nei lavoro che lo hanno preceduto.
Nella loro replica, Reinhart e Rogoff
ammettono alcuni errori materiali di natura econometrica ma sottolineano
come il loro ‘messaggio di fondo ’ resti valido: i Paesi ad alto
debito sono spesso quelli in cui ‘l’invecchiamento comporta aumenti delle
spese sanitarie e previdenziali e, quindi, trasformazione da risparmiatori
a debitori per numerose categorie di percetto ridi reddito’ con seri
problemi per i mercati finanziari, oltre per la finanza pubblica: nel loro
ultimo intervento (27-28 aprile) propongono non una drastica riduzione del
debito ma un aumento dell’inflazione ed un ‘tetto’ agli interessi
(se fattibile); in effetti, un’imposta implicita a carico dei titolari di
obbligazioni del debito pubbliche. Il dibattito è destinato a continuare a
livello tecnico e politico. E’ già centrale in seno al servizio studi
della stessa – si veda “Fiscal Composition and Long-Term
Growth" ECB Occasional Paper No. 1518 di Antonio Afonso
dell’Università Tecnica di Lisbona, liberamente scaricabile dal sito Bce da
circa una settimana.
Implicazioni di politica economica
A mio avviso, la proposta più recente di Reihnart e Regoff implica anche una
manovra sul cambio, una svalutazione (più che un deprezzamento) che può
essere attuata da Stati con piena sovranità monetaria ma che, all’interno
dell’eurozona, dovrebbe essere concordata tra tutti gli Stati membri e la
Bce. A me sembra una proposta di politica economica scarsamente
praticabile.
Il loro ‘ teorema’ e la dottrina dominante che
ne è emersa hanno un altro punto debole che, in passato, ho esaminato in
altra sede: la serie storica di due secoli ha scarso valore e dovrebbe
essere esclusa. Grazie ai lavori di Angus Maddison (specialmente
The World Economy- A Millennium Perspective, Parigi OECD 2011), si
dispone di statistiche comparabili ed affidabili della contabilità
economica nazionale (stime del Pil e dei macro-aggregati) dal 1830. Non
esiste lavoro analogo per le contabilità dello Stato che sino al secondo
dopoguerra hanno seguito metodiche profondamente differenti in base a
normative anche esse profondamente differenti. Questa è, ad esempio, una
delle ragioni per cui lavori pregevoli sul debito pubblico dell’Italia
quali quelli di Vera Zamagni (Il debito pubblico dell’Italia
1961-1987, Istituto Politigrafico e Zecca dello Stato, Roma 1988) e di Antonio
Pedone ed altri (Debito pubblico e riforma tributaria, I
Quaderni di Economia Italiana, Unicredit 2011) riguardano un solo Stato,
tengono conto dell’evoluzione della normativa sulla contabilità pubblica e
non hanno un ottica comparata. Anche se non ho effettuato un esercizio
econometrico controfattuale, è probabile che eliminando la serie a 200 anni
le conclusioni di This Time is Different perdano ulteriore validità.
E’ utile infine ricordare che la revisione
della dottrina dominante sta avendo un impatto anche nel mondo
accademico – intellettuale tedesco che a tale dottrina è parso più
agganciato. Un esempio è un lavoro apparso in questi ultimi giorni Weathering
the Crisis and Beyond- Perspectives for the Euro Area, di Christoph
M. Schmidt e Benjamin Weigert, Ruhr Economic Paper n. 406. Il
lavoro propone un European Redemption Pact che da un lato
rappresenti un forte impegno a favore dell’unione monetaria e dall’altro
sia ‘un ponte tra disciplina di bilancio, riforme strutturali e maggior
supporto comunitario ai Governi in difficoltà’: ‘il patto comporterebbe
due punti essenziali – la codificazione di percorso credibile e coerente di
riforme ed uno strumento temporaneo e limitato per il rifinanziamento
comune di parte dei titoli di debito in scadenza’. A maggior ragione,
quindi, una revisione della tempistica per l’’equilibrio strutturale di
bilancio ’ e per la riduzione del rapporto stock di debito pubblico:Pil
pare fondata.
Su questo dibattito, si inserisce quello,
apparentemente molto tecnico ma denso d’implicazioni politiche,
fiscal multiplier , da intendersi come effetti della contrazione
(o espansione) delle politiche di bilancio sul Pil (non, come apparso
in stampa economica italiana, come ‘moltiplicatore keynesiano’ della spesa,
ossia quanto indotto si attiva). In breve, le analisi Fmi (ancora in corso)
concludono che in fase di recessione economica le restrizioni di bilancio
hanno effetti molto più pronunciati sul Pil (-3% invece di – 0,5%) di
quando avviene in tempi normali con la conseguenza che le politiche di
austerità non solo aumentano il disagio sociale ma rendono più arduo
raggiungere equilibrio di bilancio e riduzione del fardello del debito.
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