Gli ammonimenti inutili di Draghi
25 - 05 - 2013Giuseppe Pennisi
Non è facile "fare riforme" mentre imperversa da anni la recessione,
il contesto è incerto, i "riformatori" sono avviliti e depressi e le
lobby cercano di mantenere le posizioni acquisite. Invece di ammonire il
colto e l’inclito, il Prof ci dica quali riforme fare ancora e come...
Luigi Einaudi non si faceva chiamare Professore
(nonostante avesse vinto una delle più importanti cattedre di economia,
quella all’ateneo di Torino, andasse a fare lezione regolarmente ed
avesse una nutrita schiera di allievi, tra cui Francesco Forte) e
considerava “inutili” le proprie prediche, ma pronunciate in tono
professorale.Mario Draghi si fa chiamare Professore (ne ha titolo avendo vinto un concorso) ma all’Università di Firenze, dove aveva la cattedra di Economia internazionale, lo si è visto di rado: il corso veniva tenuto da Vera Zamagni mentre lui era consulente del ninistro del Tesoro, Giovanni Goria, rappresentante dell’Italia e di altri Stati in Banca Mondiale e in alti incarichi pubblici e privati. Non predica, ammonisce. Sempre in tono molto professorale (come si fa quando non si ha prassi di didattica attiva e il confronto con studenti). Non so se giudica “utili” i suoi ammonimenti. Se fossi nei suoi panni, qualche dubbio lo avrei.
A un anno del discorso sulla “difesa ad oltranza” dell’unione monetaria e dell’annuncio dei (mai istituiti) Omt (Outright Monetari Transactions) è tornato sul tema delle “riforme mancate”, ottimo modo per non trattare delle responsabilità della Banca centrale europea (Bce) e di seguire la prassi mediterranea di dare tutte le responsabilità “agli altri”. Gli studenti sono più irriverenti dei giornalisti. Quindi, se fosse stato in aula, non avrebbe avuto il coro a cappella di elogi da editorialisti che poco sanno di economia, ma un Va pensiero di pernacchie.
Il Prof. Draghi non ha parlato genericamente di riforme. Ha detto che occorre liberalizzare “senza riguardo per gli interessi costituiti”, chiudere “il gap tra salari e andamento della produttività” (locuzione che, avrebbe detto Oscar Wilde, può dare adito a numerose interpretazioni, anche l’invito ad abbassare i saggi dei salari reali in Paesi, come l’Italia, poco competitive). Ultimo ammonimento: riformare ‘”a struttura del mercato del lavoro per evitare che il peso della maggiore flessibilità ricada soprattutto sui giovani”. Ammonimenti ineccepibili (pur se il secondo richiede un chiarimento) ma poco utili.
Prima di tornare sul tema, il Prof. Draghi dovrebbe farsi consigliare da qualche graduate student su testi vecchi e nuovi da consultare sulle riforme fattibili dopo sei anni di recessione e mentre è in atto una profonda ristrutturazione dell’economia mondiale. Dovrebbe iniziare dalla lettura di un testo di culto: “Come fare passare le riforme” di Albert Hirschmann (scritto negli Anni Sessanta ma pubblicato in italiano da Il Mulino nel 1990). Il lavoro sostiene che le riforme necessitano anni di vacche grasse in quanto i riformatori devono disporre di risorse con cui compensare le categorie danneggiate (anche quando il danno altro non è che una perdita di privilegi). Il saggio, datato (ma ancora attuale) traccia un percorso secondo il quale la “la valutazione condivisa” è il filo di Arianna per fare non solo approvare le riforme ma soprattutto per attuarle e farle essere efficienti, efficaci e durature. Altrimenti, c’è il rischio di cadere nell’effimero, e di innescare contraccolpi, irrigidimenti dell’esistente, ed il ripristino del passato sotto nuove forme e guise.
L’ipotesi di Hirschmann è rafforzata dal libro per il quale Douglas C. North (un liberale di razza) ha meritato il Premio Nobel per l’Economia: “Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia”: l’approssimarsi di “nuove regole” (quelle scaturenti dalle riforme) le vecchie regole si irrigidiscono e, di conseguenza, occorre creare una coalizione di riformisti silenziosi (che riescano ad operare senza farsene accorgere). A conclusioni analoghe era giunto il liberista Mancur Olson in “The Logic of Collective Action: Public Goods and the Theory of Groups” pubblicato negli Usa nel 1965 ma tradotto in italiano da Feltrineli nel 1990. Il Prof. Draghi ha certamente letto il saggio di Mancur Olson ma dubito che conosca quelli di Hirschmann e North.
Alcuni anni fa, con P.L. Scandizzo dell’Università di Roma Tor Vergata (“Valutare l’incertezza”, Giappichelli 2003), ho rimesso mano all’approccio riformista di Hirschmann, situandolo in un contesto di incertezza, (come l’attuale), aggiornando la strumentazione tecnica ed arricchendolo di “casi di studio”, ma giungendo a conclusioni analoghe.
Non è facile “fare riforme” mentre imperversa da anni la recessione, il contesto è incerto, i “riformatori” sono avviliti e depressi (sarebbe utile anche qualche lettura di “economia comportamentale” e di “neuro-economia”) e le lobby cercano di mantenere titoli quesiti. Invece di ammonire il colto e l’inclito, il ‘Prof’ ci dica come.
Altrimenti, diventeremo anche noi studenti irriverenti.
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