«Le fabbriche dell’opera» producono
sempre meno
DI GIUSEPPE PENNISI N el fascicolo appena giunto in edicola del mensile Classic Voice, Mauro Balestrazzi traccia un quadro dettagliato (9 pagine del periodico, corredate da tabelle) della situazione delle fondazioni liriche italiane sotto il profilo della produzione, dei bilanci consuntivi, degli abbonamenti, degli spettatori paganti e raffronta le nostre “fabbriche dell’opera” con un campione di analoghi enti stranieri. Il raffronto è inquietante: i nostri due teatri che, in termini di “alzate di sipario” e di titoli, producono di più (La Scala e il Teatro dell’Opera di Roma) sono a livelli marcatamente inferiori (circa del 30%) del campione di raffronto che include teatri non solo di città grandi (come Berlino, Parigi e Londra) ma anche medie come Zurigo con i suoi 360.000 abitanti. In Italia, La Fenice starebbe superando la Scala (come enfatizzato nel titolo) in termini di produzione e qualità (i Premi ottenuti) ma soprattutto molte fondazioni rischiano di essere trasformate in “teatri di tradizione”. Il Teatro Comunale di Bologna, di cui il 14 maggio si sono celebrati i 250 anni dall’apertura, è tra gli enti a rischio.
L’analisi non trae le conseguenze in termini di politica del settore. Molte misure da prendere sono microeconomiche e gestionali ma possono essere indirizzate dalla politica. Sarebbe sufficiente un decreto ministeriale che prevedesse accesso al Fus (Fondo unico per lo spettacolo), unicamente se il 70% della programmazione è in co-produzione. In una Italia fatta a Stivale, è più facile spostare gli spettacoli che il pubblico. Il costo di scene e costumi è appena il 5% di un allestimento ma in Italia i cachet degli artisti sono mediamente il doppio di quelli nel resto d’Europa e negli Usa perché vengono scritturati per poche (4-6) rappresentazioni; sarebbero molto più bassi se tramite una politica di coproduzioni venissero scritturati per replicare lo stesso lavoro in vari teatri 25 -30 volte. Inoltre, si dovrebbe prevedere una “premialità”, analoga a quella dei fondi europei: le fondazioni che chiudono i conti in attivo e hanno attuato una buona programmazione (in termini di numeri e qualità di spettacoli, quali valutati dalla critica italiana e straniera) dovrebbero ricevere una dotazione aggiuntiva l’esercizio successivo. Soprattutto occorre promuovere il ricambio del pubblico attirando i giovani, come sta facendo egregiamente l’AsLiCo di Como che, in co-produzione con teatri francesi e tedeschi, porta in una trentina di città un Olandese Volante di Wagner in edizioni per bambini, adolescenti e ragazzi.
Perché ciò funzioni sono essenziali quelli che gli economisti chiamano incentivi a basso ed a alto potenziale. I primi operano nel lungo termine come il miglioramento dell’istruzione musicale nelle scuole (e in famiglia): la Rai (finanziata con il canone) dovrebbe tornare a svolgere un ruolo in questo campo. I secondi, invece, operano rapidamente. Il regolamento approvato dal governo ne prevede uno molto forte, ma “negativo”; il declassamento (a teatri “di tradizione”) delle fondazioni che non chiudono il bilancio almeno in pareggio. Occorre affiancarlo con uno “positivo”: una revisione degli sgravi tributari (attualmente una detrazione del 19%) per le elargizioni liberali per portarle alla media europea (30%) ove non necessariamente al livello della Francia (60%).
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enti lirici
Un’inchiesta del mensile Classic Voice sulla realtà economica dei teatri italiani
Per salvarsi dal fallimento occorre attirare i giovani e aprirsi alle coproduzioni La Fenice meglio della Scala
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