L’EUROPA E L’ESERCITO (DI DISOCCUPATI)
Giuseppe Pennisi
L’eurozona
minaccia di avvitarsi nel ‘circolo vizioso della disoccupazione’. Lo ha detto
in termini eloquenti il direttore del servizio studi di una delle maggiori
banche dell’area , la ING, commentando i dati su chi cerca lavoro senza
trovarlo pubblicati dall’Eurostat all’inizio di aprile. Nei 17 Stati dell’area
dell’euro, si è superato un tasso di disoccupazione del 12% alla fine di marzo
ed è probabile che si arrivi a sfiorare il 14% entro l’inizio dell’estate. Nei
27 dell’Unione Europea (UE), all’ultima conta (inizio febbraio) coloro alla
ricerca di un lavoro superavano i 26 milioni. Queste cifre contrastano
nettamente con quelle degli Stati Uniti dove il tasso di disoccupazione viaggia
verso il 7,5% (il livello più basso dal 2008) e, dall’inizio del 2013, la
creazione netta di posti di lavoro supera i 200.000 al mese.
Il
‘circolo vizioso’ dipende in gran misura da politiche macro-economiche e di
bilancio allestite per promuovere la convergenza di finanza pubblica degli
Stati dell’eurozona verso obiettivi comuni. Tali politiche sono in discussione;
il dibattito durerà almeno sino a quando si sapranno i risultati delle elezioni
tedesche in calendario per il prossimo settembre. Anche se è difficile pensare
ad un riassetto del quadro istituzionale dell’area dell’euro prima di allora,
ci sono leve che possono essere utilizzate , anche solamente con una più
flessibile interpretazione dei trattati.
Una
di queste è il potenziamento e l’impiego degli investimenti a lungo termine. Solo in Italia, il tracollo dell’investimento pubblico ha aggravato la
contrazione dell’economia e provocato, nel biennio 2010-2011, unicamente nel
settore delle costruzioni, una perdita di circa 350mila posti di lavoro, che
arrivano a oltre 500mila se si considera anche l’indotto. Fenomeni analoghi –
sottolinea un recente studio dell’Office Français des Conjunctures économiques
(Ofce), prodotto in collaborazione con due altri istituti di ricerca: l’Imk di
Düsserdolf e l’Eclm di Copenhagen- si riscontrano in varia misura in tutta l’eurozona.
All’inizio di aprile, la Commissione Europea ha diramato agli Stati membri
un ‘Libro Verde’ sul ‘Finanziamento a Lungo Termine dell’Economia Europea’ che
avrebbe meritato un maggior dibattito di quello che si è avuto, soprattutto in
Italia (dove la politica era polarizzata dall’elezione del Capo dello Stato e
dai tentativi di formazione di un Governo con caratteristiche di stabilità). Non
è il consueto voluminoso documento in cui si descrivono le situazioni e le posizioni dei 27, ma un sintetico testo
di 15 pagine e mezzo in cui si sollevano 30 domande a cui si spera di avere
risposte dagli Stati membri. Alcune di queste domande sono a carattere
definitorio (cosa considerare e cosa non considerare ‘investimenti a lungo
termine’) , altre riguardano l’analisi dei servizi della Commissione (in che
misura la caduta degli investimenti a lungo termine ha avuto e sta avendo
effetti negativi sulla crescita), altre ancora sono specificatamente tecniche (il
ruolo dell’armonizzazione delle regole per i covered bond). Sotto una guisa che pare meramente professionale,
però, si celano interrogativi con un forte contenuto di politica economica a
cui non dovrebbero rispondere unicamente funzionari di dicasteri e di banche
centrale: Cosa fare , a livello europeo, per incoraggiare gli investimenti a
lungo termine? Come assicurarne la qualità in termini di effetti e di impatti
(anche occupazionali) e di benefici per le giovani generazioni e quelle future?
Quali modelli di conti di risparmio specifici incoraggiare per canalizzare le
risorse delle famiglie verso gli investimenti a lungo termine? Come rivedere (e
coordinare) il trattamento tributario e le regole contabili a livello europeo
per facilitare impieghi a lungo termine? Come migliorare la trasparenza ?
Come far sì che le risorse per il lungo
termine vengano dirette anche verso le piccole e medie imprese?
L’insieme di queste domande sembra
sottintendere la possibilità che almeno per parte dell’investimento a lungo
termine si stia finalmente giungendo a riconoscere l’esigenza di un trattamento
speciale nell’interpretazione del Fiscal
Compact. E’ un punto molto forte. C’è da augurarsi che il questionario non
resti nelle scrivanie di barracuda-esperti, ma ci sia un Governo in grado di
fare sentire chiara e forte la propria voce a Bruxelles.
Nessun commento:
Posta un commento