martedì 21 maggio 2013

Riforme per la crescita in un’Italia che ristagna in L'indro 21 maggio


Riforme per la crescita in un’Italia che ristagna

Due studi su cui concentrarsi per evitare lo stallo economico

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Giuseppe Pennisi
Martedì 21 Maggio 2013, 18:30

Tags:
crescitaFabrizio SaccomanniGaetano QuagliarielloPilriforme
Il tema delle ‘riforme per la crescita’ è centrale al dibattito politico. E naturalmente coinvolge anche i centri di analisi economica. Il Centro per l’Economia e lo Sviluppo Internazionale (CEIS) dell’Università di Tor Vergata, ad esempio, ha appena pubblicato un interessante raffronto tra il modello econometrico del Ministero dell’Economia e delle Finanze (in gergo ITEM) e la strumentazione analoga della Commissione Europea (QUEST III) per valutare in termini quantitativi gli effetti e gli impatti di riforme strutturali in materia di mercato del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni e simili (Annichiarico, Di Dio, Felici, Nucci, 2013). La conclusione è che l’impiego simultaneo delle due strumentazioni può migliorare a comprendere la qualità delle misure di politica economica in un contesto comunque circondato da incertezza. Ambedue gli strumenti, però, hanno breve respiro (un lasso temporale di 24-48 mesi) mentre appare sempre più chiaro che i problemi dell’Italia riguardano il lungo periodo.
Utile esaminare, ad esempio, due lavori appena completati dal servizio studi della Banca d’Italia. Il primo (James, O’Rourke, 2011) esamina la crescita e lo sviluppo dell’Italia in quella che gli autori chiamano ‘la prima età della globalizzazione 1961-1940). In quel periodo, secondo lo studio, l’Italia era alle prese con severa scarsità di capitale ma fu in grado di superare questo vincolo con soluzioni innovative specialmente di politica industriale negli anni attorno al 1880 ed al 1930, innovazioni che vennero replicate anche in altri Paesi. A mio avviso, l’analisi di James e O’Rourke è esatta nelle conclusioni  a cui arriva ma adotta un periodo discutibili. Di solito, anche nei libri di O’Rourke (uno storico dell’economia di grande qualità), la prima età della globalizzazione viene situata tra il 1870 ed il 1910 poiché una delle risposte alla prima guerra mondiale fu la chiusura dei mercati agli scambi commerciali, nonché lo smantellamento di unioni monetarie (come quella latina che resse, in vario modo, dal 1865 al 1927.
Più interessante suddividere il periodo ed esaminare , in particolare, le radici del ‘miracolo economico’. Come ho avuto modo di dimostrare in altra sede (Pennisi, 2010), economisti rigorosamente marxisti e rigorosamente neo-classici (Janossy., 1973; Kindleberger 1967) concordano sul punto che alla base delle forte ‘efficienza adattiva’ dell’Italia (che le consentì di cogliere le opportunità dell’apertura dei mercati e del ritorno alla convertibilità) fu la forte dotazione di capitale umano (risultato dell’elevata qualità dell’istruzione e della formazione professionale). Tale ‘capitale’ reso ‘improduttivo’ dal succedersi di guerre dal 1935 al 1945, diventò molto produttivo quando venne coniugato con capitale fisico, politiche economiche liberali e internazionalizzazione. Il ‘miracolo’ si esaurì a ragione della scarsa attenzione al saggio di salario ed alle politiche sociali.
L’altro lavoro recente della Banca d’Italia esamina ‘l’età dell’oro e la seconda globalizzazione’ (Crafts, Magnani, 2011) . Al riparo da inflazione e svalutazione, la crescita restò relativamente sostenuta sino alla metà degli Anni Settanta, ma le esigenze di riassetto strutturale vennero trascurate, pur se riforme dal lato dell’offerta vennero attuale in seguito alla crisi valutaria del 1992. Tali riforme furono meno incisive di quanto necessario. La partecipazione nell’unione monetaria europea ‘non ha portato miglioramenti in termini di prospettive di crescita’. Nelle conclusioni, l’analisi si sofferma su determinanti meta-economiche che ‘bloccano’ il sistema.
Per una corretta interpretazione di queste determinanti meta-economiche, occorre, a mio parere, soffermarsi su due lavori che hanno suscitato un notevole dibattito nel mondo accademico anglo-sassone ma non sono citati nei ‘quaderni di storia economica’ della Banca d’Italia e non appaiono nel dibattito italiano. I due libri esaminano, in modo differente, temi simili  ‘Why Nations Fall: The Origins of Power, Prosperity and Poverty’ di Daron Acemoglu e James Robinson (2012) e ‘Pillars of Prosperity; The Political Economy of Development Clusters’ di Timothy Besley e Torsten Persson (2011).
Sono due lavori differenti; il secondo scritto per studenti in corsi magistrali; il primo rivolto al grande pubblico e per mesi in test ai best seller. Meritano di essere esaminati con grande cura nel predisporre politiche di crescita. Intendo farlo gradualmente. Nei limiti di questa nota, è importante rilevare sulla base di regressioni statistiche per un vasto campione di paesi (Besley e Persoson) e di una narrativa che parte dalle civiltà antiche, ambedue giungono alla conclusione che ‘non esiste un’ingegneria economica per la crescita’ e che le determinanti meta-economica più significativa sono quelle politiche. Per Acemoglu e Robinson si può crescere se la politica fornisce ‘un assetto istituzionale inclusivo’ (in cui si incoraggia la partecipazione e quindi la equa suddivisione di costi e benefici); se resta al palo con ‘un assetto istituzione estrattivo’ che ‘arricchisce chi decide a spese del resto della società’.
E’ questo il tema di fondo che deve affrontare non tanto il Ministro dell’Economia e delle Finanze Fabrizio Saccomanni quanto il Ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello.





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