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Il tema delle ‘riforme per la crescita’ è centrale al dibattito
politico. E naturalmente coinvolge anche i centri di analisi
economica. Il Centro per l’Economia e lo Sviluppo Internazionale (CEIS)
dell’Università di Tor Vergata, ad esempio, ha appena pubblicato un
interessante raffronto tra il modello econometrico del Ministero
dell’Economia e delle Finanze (in gergo ITEM) e la strumentazione analoga
della Commissione Europea (QUEST III) per valutare in termini quantitativi
gli effetti e gli impatti di riforme strutturali in materia di
mercato del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni e simili
(Annichiarico, Di Dio, Felici, Nucci, 2013). La conclusione è che l’impiego
simultaneo delle due strumentazioni può migliorare a comprendere la qualità
delle misure di politica economica in un contesto comunque circondato da
incertezza. Ambedue gli strumenti, però, hanno breve respiro (un lasso
temporale di 24-48 mesi) mentre appare sempre più chiaro che i problemi
dell’Italia riguardano il lungo periodo.
Utile esaminare, ad esempio, due lavori appena completati dal servizio
studi della Banca d’Italia. Il primo (James, O’Rourke, 2011) esamina la
crescita e lo sviluppo dell’Italia in quella che gli autori chiamano ‘la
prima età della globalizzazione 1961-1940). In quel periodo, secondo
lo studio, l’Italia era alle prese con severa scarsità di capitale ma fu in
grado di superare questo vincolo con soluzioni innovative specialmente di
politica industriale negli anni attorno al 1880 ed al 1930,
innovazioni che vennero replicate anche in altri Paesi. A mio avviso,
l’analisi di James e O’Rourke è esatta nelle conclusioni a cui arriva
ma adotta un periodo discutibili. Di solito, anche nei libri di O’Rourke
(uno storico dell’economia di grande qualità), la prima età della
globalizzazione viene situata tra il 1870 ed il 1910 poiché una delle
risposte alla prima guerra mondiale fu la chiusura dei mercati agli scambi
commerciali, nonché lo smantellamento di unioni monetarie (come
quella latina che resse, in vario modo, dal 1865 al 1927.
Più interessante suddividere il periodo ed esaminare , in particolare,
le radici del ‘miracolo economico’. Come ho avuto modo di dimostrare in
altra sede (Pennisi, 2010), economisti rigorosamente marxisti e
rigorosamente neo-classici (Janossy., 1973; Kindleberger 1967) concordano
sul punto che alla base delle forte ‘efficienza adattiva’ dell’Italia
(che le consentì di cogliere le opportunità dell’apertura dei mercati e del
ritorno alla convertibilità) fu la forte dotazione di capitale
umano (risultato dell’elevata qualità dell’istruzione e della
formazione professionale). Tale ‘capitale’ reso ‘improduttivo’ dal
succedersi di guerre dal 1935 al 1945, diventò molto produttivo quando
venne coniugato con capitale fisico, politiche economiche liberali e
internazionalizzazione. Il ‘miracolo’ si esaurì a ragione della
scarsa attenzione al saggio di salario ed alle politiche sociali.
L’altro lavoro recente della Banca d’Italia esamina ‘l’età dell’oro e la
seconda globalizzazione’ (Crafts, Magnani, 2011) . Al riparo da inflazione
e svalutazione, la crescita restò relativamente sostenuta sino alla
metà degli Anni Settanta, ma le esigenze di riassetto strutturale
vennero trascurate, pur se riforme dal lato dell’offerta vennero attuale in
seguito alla crisi valutaria del 1992. Tali riforme furono meno incisive di
quanto necessario. La partecipazione nell’unione monetaria europea ‘non ha
portato miglioramenti in termini di prospettive di crescita’. Nelle
conclusioni, l’analisi si sofferma su determinanti meta-economiche che
‘bloccano’ il sistema.
Per una corretta interpretazione di queste determinanti meta-economiche,
occorre, a mio parere, soffermarsi su due lavori che hanno suscitato un
notevole dibattito nel mondo accademico anglo-sassone ma non sono citati
nei ‘quaderni di storia economica’ della Banca d’Italia e non appaiono nel
dibattito italiano. I due
libri esaminano, in modo differente, temi simili ‘Why Nations
Fall: The Origins of Power, Prosperity and Poverty’ di Daron
Acemoglu e James Robinson (2012) e ‘Pillars
of Prosperity; The Political Economy of Development Clusters’ di Timothy
Besley e Torsten Persson (2011).
Sono due lavori differenti; il secondo scritto per studenti in corsi
magistrali; il primo rivolto al grande pubblico e per mesi in test ai best
seller. Meritano di essere esaminati con grande cura nel predisporre
politiche di crescita. Intendo farlo gradualmente. Nei limiti di questa
nota, è importante rilevare sulla base di regressioni statistiche per un
vasto campione di paesi (Besley e Persoson) e di una narrativa che parte
dalle civiltà antiche, ambedue giungono alla conclusione che ‘non esiste
un’ingegneria economica per la crescita’ e che le determinanti
meta-economica più significativa sono quelle politiche. Per
Acemoglu e Robinson si può crescere se la politica fornisce ‘un assetto
istituzionale inclusivo’ (in cui si incoraggia la partecipazione e
quindi la equa suddivisione di costi e benefici); se resta al palo con ‘un
assetto istituzione estrattivo’ che ‘arricchisce chi decide a spese del
resto della società’.
E’ questo il tema di fondo che deve affrontare non tanto il Ministro
dell’Economia e delle Finanze Fabrizio Saccomanni quanto
il Ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello.
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