martedì 28 maggio 2013

Riforme in anni di vacche magre in Lindro 28 maggio


Come rattopparne i potenziali danni in tempi di crisi, secondo Albert Hirschmann
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Prima superare la crisi e poi fare le riforme, oppure viceversa. Pare l’inizio della commedia (Prima le parole, poi la musica) dell’Abbate Casti messa in musica, a fine Settecento, da Antonio Salieri. E riproposta (in Capriccio) nel 1942 da Richard Strauss, allora settantottenne, in una Monaco dove spesso si doveva correre ai rifugi a ragione dei bombardamenti degli alleati.
E’, invece, il tema centrale di un dibattito tra “scuole di pensiero” economico in questi anni. Ove non di questi giorni un testo di culto della sinistra riformista – “Come fare passare le riforme” di Albert Hirschmann (scritto negli Anni Sessanta ma pubblicato in italiano da Il Mulino nel 1990) – sostiene che le riforme necessitano anni di vacche grasse in quanto i riformatori devono disporre di risorse con cui compensare le categorie danneggiate (anche quando il danno altro non è che una perdita di privilegi).
Il saggio, datato (ma ancora attuale) traccia un percorso secondo il quale la “la valutazione condivisa” è il filo di Arianna per fare non solo approvare le riforme ma soprattutto per attuarle e farle essere efficienti, efficaci e durature . Altrimenti, c’è il rischio di cadere nell’effimero, e di innescare contraccolpi, irrigidimenti dell’esistente , ed il ripristino del passato sotto nuove forme e guise. Hirschmann, cresciuto e laureato a Trieste e cognato di Altiero Spinelli, anche se da decenni tra gli Usa (di cui è cittadino) e l’America Latina, avverte che il vero riformismo è morigerato, frugale: quando si cerca di fare una scorpacciata (anche per fini nobili) si innescano contraccolpi che diventano durissimi se, a torto o ragione, gli scopi non sono giudicati tanto nobili, ma personalistici.
L’ipotesi di Hirschmann è rafforzata dal libro per il quale Douglas C. North (un liberale di razza) ha meritato il Premio Nobel per l’Economia: “Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia”: l’approssimarsi di “nuove regole” (quelle scaturenti dalle riforme) le vecchie regole si irrigidiscono e, di conseguenza, occorre creare una coalizione di riformisti silenziosi (che riescano ad operare senza farsene accorgere) A conclusioni analoghe era giunto il liberista Mancur Olson in “The Logic of Collective Action: Public Goods and the Theory of Groups pubblicato negli Usa nel 1965 ma tradotto in italiano da Feltrineli nel 1990.
Alcuni anni fa, con P.L. Scandizzo dell’Università di Roma Tor Vergata (“Valutare l’incertezza”, Giappichelli 2003), ho rimesso mano all’approccio riformista di Hirschmann, situandolo in un contesto di incertezza, (come l’attuale), aggiornando la strumentazione tecnica ed arricchendolo di “casi di studio”, ma giungendo a conclusioni analoghe. In generale, quindi, questi aspetti di metodo mi sembrano ancora validi.
La bassa crescita economica dell’Italia e le severe restrizioni finanziarie sono state addotte dalla primavera 1996 a quella 2001 e dalla primavera 2006 ad oggi come ragioni per posporre riforme o fare marcia indietro su alcune di quelle annunciate (il caso più evidente degli ultimi due anni sono le liberalizzazioni; in passato il caso più clamoroso è stata la previdenza). Con la crisi finanziaria che s’inasprisce e la stagnazione che diventa recessione siamo in una situazione analoga? Non necessariamente. Già nel 1991, in un libro scritto a quattro mani (G. Pennisi e G. Scanni “Debito, crisi, sviluppo”, Marsilio) venne dimostrato che in numerosi Paesi la crisi del debito estero dell’ultima fase degli Anni Ottanta stata la molla per riforme, spesso coraggiose , quasi sempre predisposte da anni; documentammo anche che tali riforme avevano successo se “socialmente compatibili”.
Pochi mesi dopo, tra il settembre 1992 ed il marzo 1993, a fronte di una crisi tale da comportare il deprezzamento del 30% della lira, il Governo Amato attuò un programma di riforme drastiche (previdenza, mercato del lavoro, pubblico impiego). Analogamente, nella primavera 1995, quando la lira traballava e si temeva per l’ingresso dell’Italia nell’euro, il Governo Dini riuscì a fare salpare la riforma della previdenza in cantiere sin dal 1978 (“Commissione Castellino). Ancora, le riforme del mercato del lavoro, degli incentivi industriali, del bilancio dello stato e l’inizio di quelle della scuola ed università sono state varate negli “anni difficili” che hanno fatto seguito all’11 settembre 2001.
Per Governo e Parlamento, quindi, la crisi finanziaria ed economica dovrebbero – come affermava una vecchia pubblicità  – mettere un turbo del motore delle riforme, specialmente di quelle “socialmente compatibili”. In primo luogo, tornare allo spirito iniziale del riassetto della previdenza, utilizzando eventuali risparmi per ammortizzatori sociali per i più deboli. In secondo luogo, attuare a pieno la modernizzazione della Pa per renderla più efficiente e più efficace. In terzo luogo, rivedere, una volta per tutte, contabilità speciali e fuori bilancio (spesso fonte di privilegi corporativi) e, se del caso, chiuderle. In quarto luogo, rompere con il “contratto unico” le barriere tra i precari e gli altri.
Sono solamente prime indicazioni. Il dibattito è aperto.
Gli stessi studi comparati OCSE presentati negli ultimi mesi avvertono che, in tempo di contrazione economica, le riforme strutturali dovrebbero seguire un'agenda ben concepita, iniziando da quelle che più promettono in termini di spinta alla crescita ed hanno meno impatto sul sociale (anche al fine di contenere populismi di vari tipi e colori) . Ciò significa liberalizzare i mercati dei prodotti e dei servizi prima di tentare di mettere ordine nel mercato del lavoro, nella previdenza e nella sanità. Ciò vuole anche dire approntare un rete universalistica di tutele sociali (in italiano una effettiva riforma degli ammortizzatori) . Senza dubbio la "riforma Fornero" segue in parte questi principi nelle materie di propria competenza ma occorre chiedersi se le liberalizzazioni promesse dal Governo Monti (ma attuate in modo molto pallido) non avrebbero dovuto precedere le misure su mercato del lavoro, previdenza e sociale e se la"stangata" tributaria agevola o frena le riforme.

Chiunque ha responsabilità di Governo in Europa (e soprattutto in Italia) nei prossimi anni avrà come suo compito principale non tanto un ipotetico rilancio dello sviluppo (dopo quindici anni di crescita rasoterra) quanto quello del governo del declino. Da un lato, è essenziale che il declino non ponga nuovi ostacoli a riforme delle regole, provocando irrigidimenti (North). Da un altro ancora, è essenziale per evitare che le finalità e le riforme vengano fraintese proprio a ragione del declino (Hirschmann). Da un altro ancora il declino, specialmente se non governato accuratamente, innesca incertezza od aumenta quella in essere, con la conseguenza , quanto meno, di ritardare le riforme a ragione della “freccia del tempo” e della esigenza (effettiva o solamente avvertita) di avere maggiori informazioni. Il governo del declino è, quindi, preliminare a qualsivoglia politica riformistica di ampio raggio e vasto spessore poiché soltanto governando i processi in atto (che comportano inevitabilmente un ridimensionamento del peso e del ruolo dell’Europa nell’economia internazionale) si possono individuare ed attuare le riforme che operino come leve di uno sviluppo di lungo periodo.

Vastissima la letteratura sul declino (specialmente divulgativa) apparsa negli ultimi tempi in Italia. Chiarissima (e non di parte) l’analisi del Premio Nobel Roberto Fogel: il nucleo più avanzato dell’Ue – ossia l’Ue a 15, non a 27 – non riuscirebbe, dal 2000 al 2040, a stare al passo con la crescita dell’Asia- nel 2040 l’economia cinese raggiungerebbe i 123 milioni di miliardi di dollari (a tassi di cambio e potere d’acquisto costanti del 2000). Ciò avrebbe, secondo Fogel, implicazioni molto più vaste di quelle economiche, commerciali e finanziarie: la funzione di promuovere quei valori e quel sistema democratico nato alcuni secoli fa in Europa passerebbe ai Paesi liberali dell’Asia. L’economista finlandese Ilmo Pyyhthiä individua, in un lavoro econometrico recente, nell’usura o scarsità di capitale manageriale e nei ritardi nell’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione le determinanti del declino dei paesi europei che più ne sono affetti.

Queste conclusioni sono convalidate da analisi di giovani economisti italiani pubblicate ne 'La Rivista di Politica Economica'. Ad esempio, un lavoro di Andrea Brasili e Loredana Federico mette in evidenza come il capitale imprenditoriale di cui dispone l’Italia non può venire utilizzato a pieno a ragione dell’invadenza della mano pubblica; un’analisi di Caterina Riannetti e Marianna Madia mostra come anche dopo “la legge Biagi”, la regolamentazione del mercato del lavoro frena l’innovazione aziendale; uno studio di Marco Cucculelli quantizza gli effetti (non positivi) del capitalismo familiare sulle dimensioni delle imprese e, quindi, sulla loro capacità di effettuare ricerca (pure solamente “adattiva”- ossia adattare i risultati di ricerche altrui alle loro specificità) ed introdurre innovazione. Le citazioni potrebbero continuare.

La conclusione è che il nodo centrale della politica economica a medio termine è differente da quello che è stato all’attenzione del dibattito negli tre lustri in cui, nei maggiori Paesi dell’Ue, si è messo l’accento sulla ricerca di un equilibro tra risanamento della finanza pubblica e mantenimento di pace sociale in un contesto di crescita economica moderata. Il governo del declino comporta una politica economica che promuova (con la rimozione di vincoli istituzionali) i settori ed i comparti che in atto od in potenza hanno la maggiore competitività internazionale, pur rispettando i vincoli di finanza pubblica e minimizzando le tensioni sociali inevitabilmente connesse alla trasformazione del tessuto economico e sociale. E’ una politica economica che ha punti di contatto con quella degli anni '80 i cui obiettivi erano il binomio della riduzione dell’inflazione e del mantenimento di tassi adeguati di crescita.

Essenziale sottolineare che le riforme debbano essere “effettivamente fattibili” poiché in caso contrario si redigerà non un programma liberale ma un “Libro dei Sogni”. Ad esempio, la priorità delle priorità delle riforme politiche non dovrebbe riguardare il riassetto della Costituzione – obiettivo chiaramente non “effettivamente fattibile” un lasso di tempo breve . Una riforma della legge elettorale e forse dell’assetto di Governo potrebbe essere “effettivamente fattibile” .

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