Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente
Premessa
Il 22 maggio del 2013 ricorre il bicentenario della nascita, a Lipsia, di
Richard Wagner, figlio di un’attrice (a sua volta figlia illegittima di un principe
di Weimar) coniugata con un funzionario di polizia; verosimilmente il
padre del compositore non fu il piccolo burocrate sassone ma un artista
(pittore ed attore) piuttosto spiantato e spesso ospite di casa Wagner. In
tutto il mondo, nel 2013 se ne celebrerà la ricorrenza. Anche se Wagner ha
composto non più di quaranta ore di musica (circa 50 se si includono le tre
opere giovanili da lui stesso – a mio inviso ingiustamente – ripudiate), ha
rivoluzionato il modo non solo di pensare il teatro in musica ma di comporre,
ponendo tutte le premesse per la musica del Novecento ed anche per
la contemporaneità più ardita.
Perché scrivere di Wagner? È stato il compositore ed uomo di teatro
più studiato: nella mia biblioteca ho quattro scaffali di libri dedicati a Wagner;
ne ho tre di dischi (da LP, a cassette, a CD) tra cui otto versioni integrali
del Ring (L’Anello del Nibelungo). Non ci sono più battaglie tra wagneriani
ed antiwagneriani come alla fine dell’Ottocento ed all’inizio del
Novecento. A Venezia vivacchia, a Palazzo Giustiniani, dove Wagner compose
Tristan und Isolde, un’associazione di wagneriani. Più attiva quella di
Milano, membro della Richard Wagner Verband International, anche se
priva di una sede parimenti prestigiosa (le riunioni si svolgono nell’associazione
dei loggionisti della Scala, ben più numerosi e meglio organizzati).
Nessuna associazione del genere a Roma, dove pur c’era un pubblico di
wagneriani negli anni Cinquanta e Sessanta che organizzava conferenze e
pellegrinaggi a Bayreuth. Bologna ha perso, da almeno tre decenni, la palma
wagner ovvero la trasparenza
dell’occidente
168 Giuseppe Pennisi
di essere la «città wagneriana», per eccellenza, in Italia: ora il titolo appartiene
chiaramente a Milano ed alla Scala.
Wagner si rappresenta ancora molto spesso in Italia ed ha un pubblico
di affezionati tra le più giovani generazioni (non solo di nostalgici fidelizzati).
Negli ultimi trent’anni, il Ring (quattro opere per complessive 15 ore
di musica, con 35 solisti ed un enorme organico orchestrale – in breve una
tetralogia che richiede sforzi tali da causare dissesti ai teatri che la rappresentano)
è stato messo in scena due volte in forma scenica alla Scala ed a
Firenze, due volte in forma di concerto a Roma (dove è stato iniziato una
terza volta ma non proseguito), ed una volta a Bologna, Catania, e Bari.
Der fliegende Holländer (il lavoro più semplice da mettere in scena) si è
visto in quasi tutti i maggiori teatri della Penisola, anche in quelli detti «di
tradizione» poiché situati in città d’arte un tempo capitali di ducati e principati
ed oggi (alcune solo ancora per poco) di province. Lohengrin, Tristan
und Isolde, Tannhäuser e Parsifal sono frequentemente in scena; Lohengrin
ha effettuato anche una tournée in «teatri di tradizione» in una versione
ritmica in lingua italiana. Anche due delle opere giovanili (Die Feen e Das
Liebesverbot)
sono state rappresentate negli ultimi vent’anni (a Cagliari ed
a Palermo); la terza (Rienzi) è in arrivo dopo l’ultima produzione avvenuta,
alla Scala, circa cinquanta anni fa. Unicamente Die Meistersinger von
Nürnberg
(sola commedia comica in musica di Wagner) ha avuto rare
esecuzioni: meglio dimenticare quella a Roma all’inizio degli anni Ottanta,
mediocre una messa in scena a Genova, di livello tra il buono e l’ottimo
invece quelle di Firenze-Torino, Milano, Spoleto e Trieste. Le ragioni sono
molteplici: la difficoltà di apprezzarne il significato (e la comicità) senza
una perfetta conoscenza del tedesco o buoni sovratitoli, l’enorme cast di
cantanti-attori richiesto.
Per il bicentenario della nascita, in Italia sono stati annunciate due
edizioni integrali del Ring. La Scala presenta il ciclo due volte in giugno
nell’allestimento (in coproduzione con la Staatsoper di Berlino) di cui nelle
ultime stagioni sono state viste le varie opere al ritmo di una l’anno,
mentre il Teatro Massimo di Palermo propone le quattro opere (due ad
inizio stagione e due al termine) in una nuova produzione curata da Graham
Vick. Il 7 dicembre, la Scala ha inaugurato la stagione con un nuovo allestimento
di Lohengrin ed in primavera offre una nuova produzione de Der
fliegende Holländer.
In effetti, Der fliegende Holländer è l’opera di Wagner più «gettonata»
in Italia nella stagione 2012-2013; oltre che alla Scala, è in programma al
Regio di Torino (dove ha aperto la stagione), al Comunale di Bologna ed al
San Carlo di Napoli. Inoltre, l’AsLiCo di Como ne produrrà un’edizione
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 169
speciale per ragazzi che coinvolgerà i teatri della Lombardia e di altre regioni,
sino a Roma e pure al Mezzogiorno, per far conoscere Wagner a 130.000
ragazzi. Si dà il caso che nel lontano 1954, Der fliegende Holländer è la
prima opera in assoluto vista ed ascoltata dal vivo dal vostro chroniqueur,
allora dodicenne. Quali le ragioni del favore? Der fliegende Holländer, prima
delle dieci opere riconosciute da Wagner come Musikdrama dell’avvenire,
viene scelta principalmente per ragioni di bilancio: è relativamente breve
(Wagner voleva che venisse eseguita senza intervalli), richiede un organico
orchestrale e vocale di normali dimensioni, ha parti facilmente orecchiabili
(quali «la ballata di Senta»), ha un libretto semplice da seguire.
Solamente la Fenice azzarda Tristan und Isolde, ma ne offre un’edizione
di gran lusso all’inaugurazione della stagione: regia di Paul Curran,
scene modernissime di Robert Innes Hopkins, Myung-Whun Chung alla
direzione musicale e un cast di favola (Ian Storey, Brigitte Pinter, Attila Jun,
Richard Paul Fink, Tuija Knihtilä).
Tra i lavori che mancano all’appello, nei cartelloni dei teatri per il bicentenario,
spicca Die Meistersinger von Nürnberg.
Sono, però, in programma due vere chicche. In primavera, il Teatro
dell’Opera di Roma presenta, la versione integrale (pur se senza i lunghi
ballabili) di Rienzi der letzte der Tribunen uno dei lavori giovanili di Wagner
(lo vidi a Washington nel 1982), di cui si ricorda un’unica edizione italiana,
in traduzione ritmica e fortemente tagliata, nel lontano 1962 alla Scala.
Trieste porta in Italia Das Liebesverbot oder Die Novize von Palermo che,
sino ad ora è stata messa in scena, unicamente, nel 1991, al Politeama di
Palermo. Due appuntamenti da non mancare.
Perché trattare di Wagner sulla «Nuova Antologia» in occasione di un
bicentenario di cui tutti si occuperanno? La ragione di fondo è che uno dei
lavori più recenti pubblicati in Italia è il saggio di Mario Bortolotto Wagner,
l’Oscuro (Adelphi, 2003); è stato un notevole (e meritato) successo editoriale.
Tuttavia, ciò che più mi ha attratto è stata la trasparenza, tutta occidentale,
di Wagner nei suoi significati musicali, politici e sociali. Anche per
ragioni strettamente personali.
La prima volta che misi piede in un teatro d’opera fu a Roma nel 1954
(avevo 12 anni) per Der fliegende Holländer, allora ancora chiamato Il
Vascello Fantasma (secondo una prassi francese) e rappresentato in tre
atti (non, secondo l’intenzione dell’autore, senza intervalli): dirigeva Karl
Böhm. Un allestimento tradizionale di Camillo Paravicini. Cantavano Leonie
Rysanek, Ludwig Weber e Hans Hopf. Non c’erano sovratitoli ma
compresi ogni accento e ne restai incantato. Da allora l’opera in generale,
non solo quella di Wagner, diventò parte della mia vita. Pochi anni dopo,
170 Giuseppe Pennisi
vidi ed ascoltai, in diurna domenicale, senza sovratitoli, Tristan und Isolde
dirigeva Heinz Wallberg, regia di Friedrich Schramm, scene di Emil Praetorius,
e con Birgit Nilsson (Isotta), Rita Gorr (Brangania), Wolfgang Windgassen,
Gustav Neidlinger e Alfons Herwig. Infine, nel 1961, il Ring diretto
da Lovro Matacˇic´ con un cast di altissimo livello (le quattro opere spalmate
su sei giorni) e con la regia di Wieland Wagner e, subito dopo, Lohengrin
cantato in italiano alle Terme di Caracalla. Ciò che più mi colpiva era
la trasparenza rispetto al melodramma verdiano (a cui ero uso).
Un caso isolato? Nel 1992, non potendo lasciarlo a casa, portammo a
Spoleto nostro figlio quindicenne per una buona edizione di Die Meistersinger
von Nürnberg: l’opera è la più lunga di quelle di Wagner (quattro ore
e mezzo di musica). Lo spettacolo iniziava alle 16 e tra il secondo ed il
terzo atto (due ore e venti minuti) si prevedeva un intervallo di un’ora e
mezza per la cena. Regia tradizionale. Sovratitoli. Il ragazzo si divertì, rise
e seguì il complesso intreccio. Ultimo esempio: nel gennaio 2009 invitai
tutta la famiglia (figlia, figlio con la sua compagna) alla prima del Lohengrin
al Teatro Massimo di Palermo. Inizio alle 18 con cena dopo spettacolo,
sovratitoli, allestimento efficace di Hugo de Ana. Rimasero entusiasti.
In questa riflessione sulla trasparenza tutta occidentale di Wagner al
giorno d’oggi, inizio con il lavoro più politico Die Meistersinger von Nürnberg
per andare poi alle altre opere, comprese le tre giovanili, e concludere
con il Ring. Lo storico e sociologo Karl August Wittfogel ha spiegato meglio
di tutti, in Die orientalische Despotie – Eine vergleichende Untersuchung
totaler Macht, come la trasparenza sia la caratteristica che distingue i valori
della società occidentale dalle altre. L’ipotesi di questo articolo, quindi,
è che Wagner non è «oscuro» ma «trasparente».
Die Meistersinger von Nürnberg ovvero l’essenza della trasparenza
dell’Occidente
Balzac era notoriamente ateo: scrisse, però, che il Meursault (il Re dei
vini bianchi di Borgogna) va bevuto in ginocchio in quanto è l’unica prova
dell’esistenza di Dio. Analogamente, Theodor Adorno, guida della «scuola
di Francoforte», poco aveva a che spartire con il nazionalismo tedesco,
anzi, era decisamente marxista. Ha scritto, tuttavia che Die Meistersinger
von Nürnberg è la più alta, più completa e più piena espressione del genio
dell’Occidente. Non solo condivido l’affermazione di Adorno; ma, a mio
avviso, Die Meistersinger è (con le mozartiane Nozze di Figaro e poche
altre) una di quelle opere al termine delle cui esecuzione (se di livello)
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 171
vorrei veder riiniziare, dopo mezz’ora di pausa per badare alle esigenze
primarie del sopravvivere. Pur se la partitura di Die Meistersinger (escludendo
gli intervalli) dura dalle 4 ore e 25 alle 4 ore e 50 minuti (a seconda
del piglio dei concertatori).
La trama è semplice. Nella Norimberga a cavallo tra la fine del Mediovo
e l’inizio del Rinascimento (in beve una «repubblica comunale» – direbbe
il politologo americano Robert Putman – gestita dalle corporazioni
delle arti e dei mestieri in piena, e trasparente, democrazia), si svolge una
gara di canto. L’orafo Pogner ha messo in palio la figlia (la diciottenne Eva)
che se decide di non impalmare il vincitore deve comunque scegliere come
sposo un «maestro cantore». Due quarantenni i principali contendenti: il
calzolaio poeta Hans Sachs ed il segretario comunale, nonché occhialuto
censore delle arti, Beckmesser. Eva, però, è innamorata, del cavaliere di
Franconia (un aristocratico pur se non di alto rango), Walther il quale la
ricambia ma fallisce la prova necessaria per essere ammesso alla corporazione
dei «cantori». Sachs comprende l’amore dei giovani, rinuncia ai
propri disegni su Eva ed in una lunga notte di imbrogli addestra Walther in
modo che sconfigga Beckmesser, vinca la mano di Eva ed abbia sempre
presente i valori della «sacra arte tedesca». Su questa trama, se ne inseriscono
secondarie (quale il rapporto carnale tra il giovane Davide, apprendista
di Sachs, e la matura Maddalena, governante di Eva), nonché una
serie di intrighi e colpi di scena, di cui, impagabile, il finale a sorpresa) in
una società in transizione da Medioevo ad età moderna. Pur se storicizzata
nella società tedesca alla fine del XV secolo, Die Meistersinger è una grande
commedia umana con valenza generale ed astorica, ma fortemente salda
ai valori dell’Occidente: esalta le libertà civili ed economiche, la tolleranza
(altra caratteristica occidentale, secondo Wittfogel), il mercato, il lavoro,
l’industriosità, l’apprendimento, l’amore in tutte le sue guise, la lealtà intergenerazionale,
la sacralità dell’arte e del pensiero e la continuità dei
valori in un periodo di cambiamento. C’è anche un forte senso religioso,
dal «Do» iniziale dell’ouverture (quasi il rintocco di una campana) ai riferimenti
alla Provvidenza da parte del protagonista (il poeta-ciabattino Hans
Sachs, per cui la «rinuncia» a Eva è un dono della Provvidenza).
Nelle circa 6 ore di spettacolo (intervalli compresi), si ride e ci si commuove
e si è trascinati da un flusso continuo diatonico, dove domina il contrappunto
ed ha un ruolo determinante la polifonia. La sua messa in scena presenta
enormi difficoltà per la regia, per l’orchestra, per le voci (17 solisti, un doppio
coro, un coro di voci bianche ed anche un breve ma incisivo balletto).
Ricordo edizioni eccellenti a Firenze nel 1986 e a Trieste nel 1992,
buone a Milano nel 1990, a Spoleto nel 1992 e a Torino nel 1997, nonché
172 Giuseppe Pennisi
di nuovo a Firenze nel 2004. Ma anche alcune del tutto inadeguate a Roma
e a Genova (nonché un paio addirittura rimosse dalla memoria). Ne ho
viste ed ascoltate di ottime a Berlino, Francoforte, New York e Tolosa. Sarebbe
fuor di luogo commentarle in questo articolo. A Trieste, Spoleto,
Firenze, Torino, New York e Tolosa la comprensione del testo – a volte
presentato in Germania anche senza musica, ossia come una pura commedia
(ne esiste pure un’incisione) – era agevolata dai sovratitoli. Naturalmente
non presenti alla Scala di 22 anni fa ed a Berlino e Francoforte, nonché
nell’edizione gustata nel 2011 al Festival del Tirolo a Erl. Senza dubbio,
conosco molto bene l’opera (piena di battute scoppiettanti ed in cui il sinfonismo
continuo del Wagner post-Lohengrin lascia spazio ad arie, duetti,
terzetti e ad un magnifico quintetto in cui si riassume il significato del lavoro
e si facilita il cambio scena tra il primo ed il secondo quadro del terzo
atto). L’esaltazione dei valori dell’Occidente è la chiave attraverso la quale
si comprende Die Meistersinger anche con una conoscenza approssimativa
del tedesco. Cosa di più «trasparente» si può immaginare?
Di rara esecuzione in Italia per le ragioni che si sono dette, l’ultima
volta che la ho ascoltata, mi sono recato nell’estate 2011 al Festival del
Tirolo, in quel di Erl (un villaggio di 1450 abitanti) dove, trasformando in
teatro d’opera e sala da concerto una struttura creata per rappresentarvi
(ogni sette anni) la Sacra Rappresentazione della Passione, quel diavolo di
Gustav Kuhn (compositore, direttore d’orchestra, regista, scenografo e
costumista) ha creato una della manifestazioni più interessanti dell’estate.
Quando nel lontano 1978 conobbi Kuhn (allora trentacinquenne) a Bologna,
dove concertava un ottimo Parsifal, veniva considerato l’erede di von Karajan.
Da buon salisburghese, non si è mai assoggettato al rigore prussiano.
La sua carriera è stata in gran misura italiana dove è stato direttore artistico
a Roma, Napoli e alla Sferisterio, ha diretto nei maggiori teatri, ha creato
l’orchestra Haydn di Trento e Bolzano e l’Accademia di Montegral e vive
in Garfagnana in un Convento dei Padri Passionisti affittato a vita: settanta
celle, un appartamento, un refettorio, un elegante cortile, una terrazza appollaiata
sulla Lucchesia ed una cappella dove la domenica si celebra la
messa (sempre a conclusione del piccolo ma raffinatissimo Festival che
offre ogni primavera agli amici). Tra le sue creazioni anche il Festival del
Tirolo che ha una sessione estiva in luglio ed una invernale (tra Natale e
l’Epifania). In una versione spoglia low cost Die Meistersinger appare ancora
di più come capolavoro sommo – l’opera-da-salvare se dopo un cataclisma
se ne potesse conservare una sola.
L’edizione al Festival del Tirolo ha debuttato nel 2009 ed è stata da
allora affinata. Kuhn firma scene, costumi e luci, oltre a concertare l’opera
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 173
seguendo fedelmente le istruzioni di scena scritte da Wagner nel 1868. Nei
costumi, si alternano l’abbigliamento contemporaneo (nelle scene «private»)
e rinascimentale (in quelle «pubbliche») – un modo un po’ didascalico per
sottolineare, al tempo stesso, il contesto storico e il significato atemporale
universale, ma radicato nella cultura occidentale, del lavoro. Nell’ultima
scena, tutti si tolgono i costumi seicenteschi per restare in quelli contemporanei
– i valori universali, nati in Occidente, prevalgono sul contesto
storico. L’impianto scenico è una pedana che con poca attrezzeria, di volta
in volta, diventa la Cattedrale di Santa Caterina, le strade di Norimberga
con alberi di tiglio, lo studio di Sachs, la radura, con una grande quercia,
dove si svolge la gara. Curata l’azione scenica anche in quanto rodata. Vigorosa
e animata l’esecuzione di Kuhn: accentua la polifonia e dilata gli
abbandoni degli archi nelle scene d’amore ed in quella della «rinunzia».
Oskar Hillebrandt è un Sachs espressivo, Franz Hawlata un Pogner possente,
Martin Kronthaler, un Beckmesser dal fraseggio scolpito e variegato,
Arpiné Rahdjian una Eva piena di dolce astuzia. Walther ha la vocalità lucente
possente e appassionata e i fisico giovane di Michael Baba. Perfettamente
nel ruolo Andreas Schager (un David dal timbro lucente) e Hermine
Haselböck (Magdalene) e gli altri, troppo numerosi per citarli.
I bambini del villaggio interpretano il corteo delle corporazioni – un
modo originale per far sentire che l’opera è di tutti; è la vox populi. Si è
entrati a teatro alle 16.45. Alle 22.15 è scattata una vera e propria ovazione
da stadio che ha rotto il silenzio delle valli tra Tirolo e Baviera. Dopo
due giorni di pioggia quasi interrotta, uscendo, la sera del 15 luglio, c’era
la luna piena attorniata da stelle – quasi che anche il cielo volesse fare
omaggio a questo somma espressione della cultura e società dell’Occidente.
Adorno aveva ragione a proposito di Die Meistersinger.
Tristan und Isolde ovvero la notte rivelatrice dell’Occidente
Tristan und Isolde, andata in scena a Monaco nel 1865 (tre anni prima
di Die Meistersinger), è, per molti aspetti, l’interfaccia della commedia di
cui si è appena trattato. I due lavori sono stati composti quando Wagner
interruppe, per 12 anni, quel Ring che considerava, a ragione, il suo opus
massimo per eccellenza. Al pari di Die Meistersinger esalta un valore tipicamente
dell’Occidente: la tolleranza. E lo fa in modo trasparente. Non
richiede un organico vocale smisurato come Die Meistersinger ma cantanti
con grandi voci e grande stamina. Ed una grande orchestra. Si è vista spesso
in Italia negli ultimi anni; alla Scala (come inaugurazione della stagione
174 Giuseppe Pennisi
2007-2008), al San Carlo (come inaugurazione della stagione 2004-2005),
a Roma (sia al Teatro dell’Opera sia in versione di concerto all’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia ed alla Orchestra Sinfonica di Roma della Fondazione
Roma), a Genova, a Bologna, a Firenze, a Verona. Ha inaugurato
il 18 dicembre, come si è detto, la stagione wagneriana 2012-2013 della
Fenice in un’edizione di lusso. A mio avviso, nonostante il suo grande valore
e la qualità di numerose esecuzioni ascoltate, è opera poco adatta per
un’inaugurazione che vuole essere occasione mondana ed aprire il teatro a
chi va all’opera di rado: lo spettacolo (intervalli compresi) dura oltre cinque
ore e mezzo. Pur se chiamata da Wagner «azione in tre atti», l’azione è
tutta interiore (in lunghi racconti) più che sulla scena.
La principessa irlandese Isolde condotta dal giovane Tristano in sposa
alla zio Marco (Re di Cornovaglia e Bretagna) vuole avvelenarlo in quanto
il giovane (a cui ha salvato la vita) le ha ucciso il fidanzato, ma la sua ancella
Brangania sostituisce il filtro della morte con quello dell’amore. Ne
conseguono adulterio (solo intellettuale non carnale) e tragedia; il desiderio
degli amanti di annullarsi l’uno nell’altra viene interrotto dall’essere scoperti
e da ferite mortali inferte in duello al giovane, pur se Re Marco ha
compreso e tollerato. Sotto il profilo musicale Tristan ha cambiato la storia
del modo di comporre ed iniziato quella che sarebbe diventata la grande
musica contemporanea. Senza la carica innovativa, il cromatismo e la dissoluzione
della scrittura tradizionale – caratteristiche di Tristan – non ci
sarebbe la musica contemporanea, da Debussy (il cui Pelléas et Mélisande
venne erroneamente presentato come «anti-Tristano») alla dodecafonia di
Zemlinski, Schoenberg, Malipiero e Dallapiccola. Con circa mezzo secolo
d’anticipo, Tristan apre quella che sarebbe stata una delle scuole più importanti
del Novecento («la scuola di Vienna»), nonostante Wagner avesse
studiato composizione per solo sei mesi e non sapesse suonare decentemente
nessun strumento (strimpellava il piano molto male)! La scrittura cromatica
si giustappone quasi a quella diatonica di Die Meistersinger ed accentua
la trasparenza di un lavoro la cui Aktion si svolge in gran misura di
notte. La notte nebbiosa della Cornovaglia e della Bretagna.
Tristan und Isolde si presta a molteplici letture: da filosofiche (Sinopoli
ne esaltava il lato schopenhaueriano) a mitologiche (lo mettevano in
rilievo Karajan e Fürtwangler), a erotico-sentimentali (Solti, Böhm, Chung),
a decadentiste (Metha, Boulez, Ferro). Non basta un saggio unicamente
per sfiorare i misteri del confronto tra Isolde wilde, minnige Maid («selvaggiamente
amante») ed il casto Tristano. Mai prima di Tristan und Isolde
(e raramente dopo) il teatro in musica è penetrato così a fondo nell’eros
– ed in un eros dove c’è passione infinita ma non rapporto sessuale. C’era
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 175
una determinante personale ed artistica specifica. Wagner aveva interrotto
la partitura del Ring dopo la seconda scena del terzo atto di Siegfried. Non
solamente temeva che il progetto non si sarebbe mai realizzato ma non
riusciva a esprime la carica erotica dei 45 minuti di amplesso e di orgasmo
gioioso con cui si chiude Siegfried. Aveva bisogno di elevarsi alla gioia
infinita di Die Meistersinger e di sceverare le profondità dell’eros di Tristan.
Tuttavia, tra i due innamorati non c’è alcun rapporto sessuale (a Wagner
non ne mancava l’esperienza di metterli in musica, visti vari momenti del
Ring). Isolde è stata la donna di Morold ed è la sposa di Re Marco; Tristan
non ha mai avuto una donna (per quel che ne sappiamo); nella lunga notte
del secondo atto – la prima ed ultima volta che si vedono (quasi) da
soli dopo l’improvviso innamoramento – invocano l’unione tra eros e thanatos
ma, fisicamente, si sfiorano appena. Concettualizzano l’amore, anzi
la lussuria sublime e completa (höchste Lust) considerata possibile unicamente
nell’aldilà.
C’è curiosamente una dimensione geopolitica nella Aktion (così Wagner
ha chiamato il lavoro). Nonostante Wagner venga considerato come il cantore
del nazionalismo tedesco, le sue opere trattano raramente poco di
geopolitica.
Ha carica geopolitica l’inizio del Lohengrin con Enrico l’Uccellatore
che chiama a raccolta i popoli germanici contro gli invasori. La ha
pure la marcia finale di Die Meistersinger con l’invocazione alla «immortalità
della sacra arte tedesca» quale che sia il destino delle terre patrie. Non
ce ne è cenno nel Ring, né nel cristiano (velato di buddismo) Parsifal né
tanto meno in Holländer o in Tannhäuser.
C’è, però, un sostrato geopolitico in Tristan. Isolde – ricordiamolo – è
una «selvaggia» giovane principessa irlandese costretta alle nozze con l’anziano
Re di Cornovaglia e d’Inghilterra, Marco, il cui nipote preferito,
Tristano, è, a qualche titolo, signore di Bretagna. Il primo atto si svolge in
navigazione tra Irlanda e Cornovaglia, il secondo nel giardino del castello
regale ed il terzo in Bretagna. La puntuale analisi comparata delle fonti
svolta da un grande storico francese, Joseph Bédier, indica come i manoscritti
di Gottfried
von Strassburg, il poema Sir Tristrem ed i poemi composti
da tale Roberto su commissione di Re Haakon V di Danimarca – a cui
attinse in vario modo Wagner per l’Aktion – avevano un significativo sottostante
politico: il complicato mito di Tristan und Isolde non si basa su
una vicenda di corte da troubadour (come i vari Paolo e Francesca e Lancillotto
e Ginevra) ma racconta un tentativo di riassetto, ove non d’unificazione,
politica dell’ampia regione del Nord Europa che si estende dalla
parte settentrionale della Francia alle Isole Britanniche ai lembi della Scandinavia.
Compare anche una moneta unica per la regione. In breve, una
176 Giuseppe Pennisi
mitizzazione della guerra dei 100 anni, vissuta dai francesi tramite le vicende
di Giovanna d’Arco e dai britannici tramite quelle, immortalate da
Shakespeare, di Enrico V. Il disegno, o piuttosto il sogno, geopolitico, costruito,
da uomini, a tavolino, su un intreccio di matrimoni (nonché di
guerre) crolla quando la «wilde, minnige Maid» si inserisce in questo universo
al maschile. Quindi, un Wagner, geopoliticamente nordico e molto
protofemminista. Vorrei sottolineare come questa linea di lettura è palese
nell’edizione presentata a Venezia in occasione del bicentenario: la regia di
Paul Curran, le scene ed i costumi di Robert Innes Hipkins e le luci di David
Jacques ci pongono in un mondo chiaramente nordeuropeo in cui l’accordo
(per la pace e l’unità) raggiunto da uomini di varie «genti» (tutte
comunque nordiche) viene messo a repentaglio dall’ingresso, nella scena
anche politica, della «selvaggia» giovane principessa.
Importante, tra quelle citate, l’edizione scaligera del 2007. Ma non
priva di difetti nell’impostazione drammaturgica. In primo luogo, la regia
di Patrice Chéreau mette l’accento su uno solo dei tanti temi del lavoro: la
vocazione dei due protagonisti al suicidio, ignorando l’eros (importante
quanto thanatos, il dio della morte) nella concezione wagneriana. La scena
unica di Peduzzi è ispirata alle rovine della Basilica di Massenzio a Roma;
vi emergono la nave di Isotta (nel primo atto), il giardino in Cornovaglia
con cimiteriali cipressi (nel secondo), i ruderi dei possedimenti di Tristano
in Bretagna (nel terzo). Domina il grigio nelle scene e nei costumi atemporali.
In secondo luogo, Barenboim asseconda solo in parte questo disegno:
dilata i tempi (in linea con la marcia verso il suicidio) ma nel secondo atto
in orchestra esplode l’eros più prepotente mentre sulla scena i protagonisti
dialogano a distanza e senza sfiorarsi.
Waltraud Meier è un’Isotta di classe: grande temperamento scenico
associato ad un timbro scuro di soprano drammatico e ad un volume che
riempie la sala, ma non ha più lo smalto e l’estensione di un tempo (specialmente
verso le tonalità alte). Ian Storey debutta nel terrificante ruolo di
Tristano; è un bari-tenore (più che un tenore eroico) di classe con un ottimo
fraseggio ed un buon legato; ha avuto difficoltà nel secondo atto (potranno
essere appianate nelle repliche anche a ragione di un coordinamento non
perfetto con Barenboim) ma ha regalato uno splendido terzo atto (quasi
interamente sulle sue spalle). Salminen è un Re Marco da antologia. Interessante
la Brangania di Michelle De Young sia per il timbro chiaro (pur se
è mezzo-soprano) e per il modo di tener la scena. Troppo agitato (in scena)
il Kurwenal di Ged Grochowski. Di buon livello gli altri. Una lode particolare
all’orchestra (in specie ai solisti – arpe, flauti) alle prese con una partitura
molto complessa, assente da Milano da quasi trenta anni.
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 177
Significativo, anche l’allestimento del San Carlo di Napoli (con regia di
Lluis Pasqual, scene di Enzo Frigerio, direzione d’orchestra di Gary Bertini
ed un cast di alto livello, Thomas Moser, Jeanne-Michèle Charbonnet, Jan-
Hendrik Rootering, Albert Dolmen e Lioba Braun) .
Merita un DVD di qualità l’edizione inaugurata il 18 novembre 2012
a Venezia. In primo luogo, la concertazione di Chung è solo leggermente
dilatata (rispetto a edizioni di riferimento come quella di Karajan); nel
complesso l’opera dura circa una mezz’ora di meno rispetto alla versione
scaligera di Barenboim. Non disponendo di una buca vasta come quella
della Scala, Chung fa economia di strumenti, ma le dimensioni relativamente
piccole della Fenice rendono il suono morbido e rotondo, ed esaltano le
arpe, i violoncelli ed i fiati. È un Tristan languido e dolente. Ian Storey è
cresciuto vocalmente e scenicamente rispetto all’edizione della Scala: affronta
quasi con spavalderia l’impervio terzo atto. La vera sorpresa è Brigitte
Pinter, al debutto nel ruolo; una Isolde giovane e statuaria, con vocalità
da soprano «assoluto» e capacità di ascendere con facilità alle tonalità
alte e discendere con pari ease a quelle gravi; nel pesantissimo primo atto
(per le due protagoniste femminili), la affianca perfettamente la Brangania
di Tuija Knithila. Richard Paul Fink è un Kurnewal atletico e pieno di energia.
Attila Jun un Re Marco perfetto nella profonda vocalità ma relativamente
poco espressivo nel tormento per il doppio tradimento (della giovane
sposa e del nipote prediletto). Si sono fatti cenni alla drammaturgia: è
un Tristan atemporale, pur se lo scozzese Curran ne esalta la dimensione
nordica, con un’«azione» interiore trasmessa, però, efficacemente dagli
sguardi dei protagonisti. Per questo, il DVD deve essere davvero di qualità.
Der Fliegende Holländer, Tannhäuser, Lohengrin e Parsifal ovvero la Fede
dell’Occidente
In un articolo, di dimensioni naturalmente contenute, sulla trasparenza
occidentale di Wagner è utile raggruppare i suoi maggiori lavori prima di
affrontare quel Ring a cui dedicò tutta la vita. Pur nelle profonde differenze
delle singole opere c’è un filo che lega Der Fliegende Holländer, Tannhäuser,
Lohengrin e Parsifal (scritte e composte in un arco di circa quaranta
anni, dal 1843 al 1882), tre prima di cominciare a redigere anche il
primo testo del Ring e la quarta dopo il completamento del grande opus e
con il presentimento della fine dell’avventura terrena. Tutte e quattro
giustappongono
la religione dell’Occidente, specialmente quelle dei «vecchi
dèi germanici» con il Cristianesimo, visto (nel contesto storico dei libretti
178 Giuseppe Pennisi
dei quattro lavori) come veicolo di modernizzazione anche politica e sociale.
Wagner è sempre stato un convinto e praticante luterano (in questo
senso va letto anche il suo saggio antisemita scritto proprio quando l’unico
direttore d’orchestra a cui affidava il suo ultimo lavoro era Hermann Levi,
di stirpe e religione ebrea e a volte giovane compagno di letto della più
matura moglie del compositore: era l’antisemitismo della borghesia della
Pomerania dell’epoca).
Da giovane, Wagner aveva composto una cantata per coro ed orchestra
sull’Ultima Cena (Das Liebesmahl der Apostel) di cui è difficile trovare una
registrazione. Aveva cominciato, mentre lavorava ad altri progetti e soprattutto
al Ring, due opere a carattere religioso: una sulla vita di Gesù di Nazareth
(Jesus von Nazareth, iniziata nel 1849 quando cioè aveva le prime
idee sul Ring) ed una su quella di Buddha (Die Sieger, iniziata nel 1855).
Del primo è rimasto l’abbozzo di un libretto in cinque atti (molto fedele ai
Vangeli). Del secondo esiste il testo completo in prosa. Nei due lavori si
intrecciano due temi fondanti: la tolleranza e la rinuncia.
Essi sono presenti in vario modo nelle quattro opere compiute. L’argomento
di fondo Der Fliegende Holländer (strutturata come un’opera romantica
tedesca tradizionale, con arie, duetti, terzetti, cori ed anche una ballata
che occupa buona parte della seconda scena) è il sacrificio per redimersi
dopo il peccato più grave (la bestemmia). In Tannhäuser, ultima opera
«tradizionale», il tema è ancora lo scontro tra il mondo del peccato (inteso
come lussuria – la praticava nella vita privata, anche dopo le seconde nozze
con Cosima Listz, ma ne sentiva il peso ed il rimorso) dei vecchi dèi (in
particolare Venere) e quello del pentimento e dell’assoluzione data dal
Papa in persona.
In Lohengrin, sottotitolato «grande opera romantica in tre atti» ma in
effetti il primo musikdrama caratterizzato dal sinfonismo continuo (pur
nella presenza di numeri «tradizionali» quali la «cavatina» di Elsa nel primo
atto ed il «racconto» del protagonista del terzo, nonché dei duetti nella stanza
nuziale sempre nel terzo), vi è una vera e propria guerra tra i seguaci
delle antiche religioni germaniche (omicidi e dediti alla stregoneria) ed il
mondo cristiano, di cui la forma più completa è il lontano tempio del Graal.
Questa guerra si svolge mentre si prepara un conflitto tra i popoli e le genti
di origine germanica e gli unni di matrice uralica che, invasa quella che ora
è la pianura dell’Ungheria, marciano verso la conquista della Germania.
In Parsifal siamo nel cuore del mondo del Graal, ma il peccato è più
che mai in agguato – Kundry ha riso sul volto di Cristo sul Golgota ed è
stata «condannata a non morire» sino a quanto non verrà «redenta», Klingsor
si è autocastrato perché non poteva resistere alla tentazione carnale (un
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 179
requisito per essere cavaliere del Graal) ed ora, minaccia il Tempio, ha ferito
l’erede al Regno del Graal, Amfortas, con piaghe che progressivamente
impediscono a quest’ultimo di celebrare l’Eucarestia; può essere vinto
unicamente da un «puro folle», per l’appunto l’innocente selvatico Parsifal
che necessita di una lunga iniziazione per comprendere il mistero dell’Eucarestia,
distruggere il Castello di Klingsor, purificare Kundry (e consentirle
di morire serenamente) e Amfortas e prendere il suo posto e nella celebrazione
dell’Eucarestia e nella guida del Regno del Graal. La conclusione
è, però, «aperta», forte segno di appartenere alla cultura occidentale (nonostante
il lavoro abbia venature buddiste): i Cavalieri del Graal, i loro
paggi, i protagonisti ed una voce dell’alto invocano Erlösung dem Erlöser!
(Redenzione al Redentore!), una visione quasi più buddista che cristiana
secondo cui il Redentore deve essere continuamente lui stesso «redento»
dall’umanità. In Parsifal, infine, il contrasto tra il mondo pagano del peccato
e quello cristiano della purificazione e della redenzione è accentuato
in quanto il mondo del Graal è diatonico come quello de Die Meistersinger,
mentre quello di Klingsor e di Kundry (nei primi due atti) è cromatico
come in Tristan und Isolde.
Alcune esecuzioni memorabili degli ultimi anni. Andando a ritroso
rispetto
alle osservazioni sul significato, delle numerosi edizioni di Parsifal
restano impresse quella (in versioni da concerto) nel novembre 2008 e
quella a Venezia nel marzo 2005. Occorre prendere l’avvio da un aspetto
che può sembrare pedante: esistono diari burocratici delle rappresentazioni
del 1882 a Bayreuth sotto gli occhi vigili di Wagner e la bacchetta di
Levi; tali diari determinano i tempi (un’ora e 45 minuti il primo atto, un’ora
e 5 minuti il secondo, un’ora e 10 il terzo). Oggidì sono rarissimi i direttori
musicali che seguono queste indicazioni: Levine, Kuhn, Thiellman e
pochi altri. Con Toscanini – come è noto – il primo atto di Parsifal durava
due ore e venti minuti. Con Boulez poco più di un’ora e mezzo.
Daniele Gatti dilata i tempi (due ore il primo atto, un’ora ed un quarto
il secondo, circa un’ora e mezzo il terzo) dando una lettura filosofica-religiosa
al lavoro (come fece, proprio con l’Orchestra di Santa Cecilia Sinopoli
nel 1995). È una lettura legittima. Ne preferisco una più sanguigna
(come quelle di Karajan, Levine, Ferro) e più sensuale ove non carnale
(come quelle di Solti, Tate, Bichkov) poiché la carnalità è centrale al lavoro.
L’orchestra ed il coro rispondono in modo eccellente alla direzione musicale
di Gatti che affatica, però, quella parte del pubblico che ha meno dimestichezza
con quello che possiamo chiamare «il sottostante» del capolavoro.
Alla prima rappresentazione, inoltre, si è iniziati con circa mezz’ora di ritardo
a ragione dell’indisposizione di un solista: solo wagneriani incalliti
180 Giuseppe Pennisi
restano in teatro dalle 16.30 alla mezzanotte. Di conseguenza, nonostante
gli applausi calorosi, dopo il primo atto (terminato alle 19.30) e soprattutto
dopo il secondo, molti posti sono rimasti vuoti. Una notazione: la concertazione
dilatata di Gatti fa risultare la ricchezza del tessuto orchestrale
e l’abilità degli ottoni e dei fiati dell’orchestra dell’Accademia – una vera
rarità (come amava dire Sinopoli) nel panorama sinfonico italiano. Eccellenti
– come sempre – i due cori.
Veniamo alle voci. Nella «azione» il protagonista ha un ruolo vocale
relativamente limitato – due momenti molto difficili Amfortas!, Die Wunde!,
Die Wunde! e Nur eine Waffe taught – ma nel complesso una parte che
richiede sforzi inferiori a quelli previsti per Gurnemanz, i cui lunghi racconti
riempiono gran parte del primo o del terzo atto, o per Amfortas il cui
canto sofferente contempla passi davvero terrificanti. Georg Zeppenfeld è
un Gurnemanz relativamente giovane; preferirei un timbro più profondo
(alla Hans Sotin che di Zeppenfeld è stato il maestro) ma si cala perfettamente
nel ruolo e ne regge egregiamente la pesantezza. Detlef Roth (Amfortas)
conferma di essere l’erede ideale di Fischer-Dieskau: un Amfortas
dal timbro chiaro, dalla vocalità agile, dai legato struggenti e dalla grande
versatilità nell’ascendere e nel discendere da tonalità acute. Evelyn Herlitzius
è un soprano drammatico di grandi capacità vocali (preferisco, nel ruolo,
un mezzo-soprano come la Ludwig o la Meier di prima maniera, ma è scelta
puramente personale): il secondo atto è in gran parte suo. Lucio Gallo è
un Klingsor abbastanza efficace, ma non sufficientemente diabolico e corrotto,
come vorrebbe il ruolo. E Parsifal? Simon O’Neill, non ha né physique
du rôle né la dizione richiesta, ma è un tenore spinto generoso, dal
timbro chiaro e dal buon fraseggio. Puntuali i due gruppi di fanciulle fiori,
i quattro scudieri ed i due cavalieri. Su oltre 2500 spettatori, i due terzi in
sala sino alla mezzanotte hanno applaudito calorosamente.
A Venezia, la bella regia di Denis Krief legge Parsifal come un testamento.
È indubbiamente un testamento musicale che Wagner fu in grado
di affrontare solamente dopo avere rivoluzionato il pentagramma. È anche
un testamento religioso in cui – ha scritto Giuseppe Sinopoli – «il tema
della purificazione si ripete circolarmente: dai flauti agli oboi, agli archi».
È soprattutto un testamento politico: il Castello del Graal, e la vittoria di
Parsifal su Klingsor, sono l’avamposto dell’Europa della trascendenza (ancora
una volta la preistoria dello spirito) in un mondo dominato dall’immanenza
(allora dal positivismo avanzante) – un avamposto dove si combatte,
e si vince, unicamente con la rinunzia individuale, nonché con la perdita
dell’innocenza prendendo conoscenza del peccato ed infine con l’acquisizione
della «saggezza» tramite la «pietà». Se c’è un lavoro in musica che
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 181
meglio di altri rappresenta le radici cristiane dell’Europa, questo è, nell’edizione
veneziana, Parsifal.
Veniamo ai rapporti tra Wagner e Venezia. Wagner morì a Venezia, a
Palazzo Vandremin-Calegi (ora sede del Casinò) il 13 febbraio 1883; il giorno
successivo appena un breve necrologio sulla stampa locale. Ci sono antiche
immagini della gondola che porta i suoi resti alla ferrovia, da dove
partirono per Wahnfried, la villa a Bayreuth dove riposano ancora. Venezia
è stata una delle prime città italiane – Bologna batté tutte di poche ore – a
mettere in scena Parsifal nel 1914. A Venezia è stato allestito uno degli ultimi
Parsifal realizzati in Italia (non importati da teatri stranieri) nel febbraio1983.
Un velo di misericordia, unito ad amor di Patria, ci induce a rimuovere
dalla memoria quello realizzato alla Scala nel 1993. A Venezia nel 1989,
Giuseppe Sinopoli diresse uno dei suoi Parsifal più belli e più filosofici.
Wagner adorava Venezia. Vi compose Tristan in quel Palazzo Giustiniani:
oggi una foresteria per musicofili dove alloggia il vostro chroniqueur quando
è nella città lagunare. Nel marzo 2005, a poche settimane dell’inizio
delle prove, Viotti, che nell’arco di pochi anni ha rivoluzionato la qualità
dell’orchestra della Fenice, è morto prematuramente ed all’improvviso; nel
corso delle prove Ian Storey, che avrebbe debuttato nel ruolo, è parso non
in grado di padroneggiare la parte. Vengono chiamati un veterano ungherese
della concertazione wagneriana Gabor Ötvös e un tenore americano
giovane e poco noto in Italia, Richard Decker. Lo spettacolo va in scena.
L’allestimento di Denis Krief pone l’accento sulla matrice buddista, oltre che
cristiana, del lavoro; ci spiega anche i numerosi nudi in scena. Ötvös da una
lettura puntuale della partitura (il primo atto dura un’ora e 45 minuti esatti
come volle Wagner). Di grande livello le voci: Richard Decker è un Parsifal
svettante, Doris Seffel una Kundry sensuale e tormentata, Wolgang Schöne
è ancora l’Amfortas che ci appassionò 40 anni fa, Matthias Hölle un Gurmenantz
solido. Si entra in teatro alle 17.30; anche troppo brevi i due intervalli;
lo spettacolo termina alle 23 circa; ciononostante, alla prima ci sono
state dieci chiamate ed oltre 15 minuti di applausi.
Un’ultima notazione. Quando ero adolescente, in Italia, ed in particolare
a Roma, Parsifal si ascoltava prevalentemente nell’edizione in versione
ritmica italiana (tagliata ma disponibile anche in dischi) diretta da Tullio
Serafin e con Maria Callas nel ruolo di Kundry. Il Maestro Lovro von Matacic
cominciò negli anni Sessanta ad eseguirlo in versione integrale ed in
lingua originale. Diventò compagno abituale delle mie Settimane Sante da
quando, all’inizio degli anni Settanta, uscì l’edizione stereofonica diretta da
Georg Solti, un vero prodigio (anche tecnologico) per l’epoca, seguita a
ruota da quelle di von Karajan e Boulez. Il terzo atto di Parsifal si svolge il
182 Giuseppe Pennisi
Venerdì Santo: celebra, con la purificazione, anche la rigenerazione primaverile
della natura.
Lohengrin è stata la prima opera di Wagner rappresentata in Italia, nel
tardo autunno del 1871 (a oltre vent’anni dalla sua composizione e dalla
prima esecuzione nel piccolo teatro di Weimar). Verdi era in uno dei palchi;
la ascoltò con attenzione; alla stazione ferroviaria (in attesa del treno per
Parma e Busseto) incontrò il giovane Arrigo Boito (entusiasta mentre il
buon Peppino era piuttosto perplesso, pur se ne recepì alcuni aspetti nei
suoi lavori successivi). Lohengrin è, dopo Der Fliegende Holländer, l’opera
di Wagner più rappresentata in Italia, sino a tempi recenti in una traduzione
ritmica. L’intreccio potrebbe sembrare quello di un «grand opéra padano
», allora in sviluppo. La vicenda si svolge a Anversa, nel Brabante (quindi
a rigor di geopolitica al di fuori della Germania). Enrico I di Sassonia
(detto l’Uccellatore) vi si è recato per arruolare i brabantini contro una
possibile invasione barbarica, allo spirare di un patto novennale di tregua
con gli ungaro-unnici. Wagner si attarda sulle indicazioni di scena (e sui
costumi): compatti i sassoni e gli altri tedeschi (tutti con le stesse uniformi
e gli stessi stendardi), divisi in clan (ciascuno con la propria uniforme ed il
proprio stendardo) i brabantini (che hanno appena perso tanto la loro guida
quanto il di lui erede).
La richiesta di Enrico I è accolta con freddezza dai vari clan, sino all’arrivo
di Lohengrin, il quale accetta di essere loro «protettore» (non «duca»
come i brabantini richiedono), e al suo deciso appoggio alla difesa contro
la minacciata invasione. È soprattutto scelto, in seguito a un «giudizio di
Dio» (un duello contro il generale brabantino Telramondo) come sposo di
Elsa, figlia del duca di Brabante e ingiustamente accusata dalla moglie di
Telramondo, Ortrude, di avere ucciso l’erede al trono, Goffredo. Lohengrin
è venuto da «una terra lontana» e non se ne conosce neppure il nome. Anzi,
il patto per la difesa di Elsa e dei brabantini è quello di non chiedergli
mai chi è e da dove viene. È nella «terra lontana» (il Castello del Graal) che
il cavaliere ritorna quando, spinta dai subdoli inganni di Ortrude, Elsa gli
pone le domande fatali. Lohengrin parte ma Goffredo riappare: era stato
trasformato da Ortrude nel cigno che trainava la navicella dell’eroe.
La direzione musicale e la regia di Gustav Kuhn mettono in rilievo
come in Lohengrin s’intrecciano, mirabilmente, vari elementi, ciascuno
appartenente a un universo musicale differente, benché legate da un continuo
flusso orchestrale dove dominano gli archi: a) il contesto storico dell’unità
dei popoli tedeschi di fronte all’invasione (diatonico quasi sino allo
spasimo); b) il contrasto tra varie declinazioni del Cristianesimo (e la visione
lontana del Santo Graal e della Verità), dei sassoni e dei brabantini e il
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 183
paganesimo di Ortrude e Telramondo, il soprano, o mezzosoprano, perfido
e il baritono (denso di anticipi cromatici); e c) l’incapacità di Elsa, soprano
lirico, di trasformare in vero amore il suo innamoramento per Lohengrin
(con tratti ancorati allo Spontini del periodo prussiano) e di assimilare a
pieno la Verità. Sino agli anni Sessanta, l’opera veniva messa in scena come
una storia d’amore con uno sfondo storico. Solo più di recente è stata data
centralità agli aspetti politici, psicologici e religiosi del lavoro.
Ho ricordato che la religio è il fulcro dell’opera. I brabantini sono cristiani,
ma di conversione relativamente recente. In Brabante, il Cristianesimo
convive con vecchie forme di «paganesimo», quelle praticate (con magie,
filtri e l’insinuazione del dubbio rispetto alla Verità); secondo ricerche storiche
recenti, il normanno Re Nollo, dopo essersi convertito, faceva grandi
donazioni alle chiese cristiane, ma sacrificava i cristiani prigionieri agli dèi
pagani; nella sala del trono di Re Redwald (padre di Ortrude) c’erano due
altari, uno più grande per la messa, e uno più piccolo per offrire sacrifici ai
demoni. La stessa, pur purissima Elsa, il soprano lirico di stupenda e struggente
virtù, diventa, nella prima scena del terzo atto, spergiura scatenando
il dramma conclusivo. La regia pone l’accento sulla giovinezza (Lohengrin)
alla ricerca della verità all’interno di una società complessa.
Sotto il profilo musicale, l’orchestra (oltre la metà sono giovani italiani)
e il coro (supportato quest’ultimo dalle voci bianche della Parrocchia di Erl)
danno un’ottima prova. In secondo luogo, un cast internazionale in cui prevalgono
le due protagoniste femminili: Susanne Geb (la purissima Elsa) e
Mona Somm (la perfida Ortrude seguace della magia nera del paganesimo
teutonico). Ferdinand von Bothmer ha un buon timbro e ha retto bene il
difficilissimo terzo atto. Thomas Gazheli è efficace nella parte di Telramondo
(marito fellone d’Ortrude). Di rilievo Andrea Silvestrelli nel ruolo del Re.
Nel nuovo allestimento palermitano sia Hugo De Ana (regia, scene,
costumi e luci) sia Günther Neuhold (direzione musicale) seguono con
cura le indicazioni di Wagner (preziose quelle per il debutto a Monaco e
per la prima italiana a Bologna). Wagner era non un grande ma un grandissimo
uomo di teatro e proprio con Lohengrin diede corpo alle proprie idee
in materia di riforma di teatro in musica. I «tempi» musicali sono quali
prescritti nella partitura. Tanto per le restrizioni finanziarie quanto per il
progresso tecnologico, viene utilizzata una scena unica. Grazie ad un abile
gioco di luci e di proiezioni, andiamo dalla nebbiosa pianura d’Anversa
alla Cattedrale per le nozze tra Lohengrin ed Elsa, alla stanza nuziale. Non
mancano i duelli ed, ovviamente, la navicella trainata da un magico cigno
bianco. È un allestimento tradizionale. Ciò può non piacere a chi è alla ricerca
dell’innovazione in qualsiasi nuova produzione.
184 Giuseppe Pennisi
Sotto il profilo musicale, l’orchestra ed il coro (supportato quest’ultimo
dal coro Orpheus di Sofia) danno un’ottima prova, applaudita dal pubblico
palermitano meno del meritato. Nel cast internazionale prevalgono le due
protagoniste femminili: Martina Serafin (la purissima Elsa) che canta regolarmente
il ruolo a Vienna ed in Germania, e Marianne Cornetti (la perfida
Ortrude seguace della magia nera del paganesimo teutonico). Zoran Tedorovic
è un tenore spinto serbo avvezzo al repertorio verdiano. Ha un buon
timbro ed ha retto bene il difficilissimo terzo atto. Sergei Leiferkus è efficace
nella parte di Federico (marito fellone d’Ortrude). Vocalmente, i
punti deboli: il Re ed il Messaggero.
Il Lohengrin che ha inaugurato la stagione 2012-2013 del Teatro alla
Scala si basa su una lettura innovativa, e provocatoria, annunciata da
Ronny Dietrich (drammaturgo) e Claus Guth (regista) in interviste e conferenze
stampa nelle settimane che hanno preceduto la prima dello spettacolo.
In effetti, nonostante le ovazioni a Barenboim, all’orchestra, ai
cantanti e al coro (che in Lohengrin è protagonista), nel pubblico e ancor
di più tra i critici in sala, sono serpeggiate forti perplessità sull’allestimento
scenico e sulla drammaturgia. Guth è un regista apprezzabile: è stata di
alto livello la sua trilogia Da Ponte-Mozart a Salisburgo (soprattutto Le
nozze di Figaro) così come la sua lettura Die Frau ohne Schatten di Richard
Strauss alla Scala nella stagione 2011-2012. Tuttavia, quello presentato il
7 dicembre nella Sala del Piermarini è un Lohengrin per iniziati: pochi
sanno, per esempio, che la scena firmata da Christian Schmidt rappresenta
il cortile di casa Wagner, denso di traumi e di rapporti familiari molto
tesi. La chiave di lettura, poi, si svela unicamente al terzo atto dopo oltre
tre ore in teatro: pone l’accento sulla psicoanalisi coeva della Die Frau
ohne Schatten ma distante anni luce dalla poetica di Wagner. Per Guth e
Dietrich, Lohengrin ed Elsa sono due altèri o outsider in un mondo di
capitalismo nascente che essi non comprendono, che non li comprende e
che porta alla tragedia finale. La recitazione è accuratissima e ogni mossa
è studiata, sebbene sembri naturale. Nel complesso dunque la regia non è
banale ma resta oscura per molti spettatori.
Inoltre in Wagner Lohengrin non tratta soltanto di rapporto di coppia.
Nella «grande opera romantica in tre atti», Elsa e il Cavaliere del Cigno non
riescono a comunicare, fin dalla prima notte di nozze, poiché mancano di
reciproca fiducia. Nella lettura di Guth e Dietrich, la mancanza di fiducia
(ossia le domande di Elsa al Cavaliere) trasformano in coitus interroptus
un forte rapporto erotico, difficile da concepire per un sacerdote del Graal.
Altri due elementi fondanti sono il contesto storico (l’alleanza dei popoli
tedeschi per respingere invasioni dall’Est) e i primi passi del Cristianesimo
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 185
in un mondo ancora pagano. Questi due aspetti vengono ignorati da Guth
e Dietrich ma non dalla partitura.
Di grande livello la parte musicale. Fin dalle prime battute dell’ouverture
Barenboim dà un’interpretazione lenta, solenne, quasi mistica del lavoro
che fa risaltare ancora di più l’inizio «agitato» del terzo atto (quando
stringe i tempi per preparare la tragedia finale). Jonas Kaufmann è un perfetto
protagonista, costretto a equilibrismi d’atleta (canta steso per terra
l’aria iniziale, volgendo le spalle al pubblico e alzandosi lentamente fino a
guardare la platea), ha un legato dolcissimo, un fraseggio da manuale e, nel
racconto finale, sale lentamente dal «pianissimo» all’acuto. Unicamente
Evelyn Herlitzius è alla sua altezza. Buoni i due soprano che si alternano
nel ruolo di Elsa, più dolce Ann Petersen e più sensuale Anja Harteros.
Ambedue ammalate, il 7 dicembre sono state efficacemente sostituite da
Annette Dasch, giunta di corsa dalla Germania. René Pape è ancora un
efficace Re Enrico. Il cattivo Federico Telramondo è un Tómas Tómasson
agli scatti finali di una gloriosa carriera. Merita elogi il coro scaligero che,
guidato da Bruno Casoni, ha dato il meglio di sé in un ruolo complesso,
denso di passaggi impervi.
Poche le buone edizioni recenti di Tannhäuser. Francamente mediocri
le due apparse a Roma, una negli anni Ottanta ed una nel 2009, nonché
quella presentata circa dieci anni fa a Napoli ed a Palermo. Da qualche
anno Tannhäuser non porta bene alla Scala. Nel 2005, l’allestimento
Tate-Curran lasciò il pubblico alquanto freddo. Nel 2010 l’edizione Mehta-
La Fura lo ha lasciato perplesso, nonostante lo spettacolo salutasse il ritorno
di Zubin Mehta nella fossa del Piermarini per dirigere un’opera
dopo oltre trent’anni.
Del lavoro esistono due versioni principali: quella di Dresda del 1843
(molto tersa e compatta) e quella di Parigi del 1861 (cromatica) rivista, dopo
alcuni mesi, per Vienna. I due Tannhäuser sono opere profondamente
differenti nella concezione drammatica e nella partitura. Tranne poche modifiche
(il balletto richiesto da l’Opéra e proposto come «baccanale» all’inizio
del lavoro, invece che al secondo atto, come da prassi), il testo di arie, recitativi,
sestetti non è cambiato (Tannhäuser precede Lohengrin, ed è una
«opera romantica» in senso stretto). Nel 1842-45 Wagner era un buon luterano,
fedele alla moglie Minna (con cui aveva condiviso molte ristrettezze
prima di approdare al «posto» a Dresda) e lavorava per la puritana Corte di
Sassonia. La vicenda del bel menestrello fuorviato dal piacere della carne,
del suo pentimento e del perdono divino era un apologo edificante, con una
partitura rigorosamente diatonica in cui vere e proprie «canzoni» venivano
inserite nel flusso orchestrale. Nel 1860, invece, non soltanto Wagner era
186 Giuseppe Pennisi
stato costretto ad aggiungere il balletto dalla direzione del Tempio lirico
parigino, ma conduceva un’esistenza sessuale quanto meno distinta e distante
da quella che avrebbe dovuto seguire un buon luterano. Aveva abbandonato
Minna, dopo averla tradita con varie ninfette e veline ante litteram,
stava per portare via la moglie al proprio benefattore (l’industriale tessile
svizzero Wesendock), aveva un ménage à trois con Cosima Listz ed il di lei
marito (il suo direttore d’orchestra favorito von Bülow), anzi à quatre (perché
nel letto di Cosima finiva spesso l’allora giovanissimo Hermann Levi, che
qualche anno dopo, dato un «ben servito» a von Bülow, ne avrebbe preso il
posto come direttore d’orchestra favorito di casa Wagner).
Il tutto accompagnato da un fiume inarrestabile di denaro, proveniente
dai suoi benefattori. Chi non ha il tempo o voglia di leggersi le monumentali
biografie di Wagner (la più nota è in ben sei volumi) trova il tutto
in un piacevole libro di 150 pagine (Vincenzo Ramón Bisogni, Richard
Wagner – Das Rheingold, un fiume di denaro, Zecchini Editore). Questa
vita complicata si rispecchia a pieno nella «versione di Parigi» del lavoro:
Venere non è un genio del male da bordello (il Wagner trentenne, li frequentava,
nonostante avesse continui complessi di colpa dato che voleva
essere fedele a Minna), ma una donna appassionata e sinceramente innamorata
del menestrello, disposta a tutto pur di tenerlo nel suo letto, nel
primo atto, e riportarcelo, nel terzo. La partitura, inoltre, è intrisa di cromatismi,
quelli con cui in Tristan und Isolde aveva gettato il germe della
musica contemporanea. Buon senso consiglia di scegliere. Nel 2009 a Roma
si è vista e ascoltata la versione di Parigi quale riadattata, in tedesco,
per Vienna. Alla Scala è in scena una versione ibrida, detta «di Monaco
1994», in cui, essenzialmente, si sostituisce la parte iniziale della «versione
di Dresda» per introdurre il baccanale della «versione di Parigi». Tra
macchine sceniche, proiezioni e mimi, viene offerto un vero e proprio Bignami
delle posizioni erotiche per ogni genere, gusto e tendenza. Anche se
i mimi non sono nudi ma coperti da una guaina per non incorrere in divieti,
dato che in scena ci sono anche minori, a cominciare dal pastorello.
Sarebbe stato necessario un divieto non solo per porre una moratoria alle
proiezioni computerizzate, che a volte distolgono dalla musica, ma anche
per stoppare fellatio e sodomia in scena. Non tanto per moralismo, quanto
perché ormai sono il vetusto del vetusto. Ove ciò non bastasse, la vicenda
è spostata dalla Turingia medievale a un Rajasthan visto con gli occhi
dei film di Bollywood: in breve, più Mother India che Mahabaharata
nell’indimenticabile versione di Peter Brook. Quindi un Rajasthan da pubblico
poco colto e molto confuso. Ma non è finita. Nell’ultima scena, sulle
lenzuola stese ad asciugare da volenterose lavandaie, appare un filmato in
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 187
bianco e nero di Papa Giovanni Paolo II in India: la sua benedizione scaccia
la voluttuosa Venere dai pensieri del protagonista, che, dopo avere
tanto peccato, muore redento. In breve, «la grande opera romantica in tre
atti» ridotta a un film parrocchiale di quelli che si vedevano oltre mezzo
secolo fa in provincia.
E la parte musicale? Zubin sembrava dirigesse con il braccio destro
legato dietro la spalla: in breve, tempi lunghi e suono incolore (con ottoni
bandistici). Non occorre dare al concertatore tutte le responsabilità. Cercava
di coprire i difetti di alcuni cantanti: il protagonista Robert Dean Smith,
che in difficoltà con gli acuti, puntava tutto sul registro di centro e Roman
Trekel (Wolfram) con una bella voce baritonale, ma un volume piccolo e
schiacciato, nel concertato alla fine del primo atto e in tutto il terzo atto,
da Georg Zeppenfeld nel ruolo del Langravio. Meglio le due protagoniste
femminili: Anja Harteros conferma di essere una dei migliori «soprani assoluti
» su piazza, in grado di fare apprezzare lo spettacolo anche se mascherata
da Sonia Gandhi; Julia Gertseva in grado di supplire con avvenenza e
recitazione a qualche piccola carenza.
Si è potuto invece scegliere tra buone edizioni di Der fliegende Holländer,l’opera
di Wagner più rappresentata in Italia; se ne contano circa 80 allestimenti
di cui 20 nel periodo 1877 (prima italiana di Lohengrin) ed il 1949
e circa 65 dopo il 1950. Nell’anno par excellence delle celebrazioni verdiane
– la stagione 2000-2001 – se ne videro ed ascoltarono, quasi a mò di
legge del contrappasso, addirittura tre allestimenti in otto dei maggiori teatri
lirici italiani. Le ragioni sono molteplici: è relativamente breve (due ore
e mezza di musica), ha un impianto weberiano «a numeri chiusi» (otto
principali, suddivisi in un totale di 22, intermezzi compresi) su una struttura
abbastanza simile a quella dei melodrammi italiani, non richiede una
messa in scena complessa – tanto che sta prendendo la prassi di eseguirla,
come desiderato da Wagner, come atto unico i cui cambi scena vengono
accompagnati dagli interludi.
All’Opera di Roma Holländer è tornato nel 2005 dopo sette anni di
assenza. L’allestimento precedente (nel 1997) era una riedizione di quelli di
Wieland Wagner degli anni Settanta, aveva un suo fascino, ma era datato.
Nel 2005, invece, la Fondazione ha regalato una messa in scena al tempo
stesso controversa (alla prima ci sono stati fischi diretti alla regia, alle scene
e ai costumi di Ulderico Manani) ed affascinante. Si è optato per la versione
in tre atti, essenzialmente per permettere al pubblico di vedere e farsi vedere
nel foyer durante i due intervalli; è scelta legittima (ha prevalso in Italia
sino a tempi recentissimi) anche se discutibile (in quanto interrompe il flusso
dell’unità musicale). La scena è unica e ricorda quelle delle edizioni di
188 Giuseppe Pennisi
Bayreuth del 1971-1975, con regia, scene e costumi di August Everding
(immortalate nelle foto che accompagnano il cofanetto di una registrazione
live della Deutsche Grammophone): uno scafo unico che di volta in volta
diventa fiordo, casa di Daland, porto e nave. A differenza dell’impostazione
freudiana di Everding, la lettura di Manani è improntata al simbolismo postmoderno.
Un lungo viaggio – ciò spiega le valigie – di ciascuno di noi verso
il proprio destino; per Senta e per l’Olandese è trascendente, per Erik e per
il timoniere è di carnalità terrena; per Daland alla ricerca del quattrino; per
quasi tutti gli altri verso la mediocrità. Come in alcune recenti regie di Peter
Mussbach (si pensi al Moses und Aron alla Staatsoper unter den Linden a
Berlino), il coro è testimone immoto fuori scena.
Oleg Cassini dirige con tutto il fuoco che richiede «un’opera romantica
» (così la chiamò il ventinovenne Wagner). L’allestimento ci ha riservato
una scoperta: l’ampio registro della giovane e bella Anna-Katharina
Behnke, giunta all’ultima ora a sostituire le due soprano in cartellone per
il ruolo di Senta. È sulle scene europee da qualche anno ed ha già cantato
a Trieste ed agli Arcimboldi. Ci ha dato una Senta a tutto tondo. Frantz
Grundheber è un Olandese aitante e tormentato, dal timbro scuro, ed
agilissimo nei fraseggi e nei legati da rendere struggenti i due duetti con
Senta. Keith Olsen un Erik tradito bari-tenorile. Bjarni Kristinsson rende
Daland una macchietta.
Di livello anche l’edizione presentata al San Carlo nel 2003, densa
della passione (tutta italiana) con cui Gabriele Ferro ha diretto l’orchestra
scovandone anche le bellezze più arcane (che meraviglia l’eco dei timpani
nel finale Daland-Senta – del secondo quadro). Intelligenti le scene coloratissime
ed astratte, su un impianto fisso con praticabile, di Valerio Adami
(uno dei nostri maggiori pittori contemporanei per la prima volta alle prese
con un’opera lirica). Vi si giustappongono i costumi di Francesco Zino
imperniati sul grigio e sul bianco. Efficace, ma senza grandi innovazioni, la
regia di Jorge Lavelli: punta all’equilibrio tra il dramma privato della vicenda
ed il suo significato di mito universale.
Albert Dohmen è un Holländer tormentato, dal timbro scuro, ed agilissimo
nei fraseggi e nei legati da rendere struggenti i due duetti con la Senta
umanissima di Elisabete Matos (che ha retto la difficile parte nonostante una
forte influenza). Daland è Walter Fink, un vero e proprio veterano del ruolo;
ne tratteggia i lineamenti borghesi (e venali) e l’incapacità di comprendere
quanto sta avvenendo intorno a lui. Walter Pauritsch è un Erik innamorato
e passionale con una bella voce che sta maturando dal tenore leggero a ruoli
«spinti». Un’ultima notazione: il breve ma cruciale ruolo del timoniere: nel
2000 a Bologna (altra buona edizione ripresa nella stagione 2013) scoprim-
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 189
mo il ventitreenne Vittorio Grigolo (oggi sulla cresta dell’onda); al San
Carlo, scoprii nello stesso ruolo Jorg Schneider che con la stessa splendida
voce, qualche chilo di meno ed un po’ di agilità scenica in più è stato David
nel Die Meistersinger che Mehta ha diretto al Maggio Fiorentino 2004.
Il Ring ossia la vittoria della modernizzazione occidentale
In occasione del bicentenario – si è detto – si vedranno in Italia due
versioni complete del Ring. La produzione di Milano è a mezzadria con la
Staatsoper unter der Linden di Berlino. Concerta Daniel Berenboim e se ne
sono viste le prime tre opere; due edizioni intere delle quattro opere si vedranno
in giugno. A Palermo è in programma un intero nuovo allestimento
della tetralogia. Sul Ring si sono scritti decine di volumi.
Il Ring può essere interpretato in vari modi: una favola moralistica sulla
maledizione associata al denaro visto come «sterco del demonio»; un rilancio
della mitologia nordica per contrastare quella latina e slava che dominavano
le arti nel romanticismo tedesco; una cosmogonia della storia universale
(dalla nascita alla fine del mondo), una critica dell’industrializzazione trionfante
e del capitalismo. E via discorrendo. Queste varie letture hanno spesso
dimenticato che Wagner era un luterano credente e praticante, pur se interessato
al buddismo, specialmente negli ultimi anni della vita. In linea con
altre sue opere, Wagner mette nel Musikdrama anche un forte spirito cristiano:
il «crepuscolo» per l’appunto dei vecchi dèi di fronte alla «redenzione
tramite l’amore», il tema che appare brevemente nel terzo atto della «prima
giornata» e domina il finale della «terza» del Ring, e, quindi, della tetralogia.
Con i «vecchi dèi» finisce anche il mondo oscuro e poco trasparente di nani,
giganti, prìncipi (se si vuole) incestuosi, re corrotti e via discorrendo. Le
fiamme che distruggono il Walhala, il Palazzo dei «vecchi dèi» costruito con
l’imbroglio (ove non con una vera e propria frode) vengono spente dalle
acque del Reno che straripa, distruggendo la reggia di una famiglia reale
corrotta. E portando, con la modernizzazione, un mondo migliore.
Dal 1876 al 1940 circa, le realizzazioni sceniche erano tra il favolistico
ed il realistico; lo sono rimaste ancora in edizioni viste nell’ultimo quarto
di secolo a Bologna, Catania, Bari, Torino, Venezia ed alla stessa Scala,
nonché in quelle (altamente tecnologiche) di Firenze-Valencia, di New York
(sia quella di Günter Schneider-Siemssen che ha dominato il Met per trent’anni
sia quella di Robert Lepage per la quale è stato interamente rifatto il
palcoscenico del teatro) e di Seattle (dove ogni estate vengono presentati
uno o più cicli dell’intero Ring).
190 Giuseppe Pennisi
Fu nel secondo dopoguerra che si affermarono altre interpretazioni: da
quelle di Wieland Wagner (basate sui princìpi di Adolphe Appia che già
negli anni Venti aveva teorizzato e sperimentato il «teatro totale» con scene
solo di giochi di luci e costumi atemporali) di cui vidi un intero Ring (spalmato
su una settimana) a Roma nel 1961. Per certi aspetti si riallaccia a
questo filone la mirabile produzione di Aix-en-Provence e Salisburgo (con
la regia di Stéphane Braunschweig e sir Simon Rattle alla guida dei Berliner
Philharmoniker nella buca d’orchestra: una lettura astratta ma umanissima
con una scalinata, un occhio in cima alla scale (del vecchio dio? o di quello
nuovo? L’interrogativo resta senza risposta) e scarne eleganti proiezioni
e costumi in gran misura attuali. In breve, l’umanità alla ricerca del denaro
e del potere deve lasciare i vecchi miti (ed i vecchi dèi) per costruire il
nuovo. Edizione mirabile di cui non esiste né un DVD né un CD.
Una terza lettura è storico-politica: la lanciarono Patrice Chéreau e
Pierre Boulez nel Ring del centenario della prima rappresentazione integrale
a Bayreuth nel 1976-1980 (ne esiste un ottimo DVD), la proposero a
Firenze nel 1978-1981 (che era stata respinta dalla Scala) Ronconi, Pizzi e
Mehta nel 1978-1981 (non ne resta che un album fotografico). Ispirò Ruth
Berghaus a Berlino negli anni Ottanta. Molto interessante la versione
storico-
politica di Robert Carsen: l’azione è situata in una Germania protonazista
(quasi ispirata a La Caduta degli Dei di Luchino Visconti) e, quindi,
il messaggio è trasparentissimo. Ci sono anche versioni ironiche (quale
quella di Vick a Lisbona e di Kuhn al Festival del Tirolo – dove è di nuovo
in cartellone per il 2014).
Questo i filoni principali. La mia preferenza principale è per quello
che da Appia arriva a Braunschweig. Ho molto apprezzato le versioni
«politiche» di Chéreau e Ronconi-Pizzi. Non conosco quella della Berghaus
(allora non si viaggiava facilmente a Berlino specialmente se si era residenti
degli Stati Uniti).
Alla Scala ed a Berlino la regia e l’allestimento scenico sono affidati a
Guy Cassiers ed alla sua équipe teatrale Toneelhuis. In altra sede, sia italiana
sia internazionale, ho sottolineato il mio apprezzamento per gli aspetti
musicali di una produzione (di cui ho visto ed ascoltato tre delle quattro
puntate) e le mie perplessità, ove non dissenso, nei confronti della drammaturgia
di Cassiers ed associati, che, nonostante l’ottima recitazione dei
35 cantanti richiesti, mi è parsa priva di un concetto unitario, affollata di
elementi inutili (mimi, ballerini) e con una scenografia fondamentalmente
triste (dominano i grigi ed i viola) e priva di mordente. L’équipe di Toneelhuis
ha avvertito l’esigenza di scrivere un saggio di cinquanta (50) pagine
per chiarire (al pubblico e forse anche a loro stessi) il significato della dram-
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 191
maturgia; se si ha tale esigenza, sorge il dubbio che qualcosa non quadri.
In estrema sintesi, per Cassiers oggi le quattro opere vanno lette come una
denuncia della globalizzazione finanziaria ed un appello per limitarla con
Tobin Tax e difesa dei prodotti nazionali. In questo quadro Siegfried è un
punk-beast (pensavo che fossero passati di moda). Occorre scegliere una
strada e perseguirla con rigore: cosa che non fa Cassiers. Quindi, il suo Ring
no gobal resta di ardua comprensione, anche dopo la lettura di 50 pagine
di spiegazione. Una versione riduttiva di uno dei grandi capolavori della
cultura occidentale.
Molto più complesse le letture musicali. Dal vivo ho avuto modo di
ascoltare due volte quelle di von Matacic e di Mehta (ambedue la seconda
a circa trent’anni di distanza dalla prima) e quella di Sinopoli (la seconda,
in cui a ragione della morte del direttore, con un differente concertatore per
la quarta opera, a circa quindici anni di distanza dalla prima). Molte altre
ne ho ascoltate registrate o in dirette cinematografiche ad alta definizione.
Impossibile, nell’ambito di un articolo, passare in rassegna queste ed altre
esecuzioni dando conto anche dei numerosi interpreti (spesso, in uno stesso
Ring, alcuni ruoli cambiano interprete – segnatamente quelli di Siegfried
e Brünnhilde – tra la terza e la quarta opera).
In breve le esecuzioni di von Matacic e di Sinopoli, pur molto differenti
tra di loro, non hanno mostrato sostanziali differenze nel corso degli
anni: meticolosa ed attenta la direzione musicale di von Matacic, fortemente
filosofica (quasi astratta) quella di Sinopoli. Profonde invece le differenze
nella direzione di Mehta, ambedue le volte con i complessi del Maggio
Musicale Fiorentino, a cavallo tra fine degli anni Settanta e l’inizio degli
anni Ottanta e tra il 2007 ed il 2009. Altamente drammatica e fortemente
concitata la prima, caratterizzata da lirismo trasparente e lirismo struggente
la seconda. Sulla differenza ha forse influito la contiguità del Ring fiorentino
degli anni Settanta-Ottanta con quello proposto da Chéreau e Boulez
a Bayreuth nel 1976-80, una lettura (si è accennato) fortemente politica
a cui la bacchetta di Boulez sveltiva i tempi quasi finendo le quattro opere
con una rapida stretta proprio sul tema in re bemolle maggiore che, ascoltato
brevemente nel secondo atto della seconda giornata, conclude il lavoro
con l’annuncio dell’arrivo di un mondo migliore.
Posso raffrontare il Barenboim dal vivo nelle prime tre opere con quello
inciso in occasione dell’esecuzione della tetralogia a Bayreuth nel 1991;
i tempi si sono dilatati, la lettura si è fatta più solenne.
Negli ultimi anni comunque, a mio avviso, l’interpretazione migliore
ascoltata dal vivo (sotto il profilo che più interessa in questo articolo) è
quella di Stéphane Braunschweig e sir Simon Rattle per i Festival di Aix-
192 Giuseppe Pennisi
en-Provence e Salisburgo. Nonostante spalmata su quattro anni e con gli
stessi personaggi a volta affidati a interpreti differenti al passare da un’opera
all’altra (ed anche da Aix a Salisburgo per la medesima opera), l’intesa
perfetta tra il regista e la direzione musicale ha tracciato un nuovo percorso:
con elementi scenici essenziali, una grande orchestra sinfonica e sir
Willard White in redingote nel ruolo di Wotan (nonché interpreti di altissimo
calibro in tutte le altre parti): mostra il Ring come cammino dell’umanità
verso la modernizzazione in cui lo stesso accordo il re bemolle maggiore
viene eseguito non come tema della «redenzione tramite l’amore» delle
vecchie guide di Max Chop ma come il senso del cammino verso un progresso
ispirato a sempre maggiore tolleranza e trasparenza.
Di grande livello anche quella di Kuhn che incorpora le innovazione di
von Karajan (che si possono ascoltare nella registrazione del 1966-1970
ancora in catalogo) ma ne smussa l’impianto epico e la molteplicità di piani
sonori (e di sfumature) in orchestra (specialmente nelle descrizioni della
natura). Kuhn – si badi bene – esegue il Ring in quattro giorni e lo ha anche
offerto in poco più di 24 ore, iniziando il prologo la mattina alle 10, la
prima «giornata» dopo pranzo, la «seconda» dopo cena e la «terza» alle 8
della mattina seguente dopo sei ore di pausa per il riposo di orchestra, interpreti
e spettatori.
Per chi può ascoltare il Ring unicamente in CD, ancora oggi la versione
da raccomandare è quella di Georg Solti per la Decca, registrata nel 1958-
1965, un vero prodigio di stereofonia, di cast, di orchestra ad oltre cinquant’anni
di distanza mai eguagliato e per questo ancora in catalogo. È
stata senza dubbio studiata da Sir Simon Rattle per il taglio umano e per il
senso del progresso che ha l’interpretazione. Per chi infine cerca una versione
«storica» con un forte senso epico, attenzione a scegliere bene tra i
due Ring diretti di Wilhelm Furtwängler, nel 1950 e nel 1953. Il primo,
chiamato La Scala Ring è una registrazione dal vivo in teatro con un’acustica
che lascia a desiderare; il secondo, chiamato RaiRing registrato
nell’auditorium
della Rai al Foro Italico a Roma, rappresenta il meglio che
la musica registrata potesse esprimere a livello mondiale grazie a tecnici
della Rai e dell’ottima orchestra che la Rai aveva a Roma. La lettura, però,
resta convenzionale – tra il mitologico e l’epico.
Una notazione finale
A duecento anni dalla nascita ed a 130 della morte, ho avuto la sensazione
anche fisica della trasparenza occidentale di Wagner quando ho assi-
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 193
stito a rappresentazioni del Ring e di Tristan und Isolde per studenti. A
ciascuno di loro Wagner «l’oscuro» era chiarissimo. Come lo era alla piccola
comunità di Erl del Tirolo, partecipante attiva di un Ring in quattro
giorni ed anche di un Ring in 24 ore (ed un po’ di più).
Ringrazio Andrea Estero, Direttore di «Classic Voice», per gli utili
suggerimenti, e mia moglie, Patrice Poupon, per la cura nel rivedere testo
e riferimenti.
Giuseppe Pennisi
Premessa
Il 22 maggio del 2013 ricorre il bicentenario della nascita, a Lipsia, di
Richard Wagner, figlio di un’attrice (a sua volta figlia illegittima di un principe
di Weimar) coniugata con un funzionario di polizia; verosimilmente il
padre del compositore non fu il piccolo burocrate sassone ma un artista
(pittore ed attore) piuttosto spiantato e spesso ospite di casa Wagner. In
tutto il mondo, nel 2013 se ne celebrerà la ricorrenza. Anche se Wagner ha
composto non più di quaranta ore di musica (circa 50 se si includono le tre
opere giovanili da lui stesso – a mio inviso ingiustamente – ripudiate), ha
rivoluzionato il modo non solo di pensare il teatro in musica ma di comporre,
ponendo tutte le premesse per la musica del Novecento ed anche per
la contemporaneità più ardita.
Perché scrivere di Wagner? È stato il compositore ed uomo di teatro
più studiato: nella mia biblioteca ho quattro scaffali di libri dedicati a Wagner;
ne ho tre di dischi (da LP, a cassette, a CD) tra cui otto versioni integrali
del Ring (L’Anello del Nibelungo). Non ci sono più battaglie tra wagneriani
ed antiwagneriani come alla fine dell’Ottocento ed all’inizio del
Novecento. A Venezia vivacchia, a Palazzo Giustiniani, dove Wagner compose
Tristan und Isolde, un’associazione di wagneriani. Più attiva quella di
Milano, membro della Richard Wagner Verband International, anche se
priva di una sede parimenti prestigiosa (le riunioni si svolgono nell’associazione
dei loggionisti della Scala, ben più numerosi e meglio organizzati).
Nessuna associazione del genere a Roma, dove pur c’era un pubblico di
wagneriani negli anni Cinquanta e Sessanta che organizzava conferenze e
pellegrinaggi a Bayreuth. Bologna ha perso, da almeno tre decenni, la palma
wagner ovvero la trasparenza
dell’occidente
168 Giuseppe Pennisi
di essere la «città wagneriana», per eccellenza, in Italia: ora il titolo appartiene
chiaramente a Milano ed alla Scala.
Wagner si rappresenta ancora molto spesso in Italia ed ha un pubblico
di affezionati tra le più giovani generazioni (non solo di nostalgici fidelizzati).
Negli ultimi trent’anni, il Ring (quattro opere per complessive 15 ore
di musica, con 35 solisti ed un enorme organico orchestrale – in breve una
tetralogia che richiede sforzi tali da causare dissesti ai teatri che la rappresentano)
è stato messo in scena due volte in forma scenica alla Scala ed a
Firenze, due volte in forma di concerto a Roma (dove è stato iniziato una
terza volta ma non proseguito), ed una volta a Bologna, Catania, e Bari.
Der fliegende Holländer (il lavoro più semplice da mettere in scena) si è
visto in quasi tutti i maggiori teatri della Penisola, anche in quelli detti «di
tradizione» poiché situati in città d’arte un tempo capitali di ducati e principati
ed oggi (alcune solo ancora per poco) di province. Lohengrin, Tristan
und Isolde, Tannhäuser e Parsifal sono frequentemente in scena; Lohengrin
ha effettuato anche una tournée in «teatri di tradizione» in una versione
ritmica in lingua italiana. Anche due delle opere giovanili (Die Feen e Das
Liebesverbot)
sono state rappresentate negli ultimi vent’anni (a Cagliari ed
a Palermo); la terza (Rienzi) è in arrivo dopo l’ultima produzione avvenuta,
alla Scala, circa cinquanta anni fa. Unicamente Die Meistersinger von
Nürnberg
(sola commedia comica in musica di Wagner) ha avuto rare
esecuzioni: meglio dimenticare quella a Roma all’inizio degli anni Ottanta,
mediocre una messa in scena a Genova, di livello tra il buono e l’ottimo
invece quelle di Firenze-Torino, Milano, Spoleto e Trieste. Le ragioni sono
molteplici: la difficoltà di apprezzarne il significato (e la comicità) senza
una perfetta conoscenza del tedesco o buoni sovratitoli, l’enorme cast di
cantanti-attori richiesto.
Per il bicentenario della nascita, in Italia sono stati annunciate due
edizioni integrali del Ring. La Scala presenta il ciclo due volte in giugno
nell’allestimento (in coproduzione con la Staatsoper di Berlino) di cui nelle
ultime stagioni sono state viste le varie opere al ritmo di una l’anno,
mentre il Teatro Massimo di Palermo propone le quattro opere (due ad
inizio stagione e due al termine) in una nuova produzione curata da Graham
Vick. Il 7 dicembre, la Scala ha inaugurato la stagione con un nuovo allestimento
di Lohengrin ed in primavera offre una nuova produzione de Der
fliegende Holländer.
In effetti, Der fliegende Holländer è l’opera di Wagner più «gettonata»
in Italia nella stagione 2012-2013; oltre che alla Scala, è in programma al
Regio di Torino (dove ha aperto la stagione), al Comunale di Bologna ed al
San Carlo di Napoli. Inoltre, l’AsLiCo di Como ne produrrà un’edizione
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 169
speciale per ragazzi che coinvolgerà i teatri della Lombardia e di altre regioni,
sino a Roma e pure al Mezzogiorno, per far conoscere Wagner a 130.000
ragazzi. Si dà il caso che nel lontano 1954, Der fliegende Holländer è la
prima opera in assoluto vista ed ascoltata dal vivo dal vostro chroniqueur,
allora dodicenne. Quali le ragioni del favore? Der fliegende Holländer, prima
delle dieci opere riconosciute da Wagner come Musikdrama dell’avvenire,
viene scelta principalmente per ragioni di bilancio: è relativamente breve
(Wagner voleva che venisse eseguita senza intervalli), richiede un organico
orchestrale e vocale di normali dimensioni, ha parti facilmente orecchiabili
(quali «la ballata di Senta»), ha un libretto semplice da seguire.
Solamente la Fenice azzarda Tristan und Isolde, ma ne offre un’edizione
di gran lusso all’inaugurazione della stagione: regia di Paul Curran,
scene modernissime di Robert Innes Hopkins, Myung-Whun Chung alla
direzione musicale e un cast di favola (Ian Storey, Brigitte Pinter, Attila Jun,
Richard Paul Fink, Tuija Knihtilä).
Tra i lavori che mancano all’appello, nei cartelloni dei teatri per il bicentenario,
spicca Die Meistersinger von Nürnberg.
Sono, però, in programma due vere chicche. In primavera, il Teatro
dell’Opera di Roma presenta, la versione integrale (pur se senza i lunghi
ballabili) di Rienzi der letzte der Tribunen uno dei lavori giovanili di Wagner
(lo vidi a Washington nel 1982), di cui si ricorda un’unica edizione italiana,
in traduzione ritmica e fortemente tagliata, nel lontano 1962 alla Scala.
Trieste porta in Italia Das Liebesverbot oder Die Novize von Palermo che,
sino ad ora è stata messa in scena, unicamente, nel 1991, al Politeama di
Palermo. Due appuntamenti da non mancare.
Perché trattare di Wagner sulla «Nuova Antologia» in occasione di un
bicentenario di cui tutti si occuperanno? La ragione di fondo è che uno dei
lavori più recenti pubblicati in Italia è il saggio di Mario Bortolotto Wagner,
l’Oscuro (Adelphi, 2003); è stato un notevole (e meritato) successo editoriale.
Tuttavia, ciò che più mi ha attratto è stata la trasparenza, tutta occidentale,
di Wagner nei suoi significati musicali, politici e sociali. Anche per
ragioni strettamente personali.
La prima volta che misi piede in un teatro d’opera fu a Roma nel 1954
(avevo 12 anni) per Der fliegende Holländer, allora ancora chiamato Il
Vascello Fantasma (secondo una prassi francese) e rappresentato in tre
atti (non, secondo l’intenzione dell’autore, senza intervalli): dirigeva Karl
Böhm. Un allestimento tradizionale di Camillo Paravicini. Cantavano Leonie
Rysanek, Ludwig Weber e Hans Hopf. Non c’erano sovratitoli ma
compresi ogni accento e ne restai incantato. Da allora l’opera in generale,
non solo quella di Wagner, diventò parte della mia vita. Pochi anni dopo,
170 Giuseppe Pennisi
vidi ed ascoltai, in diurna domenicale, senza sovratitoli, Tristan und Isolde
dirigeva Heinz Wallberg, regia di Friedrich Schramm, scene di Emil Praetorius,
e con Birgit Nilsson (Isotta), Rita Gorr (Brangania), Wolfgang Windgassen,
Gustav Neidlinger e Alfons Herwig. Infine, nel 1961, il Ring diretto
da Lovro Matacˇic´ con un cast di altissimo livello (le quattro opere spalmate
su sei giorni) e con la regia di Wieland Wagner e, subito dopo, Lohengrin
cantato in italiano alle Terme di Caracalla. Ciò che più mi colpiva era
la trasparenza rispetto al melodramma verdiano (a cui ero uso).
Un caso isolato? Nel 1992, non potendo lasciarlo a casa, portammo a
Spoleto nostro figlio quindicenne per una buona edizione di Die Meistersinger
von Nürnberg: l’opera è la più lunga di quelle di Wagner (quattro ore
e mezzo di musica). Lo spettacolo iniziava alle 16 e tra il secondo ed il
terzo atto (due ore e venti minuti) si prevedeva un intervallo di un’ora e
mezza per la cena. Regia tradizionale. Sovratitoli. Il ragazzo si divertì, rise
e seguì il complesso intreccio. Ultimo esempio: nel gennaio 2009 invitai
tutta la famiglia (figlia, figlio con la sua compagna) alla prima del Lohengrin
al Teatro Massimo di Palermo. Inizio alle 18 con cena dopo spettacolo,
sovratitoli, allestimento efficace di Hugo de Ana. Rimasero entusiasti.
In questa riflessione sulla trasparenza tutta occidentale di Wagner al
giorno d’oggi, inizio con il lavoro più politico Die Meistersinger von Nürnberg
per andare poi alle altre opere, comprese le tre giovanili, e concludere
con il Ring. Lo storico e sociologo Karl August Wittfogel ha spiegato meglio
di tutti, in Die orientalische Despotie – Eine vergleichende Untersuchung
totaler Macht, come la trasparenza sia la caratteristica che distingue i valori
della società occidentale dalle altre. L’ipotesi di questo articolo, quindi,
è che Wagner non è «oscuro» ma «trasparente».
Die Meistersinger von Nürnberg ovvero l’essenza della trasparenza
dell’Occidente
Balzac era notoriamente ateo: scrisse, però, che il Meursault (il Re dei
vini bianchi di Borgogna) va bevuto in ginocchio in quanto è l’unica prova
dell’esistenza di Dio. Analogamente, Theodor Adorno, guida della «scuola
di Francoforte», poco aveva a che spartire con il nazionalismo tedesco,
anzi, era decisamente marxista. Ha scritto, tuttavia che Die Meistersinger
von Nürnberg è la più alta, più completa e più piena espressione del genio
dell’Occidente. Non solo condivido l’affermazione di Adorno; ma, a mio
avviso, Die Meistersinger è (con le mozartiane Nozze di Figaro e poche
altre) una di quelle opere al termine delle cui esecuzione (se di livello)
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 171
vorrei veder riiniziare, dopo mezz’ora di pausa per badare alle esigenze
primarie del sopravvivere. Pur se la partitura di Die Meistersinger (escludendo
gli intervalli) dura dalle 4 ore e 25 alle 4 ore e 50 minuti (a seconda
del piglio dei concertatori).
La trama è semplice. Nella Norimberga a cavallo tra la fine del Mediovo
e l’inizio del Rinascimento (in beve una «repubblica comunale» – direbbe
il politologo americano Robert Putman – gestita dalle corporazioni
delle arti e dei mestieri in piena, e trasparente, democrazia), si svolge una
gara di canto. L’orafo Pogner ha messo in palio la figlia (la diciottenne Eva)
che se decide di non impalmare il vincitore deve comunque scegliere come
sposo un «maestro cantore». Due quarantenni i principali contendenti: il
calzolaio poeta Hans Sachs ed il segretario comunale, nonché occhialuto
censore delle arti, Beckmesser. Eva, però, è innamorata, del cavaliere di
Franconia (un aristocratico pur se non di alto rango), Walther il quale la
ricambia ma fallisce la prova necessaria per essere ammesso alla corporazione
dei «cantori». Sachs comprende l’amore dei giovani, rinuncia ai
propri disegni su Eva ed in una lunga notte di imbrogli addestra Walther in
modo che sconfigga Beckmesser, vinca la mano di Eva ed abbia sempre
presente i valori della «sacra arte tedesca». Su questa trama, se ne inseriscono
secondarie (quale il rapporto carnale tra il giovane Davide, apprendista
di Sachs, e la matura Maddalena, governante di Eva), nonché una
serie di intrighi e colpi di scena, di cui, impagabile, il finale a sorpresa) in
una società in transizione da Medioevo ad età moderna. Pur se storicizzata
nella società tedesca alla fine del XV secolo, Die Meistersinger è una grande
commedia umana con valenza generale ed astorica, ma fortemente salda
ai valori dell’Occidente: esalta le libertà civili ed economiche, la tolleranza
(altra caratteristica occidentale, secondo Wittfogel), il mercato, il lavoro,
l’industriosità, l’apprendimento, l’amore in tutte le sue guise, la lealtà intergenerazionale,
la sacralità dell’arte e del pensiero e la continuità dei
valori in un periodo di cambiamento. C’è anche un forte senso religioso,
dal «Do» iniziale dell’ouverture (quasi il rintocco di una campana) ai riferimenti
alla Provvidenza da parte del protagonista (il poeta-ciabattino Hans
Sachs, per cui la «rinuncia» a Eva è un dono della Provvidenza).
Nelle circa 6 ore di spettacolo (intervalli compresi), si ride e ci si commuove
e si è trascinati da un flusso continuo diatonico, dove domina il contrappunto
ed ha un ruolo determinante la polifonia. La sua messa in scena presenta
enormi difficoltà per la regia, per l’orchestra, per le voci (17 solisti, un doppio
coro, un coro di voci bianche ed anche un breve ma incisivo balletto).
Ricordo edizioni eccellenti a Firenze nel 1986 e a Trieste nel 1992,
buone a Milano nel 1990, a Spoleto nel 1992 e a Torino nel 1997, nonché
172 Giuseppe Pennisi
di nuovo a Firenze nel 2004. Ma anche alcune del tutto inadeguate a Roma
e a Genova (nonché un paio addirittura rimosse dalla memoria). Ne ho
viste ed ascoltate di ottime a Berlino, Francoforte, New York e Tolosa. Sarebbe
fuor di luogo commentarle in questo articolo. A Trieste, Spoleto,
Firenze, Torino, New York e Tolosa la comprensione del testo – a volte
presentato in Germania anche senza musica, ossia come una pura commedia
(ne esiste pure un’incisione) – era agevolata dai sovratitoli. Naturalmente
non presenti alla Scala di 22 anni fa ed a Berlino e Francoforte, nonché
nell’edizione gustata nel 2011 al Festival del Tirolo a Erl. Senza dubbio,
conosco molto bene l’opera (piena di battute scoppiettanti ed in cui il sinfonismo
continuo del Wagner post-Lohengrin lascia spazio ad arie, duetti,
terzetti e ad un magnifico quintetto in cui si riassume il significato del lavoro
e si facilita il cambio scena tra il primo ed il secondo quadro del terzo
atto). L’esaltazione dei valori dell’Occidente è la chiave attraverso la quale
si comprende Die Meistersinger anche con una conoscenza approssimativa
del tedesco. Cosa di più «trasparente» si può immaginare?
Di rara esecuzione in Italia per le ragioni che si sono dette, l’ultima
volta che la ho ascoltata, mi sono recato nell’estate 2011 al Festival del
Tirolo, in quel di Erl (un villaggio di 1450 abitanti) dove, trasformando in
teatro d’opera e sala da concerto una struttura creata per rappresentarvi
(ogni sette anni) la Sacra Rappresentazione della Passione, quel diavolo di
Gustav Kuhn (compositore, direttore d’orchestra, regista, scenografo e
costumista) ha creato una della manifestazioni più interessanti dell’estate.
Quando nel lontano 1978 conobbi Kuhn (allora trentacinquenne) a Bologna,
dove concertava un ottimo Parsifal, veniva considerato l’erede di von Karajan.
Da buon salisburghese, non si è mai assoggettato al rigore prussiano.
La sua carriera è stata in gran misura italiana dove è stato direttore artistico
a Roma, Napoli e alla Sferisterio, ha diretto nei maggiori teatri, ha creato
l’orchestra Haydn di Trento e Bolzano e l’Accademia di Montegral e vive
in Garfagnana in un Convento dei Padri Passionisti affittato a vita: settanta
celle, un appartamento, un refettorio, un elegante cortile, una terrazza appollaiata
sulla Lucchesia ed una cappella dove la domenica si celebra la
messa (sempre a conclusione del piccolo ma raffinatissimo Festival che
offre ogni primavera agli amici). Tra le sue creazioni anche il Festival del
Tirolo che ha una sessione estiva in luglio ed una invernale (tra Natale e
l’Epifania). In una versione spoglia low cost Die Meistersinger appare ancora
di più come capolavoro sommo – l’opera-da-salvare se dopo un cataclisma
se ne potesse conservare una sola.
L’edizione al Festival del Tirolo ha debuttato nel 2009 ed è stata da
allora affinata. Kuhn firma scene, costumi e luci, oltre a concertare l’opera
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 173
seguendo fedelmente le istruzioni di scena scritte da Wagner nel 1868. Nei
costumi, si alternano l’abbigliamento contemporaneo (nelle scene «private»)
e rinascimentale (in quelle «pubbliche») – un modo un po’ didascalico per
sottolineare, al tempo stesso, il contesto storico e il significato atemporale
universale, ma radicato nella cultura occidentale, del lavoro. Nell’ultima
scena, tutti si tolgono i costumi seicenteschi per restare in quelli contemporanei
– i valori universali, nati in Occidente, prevalgono sul contesto
storico. L’impianto scenico è una pedana che con poca attrezzeria, di volta
in volta, diventa la Cattedrale di Santa Caterina, le strade di Norimberga
con alberi di tiglio, lo studio di Sachs, la radura, con una grande quercia,
dove si svolge la gara. Curata l’azione scenica anche in quanto rodata. Vigorosa
e animata l’esecuzione di Kuhn: accentua la polifonia e dilata gli
abbandoni degli archi nelle scene d’amore ed in quella della «rinunzia».
Oskar Hillebrandt è un Sachs espressivo, Franz Hawlata un Pogner possente,
Martin Kronthaler, un Beckmesser dal fraseggio scolpito e variegato,
Arpiné Rahdjian una Eva piena di dolce astuzia. Walther ha la vocalità lucente
possente e appassionata e i fisico giovane di Michael Baba. Perfettamente
nel ruolo Andreas Schager (un David dal timbro lucente) e Hermine
Haselböck (Magdalene) e gli altri, troppo numerosi per citarli.
I bambini del villaggio interpretano il corteo delle corporazioni – un
modo originale per far sentire che l’opera è di tutti; è la vox populi. Si è
entrati a teatro alle 16.45. Alle 22.15 è scattata una vera e propria ovazione
da stadio che ha rotto il silenzio delle valli tra Tirolo e Baviera. Dopo
due giorni di pioggia quasi interrotta, uscendo, la sera del 15 luglio, c’era
la luna piena attorniata da stelle – quasi che anche il cielo volesse fare
omaggio a questo somma espressione della cultura e società dell’Occidente.
Adorno aveva ragione a proposito di Die Meistersinger.
Tristan und Isolde ovvero la notte rivelatrice dell’Occidente
Tristan und Isolde, andata in scena a Monaco nel 1865 (tre anni prima
di Die Meistersinger), è, per molti aspetti, l’interfaccia della commedia di
cui si è appena trattato. I due lavori sono stati composti quando Wagner
interruppe, per 12 anni, quel Ring che considerava, a ragione, il suo opus
massimo per eccellenza. Al pari di Die Meistersinger esalta un valore tipicamente
dell’Occidente: la tolleranza. E lo fa in modo trasparente. Non
richiede un organico vocale smisurato come Die Meistersinger ma cantanti
con grandi voci e grande stamina. Ed una grande orchestra. Si è vista spesso
in Italia negli ultimi anni; alla Scala (come inaugurazione della stagione
174 Giuseppe Pennisi
2007-2008), al San Carlo (come inaugurazione della stagione 2004-2005),
a Roma (sia al Teatro dell’Opera sia in versione di concerto all’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia ed alla Orchestra Sinfonica di Roma della Fondazione
Roma), a Genova, a Bologna, a Firenze, a Verona. Ha inaugurato
il 18 dicembre, come si è detto, la stagione wagneriana 2012-2013 della
Fenice in un’edizione di lusso. A mio avviso, nonostante il suo grande valore
e la qualità di numerose esecuzioni ascoltate, è opera poco adatta per
un’inaugurazione che vuole essere occasione mondana ed aprire il teatro a
chi va all’opera di rado: lo spettacolo (intervalli compresi) dura oltre cinque
ore e mezzo. Pur se chiamata da Wagner «azione in tre atti», l’azione è
tutta interiore (in lunghi racconti) più che sulla scena.
La principessa irlandese Isolde condotta dal giovane Tristano in sposa
alla zio Marco (Re di Cornovaglia e Bretagna) vuole avvelenarlo in quanto
il giovane (a cui ha salvato la vita) le ha ucciso il fidanzato, ma la sua ancella
Brangania sostituisce il filtro della morte con quello dell’amore. Ne
conseguono adulterio (solo intellettuale non carnale) e tragedia; il desiderio
degli amanti di annullarsi l’uno nell’altra viene interrotto dall’essere scoperti
e da ferite mortali inferte in duello al giovane, pur se Re Marco ha
compreso e tollerato. Sotto il profilo musicale Tristan ha cambiato la storia
del modo di comporre ed iniziato quella che sarebbe diventata la grande
musica contemporanea. Senza la carica innovativa, il cromatismo e la dissoluzione
della scrittura tradizionale – caratteristiche di Tristan – non ci
sarebbe la musica contemporanea, da Debussy (il cui Pelléas et Mélisande
venne erroneamente presentato come «anti-Tristano») alla dodecafonia di
Zemlinski, Schoenberg, Malipiero e Dallapiccola. Con circa mezzo secolo
d’anticipo, Tristan apre quella che sarebbe stata una delle scuole più importanti
del Novecento («la scuola di Vienna»), nonostante Wagner avesse
studiato composizione per solo sei mesi e non sapesse suonare decentemente
nessun strumento (strimpellava il piano molto male)! La scrittura cromatica
si giustappone quasi a quella diatonica di Die Meistersinger ed accentua
la trasparenza di un lavoro la cui Aktion si svolge in gran misura di
notte. La notte nebbiosa della Cornovaglia e della Bretagna.
Tristan und Isolde si presta a molteplici letture: da filosofiche (Sinopoli
ne esaltava il lato schopenhaueriano) a mitologiche (lo mettevano in
rilievo Karajan e Fürtwangler), a erotico-sentimentali (Solti, Böhm, Chung),
a decadentiste (Metha, Boulez, Ferro). Non basta un saggio unicamente
per sfiorare i misteri del confronto tra Isolde wilde, minnige Maid («selvaggiamente
amante») ed il casto Tristano. Mai prima di Tristan und Isolde
(e raramente dopo) il teatro in musica è penetrato così a fondo nell’eros
– ed in un eros dove c’è passione infinita ma non rapporto sessuale. C’era
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 175
una determinante personale ed artistica specifica. Wagner aveva interrotto
la partitura del Ring dopo la seconda scena del terzo atto di Siegfried. Non
solamente temeva che il progetto non si sarebbe mai realizzato ma non
riusciva a esprime la carica erotica dei 45 minuti di amplesso e di orgasmo
gioioso con cui si chiude Siegfried. Aveva bisogno di elevarsi alla gioia
infinita di Die Meistersinger e di sceverare le profondità dell’eros di Tristan.
Tuttavia, tra i due innamorati non c’è alcun rapporto sessuale (a Wagner
non ne mancava l’esperienza di metterli in musica, visti vari momenti del
Ring). Isolde è stata la donna di Morold ed è la sposa di Re Marco; Tristan
non ha mai avuto una donna (per quel che ne sappiamo); nella lunga notte
del secondo atto – la prima ed ultima volta che si vedono (quasi) da
soli dopo l’improvviso innamoramento – invocano l’unione tra eros e thanatos
ma, fisicamente, si sfiorano appena. Concettualizzano l’amore, anzi
la lussuria sublime e completa (höchste Lust) considerata possibile unicamente
nell’aldilà.
C’è curiosamente una dimensione geopolitica nella Aktion (così Wagner
ha chiamato il lavoro). Nonostante Wagner venga considerato come il cantore
del nazionalismo tedesco, le sue opere trattano raramente poco di
geopolitica.
Ha carica geopolitica l’inizio del Lohengrin con Enrico l’Uccellatore
che chiama a raccolta i popoli germanici contro gli invasori. La ha
pure la marcia finale di Die Meistersinger con l’invocazione alla «immortalità
della sacra arte tedesca» quale che sia il destino delle terre patrie. Non
ce ne è cenno nel Ring, né nel cristiano (velato di buddismo) Parsifal né
tanto meno in Holländer o in Tannhäuser.
C’è, però, un sostrato geopolitico in Tristan. Isolde – ricordiamolo – è
una «selvaggia» giovane principessa irlandese costretta alle nozze con l’anziano
Re di Cornovaglia e d’Inghilterra, Marco, il cui nipote preferito,
Tristano, è, a qualche titolo, signore di Bretagna. Il primo atto si svolge in
navigazione tra Irlanda e Cornovaglia, il secondo nel giardino del castello
regale ed il terzo in Bretagna. La puntuale analisi comparata delle fonti
svolta da un grande storico francese, Joseph Bédier, indica come i manoscritti
di Gottfried
von Strassburg, il poema Sir Tristrem ed i poemi composti
da tale Roberto su commissione di Re Haakon V di Danimarca – a cui
attinse in vario modo Wagner per l’Aktion – avevano un significativo sottostante
politico: il complicato mito di Tristan und Isolde non si basa su
una vicenda di corte da troubadour (come i vari Paolo e Francesca e Lancillotto
e Ginevra) ma racconta un tentativo di riassetto, ove non d’unificazione,
politica dell’ampia regione del Nord Europa che si estende dalla
parte settentrionale della Francia alle Isole Britanniche ai lembi della Scandinavia.
Compare anche una moneta unica per la regione. In breve, una
176 Giuseppe Pennisi
mitizzazione della guerra dei 100 anni, vissuta dai francesi tramite le vicende
di Giovanna d’Arco e dai britannici tramite quelle, immortalate da
Shakespeare, di Enrico V. Il disegno, o piuttosto il sogno, geopolitico, costruito,
da uomini, a tavolino, su un intreccio di matrimoni (nonché di
guerre) crolla quando la «wilde, minnige Maid» si inserisce in questo universo
al maschile. Quindi, un Wagner, geopoliticamente nordico e molto
protofemminista. Vorrei sottolineare come questa linea di lettura è palese
nell’edizione presentata a Venezia in occasione del bicentenario: la regia di
Paul Curran, le scene ed i costumi di Robert Innes Hipkins e le luci di David
Jacques ci pongono in un mondo chiaramente nordeuropeo in cui l’accordo
(per la pace e l’unità) raggiunto da uomini di varie «genti» (tutte
comunque nordiche) viene messo a repentaglio dall’ingresso, nella scena
anche politica, della «selvaggia» giovane principessa.
Importante, tra quelle citate, l’edizione scaligera del 2007. Ma non
priva di difetti nell’impostazione drammaturgica. In primo luogo, la regia
di Patrice Chéreau mette l’accento su uno solo dei tanti temi del lavoro: la
vocazione dei due protagonisti al suicidio, ignorando l’eros (importante
quanto thanatos, il dio della morte) nella concezione wagneriana. La scena
unica di Peduzzi è ispirata alle rovine della Basilica di Massenzio a Roma;
vi emergono la nave di Isotta (nel primo atto), il giardino in Cornovaglia
con cimiteriali cipressi (nel secondo), i ruderi dei possedimenti di Tristano
in Bretagna (nel terzo). Domina il grigio nelle scene e nei costumi atemporali.
In secondo luogo, Barenboim asseconda solo in parte questo disegno:
dilata i tempi (in linea con la marcia verso il suicidio) ma nel secondo atto
in orchestra esplode l’eros più prepotente mentre sulla scena i protagonisti
dialogano a distanza e senza sfiorarsi.
Waltraud Meier è un’Isotta di classe: grande temperamento scenico
associato ad un timbro scuro di soprano drammatico e ad un volume che
riempie la sala, ma non ha più lo smalto e l’estensione di un tempo (specialmente
verso le tonalità alte). Ian Storey debutta nel terrificante ruolo di
Tristano; è un bari-tenore (più che un tenore eroico) di classe con un ottimo
fraseggio ed un buon legato; ha avuto difficoltà nel secondo atto (potranno
essere appianate nelle repliche anche a ragione di un coordinamento non
perfetto con Barenboim) ma ha regalato uno splendido terzo atto (quasi
interamente sulle sue spalle). Salminen è un Re Marco da antologia. Interessante
la Brangania di Michelle De Young sia per il timbro chiaro (pur se
è mezzo-soprano) e per il modo di tener la scena. Troppo agitato (in scena)
il Kurwenal di Ged Grochowski. Di buon livello gli altri. Una lode particolare
all’orchestra (in specie ai solisti – arpe, flauti) alle prese con una partitura
molto complessa, assente da Milano da quasi trenta anni.
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 177
Significativo, anche l’allestimento del San Carlo di Napoli (con regia di
Lluis Pasqual, scene di Enzo Frigerio, direzione d’orchestra di Gary Bertini
ed un cast di alto livello, Thomas Moser, Jeanne-Michèle Charbonnet, Jan-
Hendrik Rootering, Albert Dolmen e Lioba Braun) .
Merita un DVD di qualità l’edizione inaugurata il 18 novembre 2012
a Venezia. In primo luogo, la concertazione di Chung è solo leggermente
dilatata (rispetto a edizioni di riferimento come quella di Karajan); nel
complesso l’opera dura circa una mezz’ora di meno rispetto alla versione
scaligera di Barenboim. Non disponendo di una buca vasta come quella
della Scala, Chung fa economia di strumenti, ma le dimensioni relativamente
piccole della Fenice rendono il suono morbido e rotondo, ed esaltano le
arpe, i violoncelli ed i fiati. È un Tristan languido e dolente. Ian Storey è
cresciuto vocalmente e scenicamente rispetto all’edizione della Scala: affronta
quasi con spavalderia l’impervio terzo atto. La vera sorpresa è Brigitte
Pinter, al debutto nel ruolo; una Isolde giovane e statuaria, con vocalità
da soprano «assoluto» e capacità di ascendere con facilità alle tonalità
alte e discendere con pari ease a quelle gravi; nel pesantissimo primo atto
(per le due protagoniste femminili), la affianca perfettamente la Brangania
di Tuija Knithila. Richard Paul Fink è un Kurnewal atletico e pieno di energia.
Attila Jun un Re Marco perfetto nella profonda vocalità ma relativamente
poco espressivo nel tormento per il doppio tradimento (della giovane
sposa e del nipote prediletto). Si sono fatti cenni alla drammaturgia: è
un Tristan atemporale, pur se lo scozzese Curran ne esalta la dimensione
nordica, con un’«azione» interiore trasmessa, però, efficacemente dagli
sguardi dei protagonisti. Per questo, il DVD deve essere davvero di qualità.
Der Fliegende Holländer, Tannhäuser, Lohengrin e Parsifal ovvero la Fede
dell’Occidente
In un articolo, di dimensioni naturalmente contenute, sulla trasparenza
occidentale di Wagner è utile raggruppare i suoi maggiori lavori prima di
affrontare quel Ring a cui dedicò tutta la vita. Pur nelle profonde differenze
delle singole opere c’è un filo che lega Der Fliegende Holländer, Tannhäuser,
Lohengrin e Parsifal (scritte e composte in un arco di circa quaranta
anni, dal 1843 al 1882), tre prima di cominciare a redigere anche il
primo testo del Ring e la quarta dopo il completamento del grande opus e
con il presentimento della fine dell’avventura terrena. Tutte e quattro
giustappongono
la religione dell’Occidente, specialmente quelle dei «vecchi
dèi germanici» con il Cristianesimo, visto (nel contesto storico dei libretti
178 Giuseppe Pennisi
dei quattro lavori) come veicolo di modernizzazione anche politica e sociale.
Wagner è sempre stato un convinto e praticante luterano (in questo
senso va letto anche il suo saggio antisemita scritto proprio quando l’unico
direttore d’orchestra a cui affidava il suo ultimo lavoro era Hermann Levi,
di stirpe e religione ebrea e a volte giovane compagno di letto della più
matura moglie del compositore: era l’antisemitismo della borghesia della
Pomerania dell’epoca).
Da giovane, Wagner aveva composto una cantata per coro ed orchestra
sull’Ultima Cena (Das Liebesmahl der Apostel) di cui è difficile trovare una
registrazione. Aveva cominciato, mentre lavorava ad altri progetti e soprattutto
al Ring, due opere a carattere religioso: una sulla vita di Gesù di Nazareth
(Jesus von Nazareth, iniziata nel 1849 quando cioè aveva le prime
idee sul Ring) ed una su quella di Buddha (Die Sieger, iniziata nel 1855).
Del primo è rimasto l’abbozzo di un libretto in cinque atti (molto fedele ai
Vangeli). Del secondo esiste il testo completo in prosa. Nei due lavori si
intrecciano due temi fondanti: la tolleranza e la rinuncia.
Essi sono presenti in vario modo nelle quattro opere compiute. L’argomento
di fondo Der Fliegende Holländer (strutturata come un’opera romantica
tedesca tradizionale, con arie, duetti, terzetti, cori ed anche una ballata
che occupa buona parte della seconda scena) è il sacrificio per redimersi
dopo il peccato più grave (la bestemmia). In Tannhäuser, ultima opera
«tradizionale», il tema è ancora lo scontro tra il mondo del peccato (inteso
come lussuria – la praticava nella vita privata, anche dopo le seconde nozze
con Cosima Listz, ma ne sentiva il peso ed il rimorso) dei vecchi dèi (in
particolare Venere) e quello del pentimento e dell’assoluzione data dal
Papa in persona.
In Lohengrin, sottotitolato «grande opera romantica in tre atti» ma in
effetti il primo musikdrama caratterizzato dal sinfonismo continuo (pur
nella presenza di numeri «tradizionali» quali la «cavatina» di Elsa nel primo
atto ed il «racconto» del protagonista del terzo, nonché dei duetti nella stanza
nuziale sempre nel terzo), vi è una vera e propria guerra tra i seguaci
delle antiche religioni germaniche (omicidi e dediti alla stregoneria) ed il
mondo cristiano, di cui la forma più completa è il lontano tempio del Graal.
Questa guerra si svolge mentre si prepara un conflitto tra i popoli e le genti
di origine germanica e gli unni di matrice uralica che, invasa quella che ora
è la pianura dell’Ungheria, marciano verso la conquista della Germania.
In Parsifal siamo nel cuore del mondo del Graal, ma il peccato è più
che mai in agguato – Kundry ha riso sul volto di Cristo sul Golgota ed è
stata «condannata a non morire» sino a quanto non verrà «redenta», Klingsor
si è autocastrato perché non poteva resistere alla tentazione carnale (un
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 179
requisito per essere cavaliere del Graal) ed ora, minaccia il Tempio, ha ferito
l’erede al Regno del Graal, Amfortas, con piaghe che progressivamente
impediscono a quest’ultimo di celebrare l’Eucarestia; può essere vinto
unicamente da un «puro folle», per l’appunto l’innocente selvatico Parsifal
che necessita di una lunga iniziazione per comprendere il mistero dell’Eucarestia,
distruggere il Castello di Klingsor, purificare Kundry (e consentirle
di morire serenamente) e Amfortas e prendere il suo posto e nella celebrazione
dell’Eucarestia e nella guida del Regno del Graal. La conclusione
è, però, «aperta», forte segno di appartenere alla cultura occidentale (nonostante
il lavoro abbia venature buddiste): i Cavalieri del Graal, i loro
paggi, i protagonisti ed una voce dell’alto invocano Erlösung dem Erlöser!
(Redenzione al Redentore!), una visione quasi più buddista che cristiana
secondo cui il Redentore deve essere continuamente lui stesso «redento»
dall’umanità. In Parsifal, infine, il contrasto tra il mondo pagano del peccato
e quello cristiano della purificazione e della redenzione è accentuato
in quanto il mondo del Graal è diatonico come quello de Die Meistersinger,
mentre quello di Klingsor e di Kundry (nei primi due atti) è cromatico
come in Tristan und Isolde.
Alcune esecuzioni memorabili degli ultimi anni. Andando a ritroso
rispetto
alle osservazioni sul significato, delle numerosi edizioni di Parsifal
restano impresse quella (in versioni da concerto) nel novembre 2008 e
quella a Venezia nel marzo 2005. Occorre prendere l’avvio da un aspetto
che può sembrare pedante: esistono diari burocratici delle rappresentazioni
del 1882 a Bayreuth sotto gli occhi vigili di Wagner e la bacchetta di
Levi; tali diari determinano i tempi (un’ora e 45 minuti il primo atto, un’ora
e 5 minuti il secondo, un’ora e 10 il terzo). Oggidì sono rarissimi i direttori
musicali che seguono queste indicazioni: Levine, Kuhn, Thiellman e
pochi altri. Con Toscanini – come è noto – il primo atto di Parsifal durava
due ore e venti minuti. Con Boulez poco più di un’ora e mezzo.
Daniele Gatti dilata i tempi (due ore il primo atto, un’ora ed un quarto
il secondo, circa un’ora e mezzo il terzo) dando una lettura filosofica-religiosa
al lavoro (come fece, proprio con l’Orchestra di Santa Cecilia Sinopoli
nel 1995). È una lettura legittima. Ne preferisco una più sanguigna
(come quelle di Karajan, Levine, Ferro) e più sensuale ove non carnale
(come quelle di Solti, Tate, Bichkov) poiché la carnalità è centrale al lavoro.
L’orchestra ed il coro rispondono in modo eccellente alla direzione musicale
di Gatti che affatica, però, quella parte del pubblico che ha meno dimestichezza
con quello che possiamo chiamare «il sottostante» del capolavoro.
Alla prima rappresentazione, inoltre, si è iniziati con circa mezz’ora di ritardo
a ragione dell’indisposizione di un solista: solo wagneriani incalliti
180 Giuseppe Pennisi
restano in teatro dalle 16.30 alla mezzanotte. Di conseguenza, nonostante
gli applausi calorosi, dopo il primo atto (terminato alle 19.30) e soprattutto
dopo il secondo, molti posti sono rimasti vuoti. Una notazione: la concertazione
dilatata di Gatti fa risultare la ricchezza del tessuto orchestrale
e l’abilità degli ottoni e dei fiati dell’orchestra dell’Accademia – una vera
rarità (come amava dire Sinopoli) nel panorama sinfonico italiano. Eccellenti
– come sempre – i due cori.
Veniamo alle voci. Nella «azione» il protagonista ha un ruolo vocale
relativamente limitato – due momenti molto difficili Amfortas!, Die Wunde!,
Die Wunde! e Nur eine Waffe taught – ma nel complesso una parte che
richiede sforzi inferiori a quelli previsti per Gurnemanz, i cui lunghi racconti
riempiono gran parte del primo o del terzo atto, o per Amfortas il cui
canto sofferente contempla passi davvero terrificanti. Georg Zeppenfeld è
un Gurnemanz relativamente giovane; preferirei un timbro più profondo
(alla Hans Sotin che di Zeppenfeld è stato il maestro) ma si cala perfettamente
nel ruolo e ne regge egregiamente la pesantezza. Detlef Roth (Amfortas)
conferma di essere l’erede ideale di Fischer-Dieskau: un Amfortas
dal timbro chiaro, dalla vocalità agile, dai legato struggenti e dalla grande
versatilità nell’ascendere e nel discendere da tonalità acute. Evelyn Herlitzius
è un soprano drammatico di grandi capacità vocali (preferisco, nel ruolo,
un mezzo-soprano come la Ludwig o la Meier di prima maniera, ma è scelta
puramente personale): il secondo atto è in gran parte suo. Lucio Gallo è
un Klingsor abbastanza efficace, ma non sufficientemente diabolico e corrotto,
come vorrebbe il ruolo. E Parsifal? Simon O’Neill, non ha né physique
du rôle né la dizione richiesta, ma è un tenore spinto generoso, dal
timbro chiaro e dal buon fraseggio. Puntuali i due gruppi di fanciulle fiori,
i quattro scudieri ed i due cavalieri. Su oltre 2500 spettatori, i due terzi in
sala sino alla mezzanotte hanno applaudito calorosamente.
A Venezia, la bella regia di Denis Krief legge Parsifal come un testamento.
È indubbiamente un testamento musicale che Wagner fu in grado
di affrontare solamente dopo avere rivoluzionato il pentagramma. È anche
un testamento religioso in cui – ha scritto Giuseppe Sinopoli – «il tema
della purificazione si ripete circolarmente: dai flauti agli oboi, agli archi».
È soprattutto un testamento politico: il Castello del Graal, e la vittoria di
Parsifal su Klingsor, sono l’avamposto dell’Europa della trascendenza (ancora
una volta la preistoria dello spirito) in un mondo dominato dall’immanenza
(allora dal positivismo avanzante) – un avamposto dove si combatte,
e si vince, unicamente con la rinunzia individuale, nonché con la perdita
dell’innocenza prendendo conoscenza del peccato ed infine con l’acquisizione
della «saggezza» tramite la «pietà». Se c’è un lavoro in musica che
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 181
meglio di altri rappresenta le radici cristiane dell’Europa, questo è, nell’edizione
veneziana, Parsifal.
Veniamo ai rapporti tra Wagner e Venezia. Wagner morì a Venezia, a
Palazzo Vandremin-Calegi (ora sede del Casinò) il 13 febbraio 1883; il giorno
successivo appena un breve necrologio sulla stampa locale. Ci sono antiche
immagini della gondola che porta i suoi resti alla ferrovia, da dove
partirono per Wahnfried, la villa a Bayreuth dove riposano ancora. Venezia
è stata una delle prime città italiane – Bologna batté tutte di poche ore – a
mettere in scena Parsifal nel 1914. A Venezia è stato allestito uno degli ultimi
Parsifal realizzati in Italia (non importati da teatri stranieri) nel febbraio1983.
Un velo di misericordia, unito ad amor di Patria, ci induce a rimuovere
dalla memoria quello realizzato alla Scala nel 1993. A Venezia nel 1989,
Giuseppe Sinopoli diresse uno dei suoi Parsifal più belli e più filosofici.
Wagner adorava Venezia. Vi compose Tristan in quel Palazzo Giustiniani:
oggi una foresteria per musicofili dove alloggia il vostro chroniqueur quando
è nella città lagunare. Nel marzo 2005, a poche settimane dell’inizio
delle prove, Viotti, che nell’arco di pochi anni ha rivoluzionato la qualità
dell’orchestra della Fenice, è morto prematuramente ed all’improvviso; nel
corso delle prove Ian Storey, che avrebbe debuttato nel ruolo, è parso non
in grado di padroneggiare la parte. Vengono chiamati un veterano ungherese
della concertazione wagneriana Gabor Ötvös e un tenore americano
giovane e poco noto in Italia, Richard Decker. Lo spettacolo va in scena.
L’allestimento di Denis Krief pone l’accento sulla matrice buddista, oltre che
cristiana, del lavoro; ci spiega anche i numerosi nudi in scena. Ötvös da una
lettura puntuale della partitura (il primo atto dura un’ora e 45 minuti esatti
come volle Wagner). Di grande livello le voci: Richard Decker è un Parsifal
svettante, Doris Seffel una Kundry sensuale e tormentata, Wolgang Schöne
è ancora l’Amfortas che ci appassionò 40 anni fa, Matthias Hölle un Gurmenantz
solido. Si entra in teatro alle 17.30; anche troppo brevi i due intervalli;
lo spettacolo termina alle 23 circa; ciononostante, alla prima ci sono
state dieci chiamate ed oltre 15 minuti di applausi.
Un’ultima notazione. Quando ero adolescente, in Italia, ed in particolare
a Roma, Parsifal si ascoltava prevalentemente nell’edizione in versione
ritmica italiana (tagliata ma disponibile anche in dischi) diretta da Tullio
Serafin e con Maria Callas nel ruolo di Kundry. Il Maestro Lovro von Matacic
cominciò negli anni Sessanta ad eseguirlo in versione integrale ed in
lingua originale. Diventò compagno abituale delle mie Settimane Sante da
quando, all’inizio degli anni Settanta, uscì l’edizione stereofonica diretta da
Georg Solti, un vero prodigio (anche tecnologico) per l’epoca, seguita a
ruota da quelle di von Karajan e Boulez. Il terzo atto di Parsifal si svolge il
182 Giuseppe Pennisi
Venerdì Santo: celebra, con la purificazione, anche la rigenerazione primaverile
della natura.
Lohengrin è stata la prima opera di Wagner rappresentata in Italia, nel
tardo autunno del 1871 (a oltre vent’anni dalla sua composizione e dalla
prima esecuzione nel piccolo teatro di Weimar). Verdi era in uno dei palchi;
la ascoltò con attenzione; alla stazione ferroviaria (in attesa del treno per
Parma e Busseto) incontrò il giovane Arrigo Boito (entusiasta mentre il
buon Peppino era piuttosto perplesso, pur se ne recepì alcuni aspetti nei
suoi lavori successivi). Lohengrin è, dopo Der Fliegende Holländer, l’opera
di Wagner più rappresentata in Italia, sino a tempi recenti in una traduzione
ritmica. L’intreccio potrebbe sembrare quello di un «grand opéra padano
», allora in sviluppo. La vicenda si svolge a Anversa, nel Brabante (quindi
a rigor di geopolitica al di fuori della Germania). Enrico I di Sassonia
(detto l’Uccellatore) vi si è recato per arruolare i brabantini contro una
possibile invasione barbarica, allo spirare di un patto novennale di tregua
con gli ungaro-unnici. Wagner si attarda sulle indicazioni di scena (e sui
costumi): compatti i sassoni e gli altri tedeschi (tutti con le stesse uniformi
e gli stessi stendardi), divisi in clan (ciascuno con la propria uniforme ed il
proprio stendardo) i brabantini (che hanno appena perso tanto la loro guida
quanto il di lui erede).
La richiesta di Enrico I è accolta con freddezza dai vari clan, sino all’arrivo
di Lohengrin, il quale accetta di essere loro «protettore» (non «duca»
come i brabantini richiedono), e al suo deciso appoggio alla difesa contro
la minacciata invasione. È soprattutto scelto, in seguito a un «giudizio di
Dio» (un duello contro il generale brabantino Telramondo) come sposo di
Elsa, figlia del duca di Brabante e ingiustamente accusata dalla moglie di
Telramondo, Ortrude, di avere ucciso l’erede al trono, Goffredo. Lohengrin
è venuto da «una terra lontana» e non se ne conosce neppure il nome. Anzi,
il patto per la difesa di Elsa e dei brabantini è quello di non chiedergli
mai chi è e da dove viene. È nella «terra lontana» (il Castello del Graal) che
il cavaliere ritorna quando, spinta dai subdoli inganni di Ortrude, Elsa gli
pone le domande fatali. Lohengrin parte ma Goffredo riappare: era stato
trasformato da Ortrude nel cigno che trainava la navicella dell’eroe.
La direzione musicale e la regia di Gustav Kuhn mettono in rilievo
come in Lohengrin s’intrecciano, mirabilmente, vari elementi, ciascuno
appartenente a un universo musicale differente, benché legate da un continuo
flusso orchestrale dove dominano gli archi: a) il contesto storico dell’unità
dei popoli tedeschi di fronte all’invasione (diatonico quasi sino allo
spasimo); b) il contrasto tra varie declinazioni del Cristianesimo (e la visione
lontana del Santo Graal e della Verità), dei sassoni e dei brabantini e il
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 183
paganesimo di Ortrude e Telramondo, il soprano, o mezzosoprano, perfido
e il baritono (denso di anticipi cromatici); e c) l’incapacità di Elsa, soprano
lirico, di trasformare in vero amore il suo innamoramento per Lohengrin
(con tratti ancorati allo Spontini del periodo prussiano) e di assimilare a
pieno la Verità. Sino agli anni Sessanta, l’opera veniva messa in scena come
una storia d’amore con uno sfondo storico. Solo più di recente è stata data
centralità agli aspetti politici, psicologici e religiosi del lavoro.
Ho ricordato che la religio è il fulcro dell’opera. I brabantini sono cristiani,
ma di conversione relativamente recente. In Brabante, il Cristianesimo
convive con vecchie forme di «paganesimo», quelle praticate (con magie,
filtri e l’insinuazione del dubbio rispetto alla Verità); secondo ricerche storiche
recenti, il normanno Re Nollo, dopo essersi convertito, faceva grandi
donazioni alle chiese cristiane, ma sacrificava i cristiani prigionieri agli dèi
pagani; nella sala del trono di Re Redwald (padre di Ortrude) c’erano due
altari, uno più grande per la messa, e uno più piccolo per offrire sacrifici ai
demoni. La stessa, pur purissima Elsa, il soprano lirico di stupenda e struggente
virtù, diventa, nella prima scena del terzo atto, spergiura scatenando
il dramma conclusivo. La regia pone l’accento sulla giovinezza (Lohengrin)
alla ricerca della verità all’interno di una società complessa.
Sotto il profilo musicale, l’orchestra (oltre la metà sono giovani italiani)
e il coro (supportato quest’ultimo dalle voci bianche della Parrocchia di Erl)
danno un’ottima prova. In secondo luogo, un cast internazionale in cui prevalgono
le due protagoniste femminili: Susanne Geb (la purissima Elsa) e
Mona Somm (la perfida Ortrude seguace della magia nera del paganesimo
teutonico). Ferdinand von Bothmer ha un buon timbro e ha retto bene il
difficilissimo terzo atto. Thomas Gazheli è efficace nella parte di Telramondo
(marito fellone d’Ortrude). Di rilievo Andrea Silvestrelli nel ruolo del Re.
Nel nuovo allestimento palermitano sia Hugo De Ana (regia, scene,
costumi e luci) sia Günther Neuhold (direzione musicale) seguono con
cura le indicazioni di Wagner (preziose quelle per il debutto a Monaco e
per la prima italiana a Bologna). Wagner era non un grande ma un grandissimo
uomo di teatro e proprio con Lohengrin diede corpo alle proprie idee
in materia di riforma di teatro in musica. I «tempi» musicali sono quali
prescritti nella partitura. Tanto per le restrizioni finanziarie quanto per il
progresso tecnologico, viene utilizzata una scena unica. Grazie ad un abile
gioco di luci e di proiezioni, andiamo dalla nebbiosa pianura d’Anversa
alla Cattedrale per le nozze tra Lohengrin ed Elsa, alla stanza nuziale. Non
mancano i duelli ed, ovviamente, la navicella trainata da un magico cigno
bianco. È un allestimento tradizionale. Ciò può non piacere a chi è alla ricerca
dell’innovazione in qualsiasi nuova produzione.
184 Giuseppe Pennisi
Sotto il profilo musicale, l’orchestra ed il coro (supportato quest’ultimo
dal coro Orpheus di Sofia) danno un’ottima prova, applaudita dal pubblico
palermitano meno del meritato. Nel cast internazionale prevalgono le due
protagoniste femminili: Martina Serafin (la purissima Elsa) che canta regolarmente
il ruolo a Vienna ed in Germania, e Marianne Cornetti (la perfida
Ortrude seguace della magia nera del paganesimo teutonico). Zoran Tedorovic
è un tenore spinto serbo avvezzo al repertorio verdiano. Ha un buon
timbro ed ha retto bene il difficilissimo terzo atto. Sergei Leiferkus è efficace
nella parte di Federico (marito fellone d’Ortrude). Vocalmente, i
punti deboli: il Re ed il Messaggero.
Il Lohengrin che ha inaugurato la stagione 2012-2013 del Teatro alla
Scala si basa su una lettura innovativa, e provocatoria, annunciata da
Ronny Dietrich (drammaturgo) e Claus Guth (regista) in interviste e conferenze
stampa nelle settimane che hanno preceduto la prima dello spettacolo.
In effetti, nonostante le ovazioni a Barenboim, all’orchestra, ai
cantanti e al coro (che in Lohengrin è protagonista), nel pubblico e ancor
di più tra i critici in sala, sono serpeggiate forti perplessità sull’allestimento
scenico e sulla drammaturgia. Guth è un regista apprezzabile: è stata di
alto livello la sua trilogia Da Ponte-Mozart a Salisburgo (soprattutto Le
nozze di Figaro) così come la sua lettura Die Frau ohne Schatten di Richard
Strauss alla Scala nella stagione 2011-2012. Tuttavia, quello presentato il
7 dicembre nella Sala del Piermarini è un Lohengrin per iniziati: pochi
sanno, per esempio, che la scena firmata da Christian Schmidt rappresenta
il cortile di casa Wagner, denso di traumi e di rapporti familiari molto
tesi. La chiave di lettura, poi, si svela unicamente al terzo atto dopo oltre
tre ore in teatro: pone l’accento sulla psicoanalisi coeva della Die Frau
ohne Schatten ma distante anni luce dalla poetica di Wagner. Per Guth e
Dietrich, Lohengrin ed Elsa sono due altèri o outsider in un mondo di
capitalismo nascente che essi non comprendono, che non li comprende e
che porta alla tragedia finale. La recitazione è accuratissima e ogni mossa
è studiata, sebbene sembri naturale. Nel complesso dunque la regia non è
banale ma resta oscura per molti spettatori.
Inoltre in Wagner Lohengrin non tratta soltanto di rapporto di coppia.
Nella «grande opera romantica in tre atti», Elsa e il Cavaliere del Cigno non
riescono a comunicare, fin dalla prima notte di nozze, poiché mancano di
reciproca fiducia. Nella lettura di Guth e Dietrich, la mancanza di fiducia
(ossia le domande di Elsa al Cavaliere) trasformano in coitus interroptus
un forte rapporto erotico, difficile da concepire per un sacerdote del Graal.
Altri due elementi fondanti sono il contesto storico (l’alleanza dei popoli
tedeschi per respingere invasioni dall’Est) e i primi passi del Cristianesimo
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 185
in un mondo ancora pagano. Questi due aspetti vengono ignorati da Guth
e Dietrich ma non dalla partitura.
Di grande livello la parte musicale. Fin dalle prime battute dell’ouverture
Barenboim dà un’interpretazione lenta, solenne, quasi mistica del lavoro
che fa risaltare ancora di più l’inizio «agitato» del terzo atto (quando
stringe i tempi per preparare la tragedia finale). Jonas Kaufmann è un perfetto
protagonista, costretto a equilibrismi d’atleta (canta steso per terra
l’aria iniziale, volgendo le spalle al pubblico e alzandosi lentamente fino a
guardare la platea), ha un legato dolcissimo, un fraseggio da manuale e, nel
racconto finale, sale lentamente dal «pianissimo» all’acuto. Unicamente
Evelyn Herlitzius è alla sua altezza. Buoni i due soprano che si alternano
nel ruolo di Elsa, più dolce Ann Petersen e più sensuale Anja Harteros.
Ambedue ammalate, il 7 dicembre sono state efficacemente sostituite da
Annette Dasch, giunta di corsa dalla Germania. René Pape è ancora un
efficace Re Enrico. Il cattivo Federico Telramondo è un Tómas Tómasson
agli scatti finali di una gloriosa carriera. Merita elogi il coro scaligero che,
guidato da Bruno Casoni, ha dato il meglio di sé in un ruolo complesso,
denso di passaggi impervi.
Poche le buone edizioni recenti di Tannhäuser. Francamente mediocri
le due apparse a Roma, una negli anni Ottanta ed una nel 2009, nonché
quella presentata circa dieci anni fa a Napoli ed a Palermo. Da qualche
anno Tannhäuser non porta bene alla Scala. Nel 2005, l’allestimento
Tate-Curran lasciò il pubblico alquanto freddo. Nel 2010 l’edizione Mehta-
La Fura lo ha lasciato perplesso, nonostante lo spettacolo salutasse il ritorno
di Zubin Mehta nella fossa del Piermarini per dirigere un’opera
dopo oltre trent’anni.
Del lavoro esistono due versioni principali: quella di Dresda del 1843
(molto tersa e compatta) e quella di Parigi del 1861 (cromatica) rivista, dopo
alcuni mesi, per Vienna. I due Tannhäuser sono opere profondamente
differenti nella concezione drammatica e nella partitura. Tranne poche modifiche
(il balletto richiesto da l’Opéra e proposto come «baccanale» all’inizio
del lavoro, invece che al secondo atto, come da prassi), il testo di arie, recitativi,
sestetti non è cambiato (Tannhäuser precede Lohengrin, ed è una
«opera romantica» in senso stretto). Nel 1842-45 Wagner era un buon luterano,
fedele alla moglie Minna (con cui aveva condiviso molte ristrettezze
prima di approdare al «posto» a Dresda) e lavorava per la puritana Corte di
Sassonia. La vicenda del bel menestrello fuorviato dal piacere della carne,
del suo pentimento e del perdono divino era un apologo edificante, con una
partitura rigorosamente diatonica in cui vere e proprie «canzoni» venivano
inserite nel flusso orchestrale. Nel 1860, invece, non soltanto Wagner era
186 Giuseppe Pennisi
stato costretto ad aggiungere il balletto dalla direzione del Tempio lirico
parigino, ma conduceva un’esistenza sessuale quanto meno distinta e distante
da quella che avrebbe dovuto seguire un buon luterano. Aveva abbandonato
Minna, dopo averla tradita con varie ninfette e veline ante litteram,
stava per portare via la moglie al proprio benefattore (l’industriale tessile
svizzero Wesendock), aveva un ménage à trois con Cosima Listz ed il di lei
marito (il suo direttore d’orchestra favorito von Bülow), anzi à quatre (perché
nel letto di Cosima finiva spesso l’allora giovanissimo Hermann Levi, che
qualche anno dopo, dato un «ben servito» a von Bülow, ne avrebbe preso il
posto come direttore d’orchestra favorito di casa Wagner).
Il tutto accompagnato da un fiume inarrestabile di denaro, proveniente
dai suoi benefattori. Chi non ha il tempo o voglia di leggersi le monumentali
biografie di Wagner (la più nota è in ben sei volumi) trova il tutto
in un piacevole libro di 150 pagine (Vincenzo Ramón Bisogni, Richard
Wagner – Das Rheingold, un fiume di denaro, Zecchini Editore). Questa
vita complicata si rispecchia a pieno nella «versione di Parigi» del lavoro:
Venere non è un genio del male da bordello (il Wagner trentenne, li frequentava,
nonostante avesse continui complessi di colpa dato che voleva
essere fedele a Minna), ma una donna appassionata e sinceramente innamorata
del menestrello, disposta a tutto pur di tenerlo nel suo letto, nel
primo atto, e riportarcelo, nel terzo. La partitura, inoltre, è intrisa di cromatismi,
quelli con cui in Tristan und Isolde aveva gettato il germe della
musica contemporanea. Buon senso consiglia di scegliere. Nel 2009 a Roma
si è vista e ascoltata la versione di Parigi quale riadattata, in tedesco,
per Vienna. Alla Scala è in scena una versione ibrida, detta «di Monaco
1994», in cui, essenzialmente, si sostituisce la parte iniziale della «versione
di Dresda» per introdurre il baccanale della «versione di Parigi». Tra
macchine sceniche, proiezioni e mimi, viene offerto un vero e proprio Bignami
delle posizioni erotiche per ogni genere, gusto e tendenza. Anche se
i mimi non sono nudi ma coperti da una guaina per non incorrere in divieti,
dato che in scena ci sono anche minori, a cominciare dal pastorello.
Sarebbe stato necessario un divieto non solo per porre una moratoria alle
proiezioni computerizzate, che a volte distolgono dalla musica, ma anche
per stoppare fellatio e sodomia in scena. Non tanto per moralismo, quanto
perché ormai sono il vetusto del vetusto. Ove ciò non bastasse, la vicenda
è spostata dalla Turingia medievale a un Rajasthan visto con gli occhi
dei film di Bollywood: in breve, più Mother India che Mahabaharata
nell’indimenticabile versione di Peter Brook. Quindi un Rajasthan da pubblico
poco colto e molto confuso. Ma non è finita. Nell’ultima scena, sulle
lenzuola stese ad asciugare da volenterose lavandaie, appare un filmato in
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 187
bianco e nero di Papa Giovanni Paolo II in India: la sua benedizione scaccia
la voluttuosa Venere dai pensieri del protagonista, che, dopo avere
tanto peccato, muore redento. In breve, «la grande opera romantica in tre
atti» ridotta a un film parrocchiale di quelli che si vedevano oltre mezzo
secolo fa in provincia.
E la parte musicale? Zubin sembrava dirigesse con il braccio destro
legato dietro la spalla: in breve, tempi lunghi e suono incolore (con ottoni
bandistici). Non occorre dare al concertatore tutte le responsabilità. Cercava
di coprire i difetti di alcuni cantanti: il protagonista Robert Dean Smith,
che in difficoltà con gli acuti, puntava tutto sul registro di centro e Roman
Trekel (Wolfram) con una bella voce baritonale, ma un volume piccolo e
schiacciato, nel concertato alla fine del primo atto e in tutto il terzo atto,
da Georg Zeppenfeld nel ruolo del Langravio. Meglio le due protagoniste
femminili: Anja Harteros conferma di essere una dei migliori «soprani assoluti
» su piazza, in grado di fare apprezzare lo spettacolo anche se mascherata
da Sonia Gandhi; Julia Gertseva in grado di supplire con avvenenza e
recitazione a qualche piccola carenza.
Si è potuto invece scegliere tra buone edizioni di Der fliegende Holländer,l’opera
di Wagner più rappresentata in Italia; se ne contano circa 80 allestimenti
di cui 20 nel periodo 1877 (prima italiana di Lohengrin) ed il 1949
e circa 65 dopo il 1950. Nell’anno par excellence delle celebrazioni verdiane
– la stagione 2000-2001 – se ne videro ed ascoltarono, quasi a mò di
legge del contrappasso, addirittura tre allestimenti in otto dei maggiori teatri
lirici italiani. Le ragioni sono molteplici: è relativamente breve (due ore
e mezza di musica), ha un impianto weberiano «a numeri chiusi» (otto
principali, suddivisi in un totale di 22, intermezzi compresi) su una struttura
abbastanza simile a quella dei melodrammi italiani, non richiede una
messa in scena complessa – tanto che sta prendendo la prassi di eseguirla,
come desiderato da Wagner, come atto unico i cui cambi scena vengono
accompagnati dagli interludi.
All’Opera di Roma Holländer è tornato nel 2005 dopo sette anni di
assenza. L’allestimento precedente (nel 1997) era una riedizione di quelli di
Wieland Wagner degli anni Settanta, aveva un suo fascino, ma era datato.
Nel 2005, invece, la Fondazione ha regalato una messa in scena al tempo
stesso controversa (alla prima ci sono stati fischi diretti alla regia, alle scene
e ai costumi di Ulderico Manani) ed affascinante. Si è optato per la versione
in tre atti, essenzialmente per permettere al pubblico di vedere e farsi vedere
nel foyer durante i due intervalli; è scelta legittima (ha prevalso in Italia
sino a tempi recentissimi) anche se discutibile (in quanto interrompe il flusso
dell’unità musicale). La scena è unica e ricorda quelle delle edizioni di
188 Giuseppe Pennisi
Bayreuth del 1971-1975, con regia, scene e costumi di August Everding
(immortalate nelle foto che accompagnano il cofanetto di una registrazione
live della Deutsche Grammophone): uno scafo unico che di volta in volta
diventa fiordo, casa di Daland, porto e nave. A differenza dell’impostazione
freudiana di Everding, la lettura di Manani è improntata al simbolismo postmoderno.
Un lungo viaggio – ciò spiega le valigie – di ciascuno di noi verso
il proprio destino; per Senta e per l’Olandese è trascendente, per Erik e per
il timoniere è di carnalità terrena; per Daland alla ricerca del quattrino; per
quasi tutti gli altri verso la mediocrità. Come in alcune recenti regie di Peter
Mussbach (si pensi al Moses und Aron alla Staatsoper unter den Linden a
Berlino), il coro è testimone immoto fuori scena.
Oleg Cassini dirige con tutto il fuoco che richiede «un’opera romantica
» (così la chiamò il ventinovenne Wagner). L’allestimento ci ha riservato
una scoperta: l’ampio registro della giovane e bella Anna-Katharina
Behnke, giunta all’ultima ora a sostituire le due soprano in cartellone per
il ruolo di Senta. È sulle scene europee da qualche anno ed ha già cantato
a Trieste ed agli Arcimboldi. Ci ha dato una Senta a tutto tondo. Frantz
Grundheber è un Olandese aitante e tormentato, dal timbro scuro, ed
agilissimo nei fraseggi e nei legati da rendere struggenti i due duetti con
Senta. Keith Olsen un Erik tradito bari-tenorile. Bjarni Kristinsson rende
Daland una macchietta.
Di livello anche l’edizione presentata al San Carlo nel 2003, densa
della passione (tutta italiana) con cui Gabriele Ferro ha diretto l’orchestra
scovandone anche le bellezze più arcane (che meraviglia l’eco dei timpani
nel finale Daland-Senta – del secondo quadro). Intelligenti le scene coloratissime
ed astratte, su un impianto fisso con praticabile, di Valerio Adami
(uno dei nostri maggiori pittori contemporanei per la prima volta alle prese
con un’opera lirica). Vi si giustappongono i costumi di Francesco Zino
imperniati sul grigio e sul bianco. Efficace, ma senza grandi innovazioni, la
regia di Jorge Lavelli: punta all’equilibrio tra il dramma privato della vicenda
ed il suo significato di mito universale.
Albert Dohmen è un Holländer tormentato, dal timbro scuro, ed agilissimo
nei fraseggi e nei legati da rendere struggenti i due duetti con la Senta
umanissima di Elisabete Matos (che ha retto la difficile parte nonostante una
forte influenza). Daland è Walter Fink, un vero e proprio veterano del ruolo;
ne tratteggia i lineamenti borghesi (e venali) e l’incapacità di comprendere
quanto sta avvenendo intorno a lui. Walter Pauritsch è un Erik innamorato
e passionale con una bella voce che sta maturando dal tenore leggero a ruoli
«spinti». Un’ultima notazione: il breve ma cruciale ruolo del timoniere: nel
2000 a Bologna (altra buona edizione ripresa nella stagione 2013) scoprim-
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 189
mo il ventitreenne Vittorio Grigolo (oggi sulla cresta dell’onda); al San
Carlo, scoprii nello stesso ruolo Jorg Schneider che con la stessa splendida
voce, qualche chilo di meno ed un po’ di agilità scenica in più è stato David
nel Die Meistersinger che Mehta ha diretto al Maggio Fiorentino 2004.
Il Ring ossia la vittoria della modernizzazione occidentale
In occasione del bicentenario – si è detto – si vedranno in Italia due
versioni complete del Ring. La produzione di Milano è a mezzadria con la
Staatsoper unter der Linden di Berlino. Concerta Daniel Berenboim e se ne
sono viste le prime tre opere; due edizioni intere delle quattro opere si vedranno
in giugno. A Palermo è in programma un intero nuovo allestimento
della tetralogia. Sul Ring si sono scritti decine di volumi.
Il Ring può essere interpretato in vari modi: una favola moralistica sulla
maledizione associata al denaro visto come «sterco del demonio»; un rilancio
della mitologia nordica per contrastare quella latina e slava che dominavano
le arti nel romanticismo tedesco; una cosmogonia della storia universale
(dalla nascita alla fine del mondo), una critica dell’industrializzazione trionfante
e del capitalismo. E via discorrendo. Queste varie letture hanno spesso
dimenticato che Wagner era un luterano credente e praticante, pur se interessato
al buddismo, specialmente negli ultimi anni della vita. In linea con
altre sue opere, Wagner mette nel Musikdrama anche un forte spirito cristiano:
il «crepuscolo» per l’appunto dei vecchi dèi di fronte alla «redenzione
tramite l’amore», il tema che appare brevemente nel terzo atto della «prima
giornata» e domina il finale della «terza» del Ring, e, quindi, della tetralogia.
Con i «vecchi dèi» finisce anche il mondo oscuro e poco trasparente di nani,
giganti, prìncipi (se si vuole) incestuosi, re corrotti e via discorrendo. Le
fiamme che distruggono il Walhala, il Palazzo dei «vecchi dèi» costruito con
l’imbroglio (ove non con una vera e propria frode) vengono spente dalle
acque del Reno che straripa, distruggendo la reggia di una famiglia reale
corrotta. E portando, con la modernizzazione, un mondo migliore.
Dal 1876 al 1940 circa, le realizzazioni sceniche erano tra il favolistico
ed il realistico; lo sono rimaste ancora in edizioni viste nell’ultimo quarto
di secolo a Bologna, Catania, Bari, Torino, Venezia ed alla stessa Scala,
nonché in quelle (altamente tecnologiche) di Firenze-Valencia, di New York
(sia quella di Günter Schneider-Siemssen che ha dominato il Met per trent’anni
sia quella di Robert Lepage per la quale è stato interamente rifatto il
palcoscenico del teatro) e di Seattle (dove ogni estate vengono presentati
uno o più cicli dell’intero Ring).
190 Giuseppe Pennisi
Fu nel secondo dopoguerra che si affermarono altre interpretazioni: da
quelle di Wieland Wagner (basate sui princìpi di Adolphe Appia che già
negli anni Venti aveva teorizzato e sperimentato il «teatro totale» con scene
solo di giochi di luci e costumi atemporali) di cui vidi un intero Ring (spalmato
su una settimana) a Roma nel 1961. Per certi aspetti si riallaccia a
questo filone la mirabile produzione di Aix-en-Provence e Salisburgo (con
la regia di Stéphane Braunschweig e sir Simon Rattle alla guida dei Berliner
Philharmoniker nella buca d’orchestra: una lettura astratta ma umanissima
con una scalinata, un occhio in cima alla scale (del vecchio dio? o di quello
nuovo? L’interrogativo resta senza risposta) e scarne eleganti proiezioni
e costumi in gran misura attuali. In breve, l’umanità alla ricerca del denaro
e del potere deve lasciare i vecchi miti (ed i vecchi dèi) per costruire il
nuovo. Edizione mirabile di cui non esiste né un DVD né un CD.
Una terza lettura è storico-politica: la lanciarono Patrice Chéreau e
Pierre Boulez nel Ring del centenario della prima rappresentazione integrale
a Bayreuth nel 1976-1980 (ne esiste un ottimo DVD), la proposero a
Firenze nel 1978-1981 (che era stata respinta dalla Scala) Ronconi, Pizzi e
Mehta nel 1978-1981 (non ne resta che un album fotografico). Ispirò Ruth
Berghaus a Berlino negli anni Ottanta. Molto interessante la versione
storico-
politica di Robert Carsen: l’azione è situata in una Germania protonazista
(quasi ispirata a La Caduta degli Dei di Luchino Visconti) e, quindi,
il messaggio è trasparentissimo. Ci sono anche versioni ironiche (quale
quella di Vick a Lisbona e di Kuhn al Festival del Tirolo – dove è di nuovo
in cartellone per il 2014).
Questo i filoni principali. La mia preferenza principale è per quello
che da Appia arriva a Braunschweig. Ho molto apprezzato le versioni
«politiche» di Chéreau e Ronconi-Pizzi. Non conosco quella della Berghaus
(allora non si viaggiava facilmente a Berlino specialmente se si era residenti
degli Stati Uniti).
Alla Scala ed a Berlino la regia e l’allestimento scenico sono affidati a
Guy Cassiers ed alla sua équipe teatrale Toneelhuis. In altra sede, sia italiana
sia internazionale, ho sottolineato il mio apprezzamento per gli aspetti
musicali di una produzione (di cui ho visto ed ascoltato tre delle quattro
puntate) e le mie perplessità, ove non dissenso, nei confronti della drammaturgia
di Cassiers ed associati, che, nonostante l’ottima recitazione dei
35 cantanti richiesti, mi è parsa priva di un concetto unitario, affollata di
elementi inutili (mimi, ballerini) e con una scenografia fondamentalmente
triste (dominano i grigi ed i viola) e priva di mordente. L’équipe di Toneelhuis
ha avvertito l’esigenza di scrivere un saggio di cinquanta (50) pagine
per chiarire (al pubblico e forse anche a loro stessi) il significato della dram-
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 191
maturgia; se si ha tale esigenza, sorge il dubbio che qualcosa non quadri.
In estrema sintesi, per Cassiers oggi le quattro opere vanno lette come una
denuncia della globalizzazione finanziaria ed un appello per limitarla con
Tobin Tax e difesa dei prodotti nazionali. In questo quadro Siegfried è un
punk-beast (pensavo che fossero passati di moda). Occorre scegliere una
strada e perseguirla con rigore: cosa che non fa Cassiers. Quindi, il suo Ring
no gobal resta di ardua comprensione, anche dopo la lettura di 50 pagine
di spiegazione. Una versione riduttiva di uno dei grandi capolavori della
cultura occidentale.
Molto più complesse le letture musicali. Dal vivo ho avuto modo di
ascoltare due volte quelle di von Matacic e di Mehta (ambedue la seconda
a circa trent’anni di distanza dalla prima) e quella di Sinopoli (la seconda,
in cui a ragione della morte del direttore, con un differente concertatore per
la quarta opera, a circa quindici anni di distanza dalla prima). Molte altre
ne ho ascoltate registrate o in dirette cinematografiche ad alta definizione.
Impossibile, nell’ambito di un articolo, passare in rassegna queste ed altre
esecuzioni dando conto anche dei numerosi interpreti (spesso, in uno stesso
Ring, alcuni ruoli cambiano interprete – segnatamente quelli di Siegfried
e Brünnhilde – tra la terza e la quarta opera).
In breve le esecuzioni di von Matacic e di Sinopoli, pur molto differenti
tra di loro, non hanno mostrato sostanziali differenze nel corso degli
anni: meticolosa ed attenta la direzione musicale di von Matacic, fortemente
filosofica (quasi astratta) quella di Sinopoli. Profonde invece le differenze
nella direzione di Mehta, ambedue le volte con i complessi del Maggio
Musicale Fiorentino, a cavallo tra fine degli anni Settanta e l’inizio degli
anni Ottanta e tra il 2007 ed il 2009. Altamente drammatica e fortemente
concitata la prima, caratterizzata da lirismo trasparente e lirismo struggente
la seconda. Sulla differenza ha forse influito la contiguità del Ring fiorentino
degli anni Settanta-Ottanta con quello proposto da Chéreau e Boulez
a Bayreuth nel 1976-80, una lettura (si è accennato) fortemente politica
a cui la bacchetta di Boulez sveltiva i tempi quasi finendo le quattro opere
con una rapida stretta proprio sul tema in re bemolle maggiore che, ascoltato
brevemente nel secondo atto della seconda giornata, conclude il lavoro
con l’annuncio dell’arrivo di un mondo migliore.
Posso raffrontare il Barenboim dal vivo nelle prime tre opere con quello
inciso in occasione dell’esecuzione della tetralogia a Bayreuth nel 1991;
i tempi si sono dilatati, la lettura si è fatta più solenne.
Negli ultimi anni comunque, a mio avviso, l’interpretazione migliore
ascoltata dal vivo (sotto il profilo che più interessa in questo articolo) è
quella di Stéphane Braunschweig e sir Simon Rattle per i Festival di Aix-
192 Giuseppe Pennisi
en-Provence e Salisburgo. Nonostante spalmata su quattro anni e con gli
stessi personaggi a volta affidati a interpreti differenti al passare da un’opera
all’altra (ed anche da Aix a Salisburgo per la medesima opera), l’intesa
perfetta tra il regista e la direzione musicale ha tracciato un nuovo percorso:
con elementi scenici essenziali, una grande orchestra sinfonica e sir
Willard White in redingote nel ruolo di Wotan (nonché interpreti di altissimo
calibro in tutte le altre parti): mostra il Ring come cammino dell’umanità
verso la modernizzazione in cui lo stesso accordo il re bemolle maggiore
viene eseguito non come tema della «redenzione tramite l’amore» delle
vecchie guide di Max Chop ma come il senso del cammino verso un progresso
ispirato a sempre maggiore tolleranza e trasparenza.
Di grande livello anche quella di Kuhn che incorpora le innovazione di
von Karajan (che si possono ascoltare nella registrazione del 1966-1970
ancora in catalogo) ma ne smussa l’impianto epico e la molteplicità di piani
sonori (e di sfumature) in orchestra (specialmente nelle descrizioni della
natura). Kuhn – si badi bene – esegue il Ring in quattro giorni e lo ha anche
offerto in poco più di 24 ore, iniziando il prologo la mattina alle 10, la
prima «giornata» dopo pranzo, la «seconda» dopo cena e la «terza» alle 8
della mattina seguente dopo sei ore di pausa per il riposo di orchestra, interpreti
e spettatori.
Per chi può ascoltare il Ring unicamente in CD, ancora oggi la versione
da raccomandare è quella di Georg Solti per la Decca, registrata nel 1958-
1965, un vero prodigio di stereofonia, di cast, di orchestra ad oltre cinquant’anni
di distanza mai eguagliato e per questo ancora in catalogo. È
stata senza dubbio studiata da Sir Simon Rattle per il taglio umano e per il
senso del progresso che ha l’interpretazione. Per chi infine cerca una versione
«storica» con un forte senso epico, attenzione a scegliere bene tra i
due Ring diretti di Wilhelm Furtwängler, nel 1950 e nel 1953. Il primo,
chiamato La Scala Ring è una registrazione dal vivo in teatro con un’acustica
che lascia a desiderare; il secondo, chiamato RaiRing registrato
nell’auditorium
della Rai al Foro Italico a Roma, rappresenta il meglio che
la musica registrata potesse esprimere a livello mondiale grazie a tecnici
della Rai e dell’ottima orchestra che la Rai aveva a Roma. La lettura, però,
resta convenzionale – tra il mitologico e l’epico.
Una notazione finale
A duecento anni dalla nascita ed a 130 della morte, ho avuto la sensazione
anche fisica della trasparenza occidentale di Wagner quando ho assi-
Wagner ovvero la trasparenza dell’Occidente 193
stito a rappresentazioni del Ring e di Tristan und Isolde per studenti. A
ciascuno di loro Wagner «l’oscuro» era chiarissimo. Come lo era alla piccola
comunità di Erl del Tirolo, partecipante attiva di un Ring in quattro
giorni ed anche di un Ring in 24 ore (ed un po’ di più).
Ringrazio Andrea Estero, Direttore di «Classic Voice», per gli utili
suggerimenti, e mia moglie, Patrice Poupon, per la cura nel rivedere testo
e riferimenti.
Giuseppe Pennisi
2 commenti:
http://alessiodibenedetto.jimdo.com/novita-2013/
IN OCCASIONE DEL BICENTENARIO DELLA NASCITA DI
RICHARD WAGNER (22 MAGGIO 1813, ORE 4,20)
IL ROMANZO DELLA SUA AFFASCINANTE VITA E DEI SUOI VIAGGI NEL TEMPO
http://alessiodibenedetto.blogspot.it/
http://alessiodibenedetto.jimdo.com/novita-2013/
IN OCCASIONE DEL BICENTENARIO DELLA NASCITA DI
RICHARD WAGNER (22 MAGGIO 1813, ORE 4,20)
IL ROMANZO DELLA SUA AFFASCINANTE VITA E DEI SUOI VIAGGI NEL TEMPO
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