CREDITI
IMPRESE/ Così il decreto-beffa può far chiudere le Pmi
lunedì 8 aprile 2013
L’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Decreto Legge
recante “Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della
pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti
territoriali, nonché in materia di versamento dei tributi degli enti locali”
(il cui testo, quale emendato durante la lunga seduta del CdM, è qui disponibile) deve
essere considerato, al tempo stesso, come “l’ultimo atto” del Governo Monti e
come il “suo testamento politico”. “Ultimo atto” in quanto i tempi stringono
perché l’Italia abbia un Governo: il mandato dei “saggi” (sarebbe utile che il
Quirinale smentisca le voci secondo cui ciascun “saggio” verrebbe compensato
con 100.000 euro) scade l’11 aprile ed è auspicabile che, in linea con la
prassi delle democrazie parlamentari, un nuovo Governo sia in carica prima
dell’inizio delle votazioni, il 18 aprile, per l’elezione del Capo Stato. Un
“testamento politico” perché dopo una serie di provvedimenti di austerità che
hanno portato al 52% del Pil la pressione tributaria e contributiva il Governo
fornisce una boccata d’ossigeno alle imprese e traccia un percorso perché il
prossimo Esecutivo e il Parlamento appena eletto continuino su questa strada,
facendo, però, le opportune correzioni di tiro.
Ce ne sarà bisogno. Come ha illustrato ieri su queste pagine Claudio
Borghi Aquilini, l’insieme di misure rischiano di diventare “un bluff”. Non si
tratta di un “provvedimento chiaro, semplice, veloce”, come ha annunciato, in
toni quasi da campagna elettorale, il Presidente del Consiglio nella conferenza
stampa che ha fatto seguito alla riunione del Governo.
Lo stesso comunicato emesso al termine
della seduta mostra che le misure riguardano meno della metà del
problema ove non meno di un terzo (40 miliardi su un arco di due anni invece
dei 91 miliardi accertati dalla Banca d’Italia, a cui aggiungere - ma in
materia c’è forte reticenza - circa 60 miliardi di debiti verso i fornitori del
“capitalismo municipale, provinciale e regionale”, ossia SpA controllate dagli
enti locali). Il percorso adottato poi è più complicato di altri proposti in
questi ultimi mesi, quale quello del gruppo di ricerca
Astrid coordinato da Franco Bassanini e Marcello Messori;
alternative, come quella delineata, restano a disposizione del Parlamento per
emendare ove necessario e possibile il decreto legge e del prossimo Governo per
le misure aggiuntive da adottare entro settembre.
Occorre, al tempo stesso, dare atto al Governo Monti di avere cercato di
aprire il solco di una soluzione a un problema che si trascina da anni,
incancrenendosi man mano che passava il tempo. La “brutta prassi” di ritardare
i pagamenti è iniziata con il Governo Spadolini (ben tre decenni orsono),
quando l’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta introdusse, come
strumento per controllare il disavanzo dei conti pubblici senza frenare la
crescita, la dilatazione della “competenza” accompagnata dalla restrizione
della “cassa” tramite il rinvio dei pagamenti - un marchingegno oggi non più
possibile a ragione del “bilancio di cassa” introdotto con la legge di
contabilità e finanza pubblica n. 196 del 2009.
In una prima fase, i fornitori (specialmente quelli di maggiori dimensioni)
hanno risposto tenendo conto (nei prezzi offerti nella gare per beni e servizi
intermedi della Pa) dei ritardi e, quindi, aumentando i prezzi, con danni per
tutta la collettività. A poco a poco, il problema è dilagato, anche a ragione
(Andreatta non poteva prevederlo) dei vincoli di finanza pubblica derivanti
dalla partecipazione dell’Italia al tentativo di creazione di un’unione
monetaria ancora incompleta, e ora traballante (Trattato di Maastricht, Patto
di Crescita e di Stabilità, Fiscal Compact); mentre sino alla fine degli anni
Novanta, i rinvii nei pagamenti da un esercizio di bilancio a un altro,
venivano decisi dal Ministro del Tesoro e dai suoi stretti collaboratori e
riguardavano grandi poste di grandi imprese, a poco a poco il livello
decisionale si è spostato alle singoli amministrazioni centrali dello Stato,
alle Regioni, alle Province, ai Comuni e alle loro SpA, nonché dai vertici
politici (sotto la loro responsabilità politica) ai singoli dirigenti e
funzionari.
Il Decreto introduce due innovazioni significative: un allentamento
temporaneo del “Patto di Stabilità Interno”; e responsabilità precise in capo
sia degli enti locali, sia di dirigenti e funzionari. Da prova di una buona
dose di equilibrismo del destreggiarsi con il Fiscal Compact. La procedura
scelta per definire la priorità temporale dell’erogazione è cronologica, indubbiamente
un criterio asettico ma che potrebbe essere discriminante nei confronti di chi
è in stato di maggior bisogno: le piccole e medie imprese, i corpi intermedi
della sussidiarietà - coloro, in effetti, a maggior rischio di chiusura e/o di
procedure fallimentari, nonché di essere costretti a distruggere per sempre
opportunità occupazionali. Una grande impresa può ridurre e ampliare
l’organico, mentre una piccola entità quando chiude lo fa quasi sempre per
sempre.
Ciò non può non avere implicazioni sulle conseguenze economiche in termini
di produzione di beni e servizi e di occupazione. Se in ultima istanza, le
prime e le maggiori beneficiarie saranno le grandi imprese di costruzione per
l’infrastrutturazione dell’Italia, i 40 miliardi non genereranno mezzo punto di
Pil per le ragioni da me illustrate il 6 aprile sul quotidiano Avvenire,
ma riusciranno a malapena a evitare un aggravarsi ulteriore della recessione.
© Riproduzione Riservata.
Nessun commento:
Posta un commento