Le note
stonate dei dieci “Saggi”
Scritto da Giuseppe
Pennisi il 19 aprile 2013 in L'opinione
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Musica ed economia •
Nel rapporto consegnato il 12 aprile a Napolitano non c’è una riga in materia
di cultura e musica. Viaggio nelle politiche culturali di Oriente,
Occidente e quelle italiane relative al teatro d’opera. La Storia ci insegna
che, in tempi di crisi, investire è sempre la migliore soluzione
di Giuseppe Pennisi
Non sappiamo se i “Saggi” nominati dal Capo dello
Stato per esaminare la situazione economico-sociale italiana abbiano velleità
di suonare strumenti o di esibirsi in competizioni di canto. È meglio che non
lo facciano; c’è il rischio che le loro note siano molto stonate. Il rapporto
consegnato la sera del 12 aprile non contiene un rigo sui temi e i problemi
della politica culturale e, in particolare, di quella musicale.
Questo nonostante la settantina di Conservatori
italiani producano ogni anno diplomati costretti a cercare lavoro
principalmente all’estero, le orchestre sinfoniche languiscano e la situazione
delle Fondazioni liriche (quattro su tredici commissariate) sia allo stremo.
Nel 2010, ultimo esercizio di bilancio consuntivo per il quale si dispone di
dati completi, soltanto quattro delle tredici Fondazioni liriche (teatri come
La Scala, il San Carlo, l’Opera di Roma, il Massimo di Palermo) hanno chiuso i
loro bilanci consuntivi in attivo. Leggermente migliore la situazione dei
ventotto Teatri di tradizione, finanziati principalmente dagli enti locali —
gravano infatti sul Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) unicamente per il 4 per
cento del totale — e per i quali le risorse statali sono meno della metà del
finanziamento complessivo. Sono invece imprese private, spesso del territorio,
a fornire mediamente il 24 per cento delle risorse totali per il loro
funzionamento. A fronte di tale situazione, numerosi Teatri di tradizione hanno
formato efficienti circuiti e coproduzioni per abbattere i costi: la loro
situazione debitoria è così sotto controllo, pur con qualche eccezione.
Nonostante alcune recenti inchieste giornalistiche
presentino una situazione rosea nel resto d’Europa, la riduzione dei
finanziamenti pubblici alle arti dal vivo — conseguenza delle politiche di
bilancio per contenere disavanzi e ridurre il debito pubblico — sta incidendo
anche su Paesi con profonda e diffusa cultura musicale, come la Germania. A
Berlino si discute se porre sotto un’unica gestione i tre maggiori teatri
d’opera del Land allo scopo d’effettuare economie; così anche in Francia, dove
il finanziamento pubblico ai Teatri d’opera è rimasto tendenzialmente costante
tra il 2000 e il 2009, dal 2010 sono in atto ingenti restrizioni. Negli Stati
Uniti, il quadro è marcatamente differenziato. A New York, da una parte, il
Metropolitan Opera House sta ottenendo nuovo pubblico e nuovo supporto
(privato) grazie all’utilizzazione di tecnologie avanzate che consentono
dirette in alta definizione in millesettecento cinema in tutto il mondo (sessanta
in Italia), dall’altra, la New York City Opera, travolta dai debiti, ha una
stagione di pochi titoli in sale secondarie. Ad ogni modo nel 2010 (anno di
crisi economica) negli Stati Uniti ci sono state ben dodici prime mondiali:
lavori spesso tratti da romanzi o film di successo, quali Il giardino dei
Finzi Contini, Il postino o La Ciociara di Marco
Tutino, che inaugurerà la prossima stagione della San Francisco Opera. In Asia,
prevedibilmente, il mercato è in piena espansione: sono stati completati nuovi teatri
a Pechino, Shanghai – dove è stata aperta una nuova Festival Hall con la
produzione di Otello del nostro Teatro La Fenice – Hong Kong e
Singapore; altri sono in costruzione; il pubblico, qui anche molto giovane,
gareggia per riempirli. Nella sola Cina sono in costruzione oltre cento
strutture polivalenti per opera e concerti all’occidentale: l’Oriente così
potrebbe presto diventare una meta di brain drain dei nostri giovani
professionisti formatisi nei Conservatori italiani e nei nostri Teatri di tradizione.
Qui, tra l’altro, non fanno difetto i finanziamenti, pubblici o privati.
Questa rapida carrellata ripresenta non solo gli ormai
frequenti interrogativi sui problemi delle Fondazioni liriche italiane
(caratterizzate da alti costi e bassa produttività) e su come sanarli, ma pone
domande (a cui di rado si è data risposta) sul ruolo del teatro in musica nello
sviluppo economico di un Paese. La storia economica riconosce che ci sono stati
periodi e Paesi — Venezia nel Seicento, la Gran Bretagna nella prima metà del
Settecento, Italia e Germania nel secolo successivo — in cui l’opera lirica non
era un fardello per le casse dello Stato, ma un comparto remunerativo per chi
vi investiva e che, tramite l’imposizione fiscale, questa contribuiva
notevolmente alla finanza pubblica. Di norma, però, l’impressione generale è
che «la musa bizzarra e altera» (secondo l’acuta definizione del musicologo
tedesco Herbert Lindenberger) fosse considerata come un “bene posizionale”, una
misura di prestigio e sfarzo offerta dal Governo di turno nella competizione
tra comunità. Ciò spiega, ad esempio, il pullulare di teatri lirici in regioni
italiane relativamente piccole (come l’Umbria e le Marche), ma con città
economicamente rilevanti e molto competitive.
Nella letteratura convenzionale, il teatro d’opera è
stato l’uovo che nasceva da galline prospere, ossia vedeva luce in aree già
sviluppate sotto il profilo economico e sociale. Questa tesi viene ribaltata da
un interessante studio dei tedeschi Oliver Falck (IFO, il maggior centro di
ricerca economica della Repubblica Federale), Michael Fritsch (Università di
Jena) e di Stephan Heblich (Max-Planck-Institut) e pubblicato dall’IZA
(l’Istituto tedesco di studi sul capitale umano) come Discussion Paper No.
5065. Il lavoro utilizza una complessa strumentazione statistica per
studiare i nessi tra musica lirica e sviluppo economico, utilizzando come
campione ventinove teatri costruiti in età barocca in differenti località di
un’area che va dalla Renania alla Silesia (regione oggi parte della Polonia).
La ricerca impiega una vasta gamma di indicatori per comprendere se i teatri
sorgessero in aree già in fase di sviluppo prima della decisione di costruirli
(l’ipotesi dominante) o se invece, nati in contesti non più avanzati della media
dell’area di espressione tedesca, siano stati essi stessi gli artefici di un
processo di espansione economica.
I dati disponibili permettono di affermare che Trier,
Bautzen, Stralsund, Rostock, Dessau, Passau, Regensburg — per non citare che
alcuni dei luoghi dove sono localizzati i teatri del campione — non avevano
indici di sviluppo economico e sociale migliori degli alti territori. Anzi, in
molti casi, nel periodo precedente la costruzione e la messa in funzione del
teatro, questi esponevano indicatori inferiori alla media. L’analisi non si
limita a offrire una fotografia di quella che era la situazione nel momento in
cui la comunità decise di darsi un teatro con le caratteristiche specifiche per
rappresentare opere liriche, ma problematizza, invece, una questione centrale:
ovvero se e perché il teatro ha contribuito allo sviluppo economico della zona
circostante. Alla prima domanda, i dati forniscono una risposta positiva. Per
affrontare la seconda, lo studio fa ricorso a scuole economiche più recenti che
hanno evidenziato in gran parte delle ventinove aree un incremento della
concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti,
orchestrali, cantanti) e una maggiore apertura allo spazio circostante (tramite
le compagnie di giro impiegate per numerosi spettacoli). In effetti, il
capitale umano attira altro capitale umano e avvia e sostiene il processo di
sviluppo. Questo chiarisce che la decisione dell’Asia emergente di investire in
teatri d’opera è razionale anche dal punto di vista strettamente economico e
non solo culturale. Alla luce delle conclusioni dello studio, forse andrebbero
riconsiderate le politiche di restrizione al supporto pubblico di teatri
d’opera. Soprattutto nei confronti delle realtà efficienti in termini di costi
e produttività.
Se i “Saggi” del Capo dello Stato (naturalmente almeno
per oggi, facendo ancora riferimento a Napolitano) non erano al corrente, è
auspicabile che lo siano quelli che, prima o poi, verranno chiamati a
collaborare con il Governo della Repubblica (quando si farà). Le loro note,
così, ci auguriamo possano essere meno stonate.
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