Il Samson et Dalila di Camille Saint-Saën in scena al Teatro dell’Opera di
Roma dal 5 al 13 aprile non ha decisamente nulla a che vedere con il ‘colossal’
di Cecil B. De Mille del 1949 in cui Victor Mature era il fortissimo eroe ebreo
e Hedy Lamar l’ammaliatrice filistea (tale da pentirsi , però, alla fine e
complottare con l’eroe che ha fatto accecare per distruggere il Tempio del Dio
Dagon (con tutti i capi dei filistei destinati a perire tra le rovine). Non
assomiglia neanche ai numerosi DvD in commercio (il più diffuso è quello del
Metropolitan) che in vario modo interpretano la partitura come un grand opéra:
grandi scene, balletto leggiadro ma lussureggiante al termine del primo atto,
baccanale grandioso nel secondo. Non è neppure un’attualizzazione di quelle che
si vedono in Germania: con lotta cruenta tra Hamas ed Israeliani, dato che la
vicenda si svolge a Gaza e dintorni.
Carlus Padrissa, alla guida della Fura dels Baus , il gruppo catalano
famoso in tutto il mondo per gli spettacolari allestimenti di grande impatto
visivo, è stato chiamato a dirigere gli aspetti drammaturgici del lavoro (che
mancava da Roma dalla Stagione 1962-63,quando fu rappresentato in un
allestimento ‘colossal’ con due protagonisti di prestigio: Giulietta Simionato
e Mario Del Monaco). Nelle mani della della Fura dels Baus, la vicenda diventa
atemporale (nell’ultimo atto i filistei sono vestiti come borghesi di oggi) ed
in bianco e nero (tali gli elementi scenici, i costumi e le proiezioni).
Recupera, specialmente nel primo atto, le intenzioni di Saint-Saën che aveva inizialmente
concepito il lavoro come un oratorio da eseguire principalmente in Chiesa
(allora il Clero doveva essere piuttosto permissivo data la sensualità del
secondo atto ed il baccanale del terzo). Il secondo atto, per la Fura dels
Baus, è un lungo amplesso in bianco e nero dove, attenzione, Dalila (Olga
Borodina) vesto un lungo e casto abito nero anche durante il coito in cui
strappa Sansone (Alexandr Antonenko) il segreto della sua forza. Nel terzo
atto, il baccanale è un sadico quadro di torture a giovani ragazze e ragazzi
ebrei prima di essere immolati al Dio Dagon , ed alla ritrovata forza (grazie
alle preghiera) di Sanson che distrugge il Tempio con tutti i filistei. A mio
avviso, ed a molti dei critici in sala, l’allestimento è elegante e risolve alcuni
problemi: la sostanziale mancanza di azione teatrale e nel terzo atto la musica
violentissima che accompagna il baccanale – più adatta ad un quadro intriso di
sadismo che ad una danza. Ai palchi alti ed al loggione, questa lettura è
piaciuta poco o nulla data la bordata di fischi a Carlus Padrissa ed a suoi
colleghi.
Andiamo alla parte musicale. Saint-Saën era un grande ammiratore dell’opera
romantica tedesca e delle innovazioni apportate da Wagner. Saint-Saën ambiva
che Samson et Dalila diventasse unTristan und Isolde in stile francese ,
collocato, però, nel contesto dello scontro tra filistei ed ebrei. Il Teatro
dell’Opera ha trovato due voci d’eccezione: Olga Borodina, nei panni della In
effetti, nonostante il lavoro avesse tutte le carte per appassionare il
pubblico della Terza Repubblica (trama orientale, forte carica sensuale, finale
perbenista in cui i ‘malvagi’ vengono puniti) non ebbe grande successo quando
venne presentato. La ‘prima’ ebbe luogo, in traduzione ritmica tedesca, nel
1877 nel piccolo teatro di Weimar. Apparve in Francie nel 1890 a Rouen. Né
Weimar né Rouen potevano mettere in campo i mezzi per un ‘gran opéra’ con una
vasta orchestra, corpo di ballo e complesse scenografia. In questa edizione del
Teatro dell’Opera la direzione musicale è affidata ad una delle maggiori, e più
attente, bacchette francesi, Charles Dutoit.
Fin dal preludio, Dutoit fa avvertire un fluido scorrere di archi (come
nell’introduzione de L’Oro del Reno) e dal coro sommesso che esprime la
desolazione degli ebrei, Saint-Saën riesce a effettuare una fusione davvero
unica tra la musica corale di Händel, Banch e Mendelssohn e le innovazioni
wagneriane in cui ci sono elementi tipicamente francesi: l’aria di ingresso di
Sanson è molto vicina a Gounod o al Verdi di Otello (e non ha nulla di un
heldtenor tedesco) e il satrapo Abimelech (Mikhail Korobeinikov) è ritratto da
un aria baritonale dal gusto orientaleggiante accompagnata da ottoni gravi e da
legni invece acutissimi (un anticipo delle danze del secondo atto).
Dopo un breve omaggio al gusto verdiano (il terzetto tra Sansone, Dalida ed
il Vecchio Ebreo- Dario Russo ), Saint-Saën chiude il primo atto con un coretto
sensuale e floreale di fanciulle ebree e l’aria di sortita di Dalida Printemps
qui commence – il personaggio viene tratteggiato da Olga Borodina in modo
efficace con pochi tratti: nulla di più distante da Isolde, Dalida è una
popolana ‘ fascinosa ‘ ed ammaliatrice che, secondo alcuni, ricorda la Carmen
di Bizet ed anticipa la Parisina di Mascagni o la Silvana de La Fiamma di
Respighi.
Nel secondo atto la presenza di Borodina – Dalida domina tutta la partitura
: già il preludio è intriso di sensualità per preparare la grande aria Amour,
viens aider ma faiblesse che prepara un lungo duetto di seduzione (più che
d’amore) chiuso da un’altra aria della protagonista Mon coeur s’ouvre à toi di
grande bellezza a cui si aggiunge la voce di Sansone. Che quest’ultimo sia un
tenore lirico spinto (una voce più verdiana che wagneriana) è mostrato a tutto
tondo nel terzo atto, specialmente nell’aria in cui offre a Dio la sua
sofferenze , Je t’offre , O Dieu, mon âme brisée, perché ritrovi la forza di un
tempo. Nelle scene successive, il baccanale, l’inno de filistei al Dio Dagone,
ritroviamo i materiali del primo atto in funzione revocatrice, mnemonica ben
distinta dai leitmotive wagneriani sino a culminare nel grande finale.
In breve, un’esecuzione musicale di altissimo livello che ha appassionato
anche coloro che hanno fischiato Pedrissa.
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