FINANZA/ 1.
Letta può "scappare" dai diktat europei
venerdì 26 aprile 2013
Approfondisci
Uno dei primi temi con cui si deve confrontare il Governo (se, come ci
auguriamo, Enrico Letta scioglierà la “riserva” in modo positivo) è in che
misura occorre perseguire una politica di austerità per raggiungere l’equilibrio
strutturale di bilancio (richiesto dalla normativa europea e italiana) ove
non nel 2013 (come inizialmente proposto) almeno nel 2014 (come previsto nel Fiscal
Compound). L’aumento del disagio sociale (incremento di differenze di
reddito e consumo per fasce sociali, del numero delle famiglie incapienti,
della disoccupazione soprattutto giovanile, dei licenziamenti, della chiusura
di aziende) sono documentati dalle rilevazioni Istat e Banca d’Italia e sono
stati al centro di un seminario interno del ministero dell’Economia e delle
Finanze, sulla base di un’analisi di Pietro Modiano, il 23 aprile. Il nodo
centrale su cui riflettere è in che misura questi effetti negativi delle
politiche di bilancio hanno carattere temporaneo dette di austerità e
sono necessarie per giungere a stabilità finanziaria, e a una riduzione del
peso del debito pubblico sul Pil, tale da riavviare un processo di crescita
duraturo e sostenibile.
Le preoccupazioni che le strategie promosse da alcuni anni specialmente
nell’eurozona non corrispondano a questo obiettivo sono state echeggiate il
20-22 aprile anche nella riunione a Washington degli organi di governo di Fondo
monetario internazionale e Banca mondiale. Tali preoccupazioni non sono il
frutto solo delle reazioni di Governi (quelli nel Consiglio del Fondo e della
Banca) alle prese con elettorati che, a ogni consultazione, mostrano la loro
disaffezione a stringere ulteriormente la cinghia, ma anche e soprattutto di un
dibattito tecnico all’interno del Fmi e del mondo accademico. In Italia, tale
dibattito è stato ripreso quasi solamente in alcuni centri di ricerca, ma ora
comincia a essere tema dominante pure in seno al servizio studi della stessa
Banca centrale europea (Bce) - si veda “Fiscal Composition and Long-Term
Growth” ECB Occasional Paper No. 1518 di Antonio Afonso dell’Università
Tecnica di Lisbona, liberamente scaricabile, dal 24 aprile, dal sito Bce.
Il dibattito ha aspetti molto tecnici. Semplificando, si può dire che
prende l’avvio da una serie di studi di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff
(ambedue dell’Università di Harvard) pubblicati negli ultimi dieci anni e
consolidati nel libro This Time is Different del 2009; le loro analisi
concludono che quando lo stock di debito pubblico di un Paese supera il 90% del
Pil, la crescita diminuisce di circa un punto percentuale. La “regola
Reinhart-Rogoff” è diventata non solo dottrina dominante nella
professione, ma elemento centrale di una lettera di Olli Rehn, Vice Presidente
della Commissione europea, in cui si richiamavano i Ministri Economici e
Finanziari dell’eurozona (e i Piigs in particolare) a osservarla con
“appropriate” politiche di bilancio.
La dottrina dominante è stata di recente messa in questione, sotto
il profilo puramente statistico ed econometrico, in un saggio di Thomas
Herndon, Micheal Ash, e Robert Pollin dell’Università del Massachussetts a
Amherst. Occorre dire che la base statistica è differente: ‘la regola
Reinahrt-Rogoff’ studia due secoli di debito pubblico, mentre i tre più giovani
economisti di Amherst analizzano (con maggior attenzione) il periodo dalla fine
della Seconda guerra mondiale a oggi (anche in quanto le statistiche anteriori
al 1945 lasciano, in numerosi paesi, a desiderare): da allora i paesi con un
debito pubblico superiore al 90% hanno avuto una crescita del 2,2% non del
-0,1% (secondo i conti Reinahrt-Rogoff’). Inoltre, i tre economisti trovano in This
Time is Different un errore econometrico materiale (relativo alla
codificazione dei dati) - errore ammesso (con scuse) da Reinahrt e Rogoff.
Su questo dibattito, se ne è inserito un altro, apparentemente tecnico ma denso
d’implicazioni politiche. Il Capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, ha
rivolto l’attenzione del servizio studi dell’istituzione all’analisi del fiscal
multiplier, da intendersi come effetto della contrazione (o espansione)
delle politiche di bilancio sul Pil (non, come apparso in vari organi di stampa
economica italiana, come “moltiplicatore keynesiano” della spesa, ossia quanto
indotto si attiva). In breve, le analisi del Fmi (ancora in corso) concludono
che in una fase di recessione economica le restrizioni di bilancio hanno
effetti molto più pronunciati sul Pil (-3% invece di -0,5%) di quando avviene
in tempi normali, con la conseguenza che le politiche di austerità non solo
aumentano il disagio sociale, ma rendono più arduo raggiungere equilibrio di
bilancio e riduzione del fardello del debito.
Questi spunti non sono lana caprina per economisti: hanno implicazioni
molto serie per le politiche pubbliche interne e per gli interrogativi che un
Governo con le spalle robuste può, anzi, deve sollevare in sede europea.
© Riproduzione Riservata.
Nessun commento:
Posta un commento