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Non si prevedono le implicazioni
politiche
L'influenza delle scelte
istituzionali sulle questioni economiche
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La settimana scorsa, il Bollettino della Banca d’Italia ha gelato
le previsioni quantitative di numerosi centri di ricerca economica
(italiani e stranieri) affermando che nell’anno in corso il Pil subirà una
contrazione del 2% circa non dello 0,5% come ipotizzato non solo dal
Ministero dell’Economia e delle Finanze ma anche dal Fondo monetario, dall’Ocse
e da molti altri. Non è la prima volta che ciò avviene: alcuni anni fa un
servizio internazionale di analisi econometriche ‘vendeva’ a istituzioni,
banche , aziende l’abbonamento ad i propri lavori con una documentazione in
base alla quale la frequenza e lo spessore dei suoi errori era ‘inferiore’ a
quello dei suoi maggiori concorrenti.
Per anni se la si è cavata ripetendo il detto di Oscar Wilde secondo
cui le previsioni sono difficili nei casi in cui riguardano il futuro. Tuttavia,
se si trattasse unicamente o principalmente di previsioni potrebbe bastare
tarare meglio i modelli ed i loro parametri. Il punto è che spesso gli
economisti offrono, con le migliori intenzioni e sulla base di solida dottrina
economica, ricette di strategie, programmi e misure che, alla prova dei fatti,
risultano sbagliate. E ci se ne accorge pure soltanto pochi mesi dopo i fatti. Un
caso eloquente italiano è quello del problema degli ‘esodati’ innescato dalle
ultime (peraltro ben congegnate) misure in materia di previdenza. Un caso
sempre italiano ma meno noto è stato il modo in cui nel novembre 1989
simultaneamente abbiamo tolto le ultime barriere valutarie e siamo entrati
nella ‘fascia stretta’ degli accordi europei sui cambi (giornalisticamente
chiamati lo Sme). Si pensi al processo di deregolamentazione finanziaria
attuato negli Stati Uniti dal1975 ed oggi generalmente riconosciuto come una
delle determinanti della crisi del 2007-2010 (negli Usa, ma ancora in corso in
Europa). Od alle privatizzazioni negli Stati emersi dall’ex-Unione Sovietica
(ed in parte in Italia). Sono soltanto alcuni esempi di buone strategie
economiche finite tra il male ed il malissimo.
Gli sbagli di noi economisti sono così frequenti che
non possono essere attribuiti a singoli errori umani o inadeguatezza
tecnologica di una disciplina che ha tre secoli e le cui capacità di analisi
sono state notevolmente aumentate dalla tecnologia dell’informazione e della
comunicazioni.
Un errore di fondo poco considerato (a ragione dell’arroganza di noi
economisti nei confronti del resto delle scienze sociali) è il non considerare
le implicazioni politiche (o meglio le implicazione su equilibri
politici) di strategie, piani, programmi e misure di politica economica. Di
norma, tali strategia, piani, programmi e misure hanno l’obiettivo di ridurre
le imperfezioni del mercato (asimmetrie informative, differenze di reddito e di
consumo, oligopoli, monopoli , esistenza di esternalità, di beni
pubblici, di beni comuni) Tali imperfezioni danno luogo a rendite che politiche
economiche ben intenzionate e ben congegnate mirano a ridurre sino a fare
sparire. In tali strategie, piani, programmi e misure di solito l’economista lascia
la politica, specialmente la politica politicante, fuori dalla porta
nell’assunto che ‘una buona politica economica è una buona politica tour court’
oppure nell’ipotesi che ‘buone politiche economiche aiutano i politici a
restare in sella’ e , quindi, è loro interesse attuarle oppure ancora che la
politica viaggia ‘a caso’ dietro le proprie beghe ed è, quindi, irrilevante o
quasi ai fini della politica economica.
Si tratta di assunti o di ipotesi che non reggono. La politica economica
viene formulata nel contesto di un determinato equilibrio politico (in cui
le imperfezioni di mercato, ed in particolare, le rendite hanno un ruolo
tutt’altro che secondario). Se la politica economica è incisiva, ‘morde’ sulle
rendite, sulla distribuzione dei redditi e dei consumi, sulle compatibilità e
convenienze tra fasce sociale. Da , quindi, origine ad un nuovo equilibrio
politico le cui implicazioni (se non tenute in debito conto al momento della
formulazione delle politiche economiche) possono essere controproducenti. I casi
che si sono citati (esodati, cambio della lira rispetto al marco e quindi
all’euro, riforma del sistema finanziario Usa, privatizzazioni nell’ex- Urss)
non sono che alcuni episodi dei numerosissimi che si potrebbe ricordare
solamente studiando la storia economica recente.
Su questi temi stanno lavorando economisti di fama internazionale come Darun
Acemoglu, Dani Rodrik, James A. Robinson. Stanno approntando
un nuovo quadro teorico in cui l’economia e la politologia vengano coniugate
per poter meglio comprendere le implicazioni politiche di decisioni economiche,
i nuovi equilibri che si possono creare e le tecniche per minimizzare effetti
controproducenti di scelte economiche che sembrano corrette (sotto il profilo
della disciplina).
In Italia, temi di questa natura vengono echeggiati solo ne la Rivista
di Politica ma non vengono neanche accennati in riviste professionali di
economia. Eppure è proprio questa la materia su cui indagare per comprendere la
nostra scarsa capacità adattiva alle trasformazioni dell’economia mondiale, le
ragioni del nostro declino e le leve per cer
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PERCHE’ GLI
ECONOMISTI SBAGLIANO (QUASI) SEMPRE
Giuseppe Pennisi
La settimana scorsa, il Bollettino della Banca d’Italia ha
gelato le previsioni quantitative di numerosi centri di ricerca economica
(italiani e stranieri) affermando che nell’anno in corso il Pil subirà una
contrazione del 2% circa non dello 0,5% come ipotizzato non solo dal Ministero
dell’Economia e delle Finanze ma anche dal Fondo monetario, dall’Ocse e da molti altri. Non è la prima volta che ciò
avviene: alcuni anni fa un servizio internazionale di analisi econometriche
‘vendeva’ a istituzioni, banche , aziende l’abbonamento ad i propri lavori con
una documentazione in base alla quale la frequenza e lo spessore dei suoi
errori era ‘inferiore’ a quello dei suoi maggiori concorrenti.
Per anni se la si è cavata ripetendo
il detto di Oscar Wilde secondo cui le
previsioni sono difficile nei casi in cui riguardano il futuro. Tuttavia,
se si trattasse unicamente o principalmente di previsioni potrebbe bastare
tarare meglio i modelli ed i loro parametri. Il punto è che spesso gli
economisti offrono, con le migliori intenzioni e sulla base di solida dottrina
economica, ricette di strategie, programmi e misure che, alla prova dei fatti,
risultano sbagliate. E ci se ne accorge pure soltanto pochi mesi dopo i fatti.
Un caso eloquente italiano è quello del problema degli ‘ esodati ’ innescato
dalle ultime (peraltro ben congegnate) misure in materia di previdenza. Un caso
sempre italiano ma meno noto è stato il modo in cui nel novembre 1989 simultaneamente abbiamo tolto le ultime
barriere valutarie e siamo entrati nella ‘fascia stretta’ degli accordi europei
sui cambi (giornalisticamente chiamati lo Sme). Si pensi al processo di
deregolamentazione finanziaria attuato negli Stati Uniti dal1975 ed oggi
generalmente riconosciuto come una delle determinanti della crisi del 2007-2010
(negli Usa, ma ancora in corso in Europa). Od alle privatizzazioni negli Stati
emersi dall’ex-Unione Sovietica (ed in parte in Italia). Sono soltanto alcuni
esempi di buone strategie economiche finite tra il male ed il malissimo.
Gli sbagli di noi economisti sono
così frequenti che non possono essere attribuiti a singoli errori umani o
inadeguatezza tecnologica di una disciplina che ha tre secoli e le cui capacità
di analisi sono state notevolmente aumentate dalla tecnologia dell’informazione
e della comunicazioni.
Un errore di fondo poco considerato
(a ragione dell’arroganza di noi economisti nei confronti del resto delle
scienze sociali) è il non considerare le implicazioni politiche (o meglio le
implicazione su equilibri politici) di strategie, piani, programmi e misure di
politica economica. Di norma, tali strategia, piani, programmi e misure hanno
l’obiettivo di ridurre le imperfezioni del mercato (asimmetrie informative,
differenze di reddito e di consumo, oligopoli, monopoli , esistenza di
esternalità, di beni pubblici, di beni
comuni) Tali imperfezioni danno luogo a rendite che politiche economiche ben
intenzionate e ben congegnate mirano a ridurre sino a fare sparire. In tali
strategie, piani, programmi e misure di solito l’economista lascia la politica,
specialmente la politica politicante, fuori dalla porta nell’assunto che ‘una
buona politica economica è una buona politica tour court’ oppure nell’ipotesi
che ‘buone politiche economiche aiutano i politici a restare in sella’ e ,
quindi, è loro interesse attuarle oppure ancora che la politica viaggia ‘a
caso’ dietro le proprie beghe ed è, quindi, irrilevante o quasi ai fini della
politica economica.
Si tratta di assunti o di ipotesi che
non reggono. La politica economica viene formulata nel contesto di un
determinato equilibrio politico (in cui le imperfezioni di mercato, ed in
particolare, le rendite hanno un ruolo tutt’altro che secondario). Se la
politica economica è incisiva, ‘morde’ sulle rendite, sulla distribuzione dei
redditi e dei consumi, sulle compatibilità e convenienze tra fasce sociale. Da
, quindi, origine ad un nuovo equilibrio politico le cui implicazioni (se non
tenute in debito conto al momento della formulazione delle politiche
economiche) possono essere controproducenti. I casi che si sono citati (esodati,
cambio della lira rispetto al marco e quindi all’euro, riforma del sistema
finanziario Usa, privatizzazioni nell’ex- Urss) non sono che alcuni episodi dei
numerosissimi che si potrebbe ricordare solamente studiando la storia economica
recente.
Su questi temi stanno lavorando
economisti di fama internazionale come Darun Acemoglu, Dani Rodrik, James A.
Robinson. Stanno approntando un nuovo quadro teorico in cui l’economia e la
politologia vengano coniugate per poter meglio comprendere le implicazioni
politiche di decisioni economiche, i nuovi equilibri che si possono creare e le
tecniche per minimizzare effetti controproducenti di scelte economiche che
sembrano corrette (sotto il profilo della disciplina).
In Italia, temi di questa natura
vengono echeggiati solo ne la Rivista di
Politica ma non vengono neanche accennati in riviste professionali di
economia. Eppure è proprio questa la materia su cui indagare per comprendere la
nostra scarsa capacità adattiva alle trasformazioni dell’economia mondiale, le
ragioni del nostro declino e le leve per cercare di rimettersi a crescere.
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