La soluzione all’olandese per un’Europa diversa
29 - 07 - 2013Giuseppe PennisiNel fine settimana, lo ha ricordato un editoriale pungente del Financial Times. E’ rivolto principalmente allo “squilibrio” tra Regno Unito e resto dell’Ue ma contiene una condanna non troppo implicita all’euro: “Quando è nato i suoi sostenitori ed i leader degli Stati dell’area hanno sottolineato come si trattasse di una grande occasione per giungere ad un modello più sostenibile di crescita, ma sino ad ora hanno fatto poco o nulla per giungere a tale obiettivo”.
Più amare le considerazioni di Jonathan Loyens, direttore dell’analisi economica a Capital Economics, una delle maggiori società di studi e consulenza finanziaria d’Oltre- Manica. ‘ In una prima fase (dopo l’avvio dell’euro, ndr) è parso che le economie e le politiche economiche del’UE seguissero un sentiero più o meno uniforme, ma dal 2009 ciascuna sembra andare su solchi differenti. In primo luogo, i costi per far fronte al finanziamento di debiti, e Tesori, sovrani hanno preso a divergere (ciò che in gergo chiamiamo lo spread). In secondo luogo, le economie reali seguono tracciati differenti’.
Ad esempio, nonostante la speranza di avere abbattuto le barriere alla mobilità dell’impiego, non più del 3-4% della popolazione in età di lavoro dell’Eurozona è occupata al di fuori dei confini nazionali. Secondo calcoli della Commissione europea, se una tedesca cerca un impiego ha solo un concorrente, mentre un portoghese ne ha 89, uno spagnolo 71 e un irlandese 31. Barriere linguistiche o culturali ostacolano qualsiasi tentativo di liberalizzare la normativa sul lavoro od armonizzare le regole. Le differenze nello spessore della recessione nei vari Paesi dell’Eurozona hanno acuito il problema. Quelle nei tempi e nei modi del recupero (che dovrebbe iniziare alla fine di quest’anno) lo aggravano ancora di più.
In effetti, sembra dimenticato un tema di fondo di cui dibatte la teoria e la politica economica sin dagli Anni Cinquanta: se e in che misura l’integrazione economica faciliti la convergenza o spinga a una sempre maggiore divergenza. Due scuole si contrappongono da allora. L’evidenza empirica pare dare ragione alla seconda quando si è alle prese, come nell’UE e nell’eurozona, a mercati unici imperfetti ed ad aree valutarie che non hanno la caratteristica di essere “ottimali”.
E’ un dibattito che può sembrare “accademico”, ossia privo di rilevanza pratica di politica economica. Invece, in un’Europa dove crescono le divergenze è difficile indurre Parlamenti ed elettorati ad attuare politiche per rinsaldare il legame con l’Ue in generale e con l’unione monetaria in particolare.
Un indicatore eloquente è l’aumento della saggistica su ‘il tramonto dell’euro’, o temi simili. Un altro è la crescente indifferenza, mista ad insofferenza, con cui si seguono le discussioni sulla politica europea, o sui nessi tra politica economica italiana e l’UE. Un altro ancora sono i segnali di richieste di referendum sull’UE o su alcuni suoi aspetti, principalmente l’euro.
Non vogliamo certo porre altra carne al fuoco di Governo, Parlamento e ceto politico in generale. Tuttavia, constatato che a) le divergenze e gli squilibri stanno aumentando; b) nel Vecchio continente, pochi si sentono “europei” prima di sentirsi, francesi, tedeschi, italiani, spagnoli, portoghesi e via discorrendo, occorre chiedersi se, invece di continuare a domandare “più Europa” per risolvere problemi interni prima che dell’Ue, non si debba approfondire una recente proposta del Governo olandese.
Secondo tale proposta, l’Ue si dovrebbe basare sul principio europeo dove necessario ma nazionale sin dove possibile. Ciò consentirebbe di dare pienamente attuazione al principio di sussidiarietà, di decentrare i processi decisionali e di prevedere unicamente un minimo comun denominatore di normativa europea.
In Italia, la proposta olandese è stata, sino ad ora, ignorata. Occorre parlarne. Prima che si giunga ad una possibile implosione dell’UE.
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