Lavoro, il programma tra innovazioni e limiti
06 - 07 - 2013Giuseppe Pennisi
Il Parlamento sta cominciando ad esaminare
le misure approvate dal Governo ai fini della promozione dell’occupazione.
Sulle specifiche di queste misure è stato detto tutto nei giorni scorsi.
Tuttavia, c’è stata poca attenzione sulla portata innovativa dei loro aspetti
concettuali e sui limiti istituzionali che ne possono ridurre gli effetti
concreti di salvaguardia di occupazione e di creazione di impieghi.
A mio avviso, l’aspetto concettualmente
più importante è l’accento sul capitale umano. In questo senso si riallacciano
alle analisi sul miracolo economico italiano e sulla sua fine di Charles
Kindleberger, economista così noto da non richiedere presentazione, e di Ferenc
Jánossy, genero di Lukacs e di formazione matematico-ingegneristica prima che
economica. Scritti a pochi anni di distanza l’uno dell’altro, ma senza che i
due autori avessero conoscenza l’uno dei lavori dell’altro, i libri di Kindlegerger
e Janossy individuano nella qualità della forza lavoro – e quindi
dell’istruzione e della formazione (ma anche delle politiche sanitarie,
previdenziali e del mercato del lavoro attinenti allo sviluppo del capitale
umano) – la determinante principale dei “miracoli economici”.
Kindleberger guarda esclusivamente
all’Europa occidentale, e con attenzione particolare all’Italia. Janossy che
lavorava in Ungheria e scriveva in magiaro guarda pure all’esperienza del
“miracolo” (poco noto in Occidente) del proprio Paese centreuropeo. Mentre
Kindleberger costruisce un modello esplicativo per comprendere come si sia
stato innescato il “miracolo economico”, le analisi di Jánossy (per quanto
basate su statistiche rudimentali [1], rispetto alla dotazione di cui disponeva
Kindleberger) riguardano non solo come e perché i “miracoli economici” si sono
avviati ma anche come e perché si sono affievoliti e spenti. La individua nella
discrasia tra capitale umano (da considerarsi come “cambiamento strutturale
delle conoscenze provocato dalla divisione del lavoro , non di una crescita
generale derivante dalla sommatoria delle conoscenze individuali”), da un lato,
e struttura produttiva ed occupazionale, dall’altro; in altri termini quando il
capitale umano non è più in linea con le trasformazioni della struttura della
produzione e del mercato del lavoro (sia per settori economici sia per
categorie professionali) la spinta che ha dato vita al “miracolo” si esaurisce
e si torna su una tendenza di lungo periodo fatta di adattamenti continui, per
tentativi, errori e correzioni.
Quindi, l’indicazione di una politica
economica basata su una politica attiva della formazione del capitale umano, e,
di conseguenza, della valutazione economica dell’istruzione e della formazione,
nonché su quella del funzionamento del mercato del lavoro, della politica della
salute e del sistema previdenziale. A mio avviso, la differenza tra l’analisi
di Kindleberger e quella di Jánossy derivava principalmente dal fatto che i due
economisti operavano in contesti concettuali e socio-politici (oltre che
economici) differenti. Per Kindleberger, che lavorava in un’economia di
mercato, il mercato, con i suoi segnali, avrebbe agevolato i ri-aggiustamenti
tra formazione e capitale umano, da un lato, e struttura produttiva ed
occupazionale (ed, indi, le regole e le prassi per la sua utilizzazione).
Per Jánossy, che lavorava, invece, in un’economia “a socialismo reale”, invece,
tali ri-aggiustamenti sarebbero dovuti essere il risultato della programmazione,
dunque dell’azione politica.
L’interessante intuizione di Jánossy ha
suscitato un certo dibattito tra economisti europei nella prima parte degli
Anni Settanta ma è stata presto coperta da una fitta coltre di oblio. Allora,
in materia di formazione ed utilizzazione di capitale umano si confrontavano
due scuole, una imperniata sull’analisi costi benefici e l’altra sulla
programmazione delle risorse umane e l’analisi costi efficacia – da farsi
risalire rispettivamente ai lavori di Becker e Harbison citati in precedenza.
Poca attenzione venne rivolta ai nessi tra formazione di capitale umano, da un
lato, e suo utilizzazione e modernizzazione della struttura di produzione,
dall’altro – la vera e propria architrave della riflessione di Jánossy sulla
“fine dei miracoli economici”, tale da avere pertinenza anche in economie di
mercato.
Un’ipotesi analoga a quella di Jánossy è
stata formulata di recente, pur senza fare riferimento agli ormai ritenuti
vecchi lavori dell’economista ungherese, dal Premio Nobel James Heckman della
Università di Chicago e da Bas Jacobs della Università di Tilburg – due centri
di ricerca strettamente incardinati nel pensiero economico neo-classico di
economia di mercato: la loro analisi individua il rallentamento di lungo
periodo dell’Ue nella carenze delle politiche della formazione e di
utilizzazione di capitale umano, politiche che dovrebbero essere “re-inventate”
anche a ragione dell’invecchiamento della popolazione: “occorre riconoscere la
complementarità dinamica della formazione di competenze”, “è necessario
espandere l’investimento nei più giovani, dove si hanno maggiori rendimenti in
termini sia di efficienza sia di distribuzione del reddito, rispetto a quello
per la riqualificazione dei lavoratori anziani”, “tentare di rimediare più tardi
nel ciclo vitale a carenze di competenze è spesso inefficace”. Heckman e Jacobs
sottolineano (con toni analoghi a quelli di Janossy) come la formazione di
capitale umano venga frustata se il resto delle politiche economiche ha
l’effetto di abbassare i rendimenti dell’istruzione e della formazione: ad
esempio, alti tassi marginali d’imposizione tributaria e ammortizzatori
occupazionali e sociali molto generosi riducono i tassi di partecipazione alla
forza lavoro e le ore effettivamente lavorate con la conseguenza di una
utilizzazione del capitale umano più bassa dell’ottimale .
Tutto ciò può sembrare dotto e colto –
quindi, più adatto per un saggio accademico che per un commento ad un
provvedimento normativo. Tuttavia, se non si afferra il nucleo concettuale dei
provvedimenti è difficile vedere perché il loro saldo fondamento teorico e le
loro buone intenzioni rischiano di avere esiti molto modesti.
In primo luogo, il capitale umano non è
unicamente materia di competenza del Ministero del Lavoro e degli Affari
Sociali. Occorre lavorare all’unisono , a livello centrale, con il Ministero
dell’Istruzione, Università e Ricerca. Ciò può non essere difficile. Lo sarà
invece coordinarsi con le Regioni e con le Province che hanno competenza
costituzionale in materia di formazione professionale e di organizzazione e
gestione dei centri per l’impiego.
Anche ove ci si limitasse a quanto è
nell’ambito di competenza del Ministero del Lavoro sarebbe essenziale mettere
ordine tra Italia Lavoro SpA , nata per portare i ‘lavori socialmente utili’
verso l’impiego ma di cui ora pochi sembrano comprendere le finalità, e
dell’Isfol, nato come ente di ricerca sulla falsariga del tedesco IZA ma ora
dotato di 600 dipendenti (l’IZA ne ha 40) che producono una dozzina di rapporti
l’anno (rispetto ai 6-8 la settimana dell’IZA).
Pur ove il Ministero del Lavoro mettesse
ordine in casa propria e si riformasse la Costituzione per integrare le varie
forme di preparazione del capitale umano, resterebbe un nodo di fondo ancora
più difficile. Come indurre i potenziali beneficiari a mettere a frutto gli
strumenti disponibili se i tassi di rendimento di istruzione e formazione
continuano ad abbassarsi a ragione di una struttura salariale che non premia il
capitale umano ma anzi lo incoraggia a cercare soddisfazioni all’estero?
[1] Janossy aveva accesso quasi
esclusivamente ai lavori statistici della Commissione Economica per l’Europa
delle Nazioni Unite.
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