Come si possono salvare le Fondazioni
lirico-sinfoniche?
Attualità • Nell’incontro
avvenuto al Parco della Musica di Roma i sindacati dello spettacolo hanno
annunciato uno stato di agitazione: “sono sempre i lavoratori a pagare per la
scarsa attenzione alla cultura”. Diagnosi di un sistema in crisi e possibili
terapie
di Giuseppe
Pennisi
Si può salvare il sistema delle fondazioni liriche così
com’è? Già quattro fondazioni sono commissariate. Si paventa il
commissariamento di altre, ad esempio (secondo voci interne) di una importante
a Roma che, in questo esercizio, viaggerebbe su un disavanzo tra i 10 ed i 18
milioni di euro e starebbe ritardando pagamenti a fornitori. Il Carlo Felice di
Genova sarebbe a corto di liquidità per fare fronte agli impegni correnti.
Ad un
assemblea tenuta il 10 giugno al Parco della Musica a Roma i sindacati
Slc-Cgil, Fistel Cisl, Uilcom e Fials, hanno annunciato una stato di agitazione
avvertendo che “sono sempre i lavoratori a pagare per la scarsa attenzione alla
cultura”. I dipendenti delle fondazioni sono circa 5.000, un numero tutto
sommato non sufficiente a fare ascoltare i propri interessi in un’Italia in cui
coloro che cercano lavoro senza trovarlo raggiunge i 2,5 milioni di uomini e
donne. Inoltre, alcuni economisti della cultura additano nella scarsa produttività
delle fondazioni (in parte imputata a richieste sindacali) una delle
determinanti della crisi delle fondazioni.
Non solo
i sindacati ma anche i sovrintendenti puntano il dito contro la Legge 100 del
29 giugno 2010, all’indomani della sentenza del Consiglio di Stato che ha
annullato il regolamento in base al quale l’Accademia Nazionale di Santa
Cecilia e La Scala avevano ottenuto l’autonomia gestionale. «Mi auguro che
l’attuale governo voglia riaprire il tavolo di confronto tra le parti sociali
per una revisione della disciplina delle fondazioni lirico sinfoniche, capace
di superare l’attuale triste linea che vede l’investimento pubblico come costo
anziché come beneficio sociale», ha dichiarato in un messaggio inviato ai
partecipanti il sovrintendente del Teatro Comunale di Bologna, Francesco
Ernani.
Il
presidente dell’Accademia di Santa Cecilia, Bruno Cagli, ha aperto i lavori con
un saluto iniziale, chiedendo certezze contributive al Mibac, perché in questo
mestiere si deve pianificare con almeno tre anni di anticipo. Cagli ha
evidenziato i tagli del Fus all’Accademia, spiegando che «ridurre la produzione
è un sistema di risparmio che non giova a nessuno».
Sulla
stessa linea il sovrintendente de La Fenice di Venezia, Cristiano Chiarot. «Le
cause della crisi delle fondazioni sono soprattutto esterne», ha detto, con
riferimento al «Fus diminuito e alle leggi che non hanno mai fatto chiarezza su
una vera riforma del comparto». Il sovrintendente della Fenice ha puntato il
dito contro quelle «fantomatiche leggi che avrebbero dovuto incentivare la
defiscalizzazione per attirare gli investimenti dei privati, ma che non sono
mai arrivate. Non è il costo del lavoro il motivo principale della crisi delle
Fondazioni – continua Chiarot – semmai, come causa interna, non è stato portato
al valore massimo il contributo dei lavoratori. Alla Fenice con lo stesso
numero di lavoratori e senza aumentare le spese, abbiamo incrementato le alzate
di sipario portandole a 120 all’anno, e abbiamo accresciuto i ricavi. Solo così
puo’ essere superata la crisi”.
Questa la
cronaca. Cerchiamo di approfondire sinteticamente determinanti della crisi
prima di delineare possibili situazione.
La prima
determinante è il virtuale abbandono della cultura musicale da circa mezzo
secolo. Solo di recente si è ricominciato ad insegnare nelle scuole storia
delle musica ed ad organizzare programmi speciali per avvicinare bambini,
giovani e ragazzi a opera e concerti: particolarmente efficaci quelli
dell’AsLiCo, del Massimo di Palermo e del Teatro alla Scala. È in corso
un’emorragia di pubblico, nonostante qualche flebile ripresa nell’ultimo anno.
Tuttavia, i programmi per le scuole e per i giovani sono un incentivo a basso
potenziale che opererà unicamente nel medio e lungo termine. Anche in quanto aumentano
le alternative per l’impiego del tempo libero dei giovani, ivi compresa la
fruizione di lirica e sinfonica di alta qualità ed a basso costo dei biglietti,
tramite circuiti come Microcinema e Nexodigital.
La
seconda determinante è la bassa produttività: una media di 70 alzate di sipario
(per opera e balletti) nelle fondazioni italiani rispetto a circa 150 in quelle
dell’UE a 15 e 200 in quelle dell’UE a 27. Ciò comporta costi elevatissimi,
anche in quanto alcuni artisti hanno dichiarato (in interviste a quotidiani di
larga diffusione) che, a causa del basso numero di recite, chiedono alle
fondazioni cachet pari al triplo di quelli che contrattano con la Staatsoper di
Vienna e il Metropolitan di New York. A rendere il quadro più fosco, data la
bassa produttività hanno preso il brutto andazzo di disertare le prove spesso
per un secondo lavoro (lezioni, corsi presso scuole private). Un Sovrintendente
che avendo preso in fragrante alcuni orchestrali ed avendo utilizzato le misure
previste dalla legge, è stato malmenato ed ha passato diversi giorni in
ospedale. La bassa produttività non è un male incurabile: lo mostra la svolta
effettuata dal Gran Teatro La Fenice di Venezia introducendo un sistema di
semi-repertorio che ha portato al successo (nelle classifiche internazionali)
un teatro che sino a qualche anno fa non vi avrebbe potuto aspirare.
Allestimenti
stantii: ne trattano a lungo nel trimestrale di Monaco di Baviera Max &
Joseph. Regie ed allestimenti tradizionali portano a teatro pubblico
anziano e tradizionale. Regie moderne (ad esempio quelle di Michieletto,
Micheli, Livermore) possono scandalizzare qualche ben pensante ma attirano i
giovani.
Ipertrofia
di personale. Il Verdi di Trieste ha 237 impiegati a tempo indeterminato (con
50-60 recite l’anno) rispetto ai 53 del Théâtre des Champs Elysée di Parigi
(che crea il 60% delle produzioni). Il Maggio Musicale ha oltre 100
amministrativi. E via discorrendo. Il sistema è diventato regressivo: con
sovvenzioni di circa 400 euro a spettatore pagante (di solito appartenente a
ceti a reddito medio alto).
Disinteresse
degli enti locali (Comuni, Regioni) che dovrebbero essere i primi beneficiari e
tutori dei “loro” teatri. Con l’eccezione del Comune di Roma, contribuiscono
pochissimo alle spese per le fondazioni. Il regolamento approvato dal Governo
Monti che, seguendo le prassi internazionali, poneva un tetto al finanziamento
dello Stato per ciascuna fondazione e richiedeva un congruo apporto da parte
degli enti locali, ha suscitato una levata di scudi.
Occorre
comprendere che la coperta è stretta. Se la scelta è tra tenere aperti ospedali
e asili nido o sovvenzionare i biglietti a ceti medio alti, qualsiasi governo
(di destra, di sinistra, di larghe intese) credo che opterebbe per ospedali e
asili nido.
Se questa diagnosi è corretta, la
terapia possibile può essere delineata così:
- Fondere o consorziare fondazioni, riducendo costi;
- Porre l’obbligo di attuare in coproduzione almeno 70% degli
spettacoli
- Rendere efficace il regolamento approvato dal Governo Monti,
responsabilizzando gli enti locali.
- Attuare un programma di riduzione degli esuberi
- Attuare un programma di avvicinamento delle nuove generazioni
- Esternalizzare come in molti teatri europei (o come fanno i teatri
dell’Emilia con l’Orchestra Toscanini) orchestre e corpi di ballo da
organizzare in cooperative di artisti contrattualizzate con le fondazioni.
- Allineare alle aliquote medie europee gli sgravi tributari per le
elargizioni culturali
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