mercoledì 26 settembre 2012

RAPPORTO SVIMEZ: ULTIMO APPELLO PER IL SUD in Il Velino del 26 settembre



RAPPORTO SVIMEZ: ULTIMO APPELLO PER IL SUD
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Roma - Se la situazione non fosse tragica, si potrebbe ironizzare sul doppio boomerang in tre giorni o sugli effetti del regionalismo. Il 24 settembre è stato presentato in grande spolvero il Rapporto “Italia, dare slancio alla crescita e alla produttività” dell’Ocse (uno dei lavori che l’organizzazione internazionale con sede a Parigi pubblica periodicamente sulla trentina di Stati che ne fanno parte). Questa volta, la presentazione del Rapporto è stata l’occasione per prendere il polso allo stato e alle prospettive delle riforme attuate e in cantiere da quando il governo Monti è in carica: un seminario di studio di un’intera giornata. Il seminario poteva dare l’apparenza di un grande spot per il governo. Tuttavia c’è poco da essere lieti nel prevedere una crescita del Pil di 4 punti percentuali dal 2013 al 2023 (pari quindi allo 0,33 per cento l’anno) dopo una contrazione di 14 punti percentuali dal 2008 al 2014. Il documento, poi, sostiene che le riforme sono state “iniziate” e si augura che vengano “attuate”. Inoltre, il Rapporto ignora comparti in disperato e urgente esigenza di riforma, come la giustizia, specialmente quella civile. Ancora peggio, il 26 settembre alla presentazione di fronte a un “parterre des rois”, al Tempo di Adriano, del Rapporto annuale Svimez, ancora una volta con una grande parata di politici. In breve, se quest’anno il Pil dell’Italia si contrae del 2,4 per cento (ultima stima sia del governo sia dell’Ocse), quello del Mezzogiorno crolla del 3,5 per cento. Una crescita per il Paese dello 0,33 per cento l’anno dal 2014 al 2024 vuole dire che nelle Regioni del Sud e in Sicilia a dieci anni di crisi ne seguiranno altri dieci di “crescita negativa” (eufemismo per dire “impoverimento progressivo”, mentre un terzo dell’Italia si spopola in quanto ha ripreso l’emigrazione).


Per quanto riguarda il regionalismo, ogni giorno i dati sul Sud e sulle Isole ci ricordano che le Regioni dell’area sono tra le meno virtuose e le più distanti dall’Europa. Anche questa è una delle determinanti. Il ministro per la Coesione Territoriale, Fabrizio Barca, ha presentato un “Piano d’Azione” che rappresenta, per molti aspetti, l’ultima appello per il Sud. O si rimette in sesto o affonda. Per comprendere la gravità del problema è utile agganciarsi alla teoria dell’integrazione economica. Dagli Anni Sessanta esistono due scuole: secondo una (inizialmente guidata da Bela Balassa) l’integrazione economica è una molla per la “convergenza” tra aree più e meno sviluppate (riducendo, quindi, i divari); per un’altra (fondata, se si vuole, da Gunnar Myrdal), in un processo d’integrazione si rafforza la coesione tra le aree ad alto reddito, il cui benessere, però, si distanzia da quelle a reddito basso che si impoveriscono ancora di più. Gli inglesi dicono che la prova della qualità di un dolce sta nel mangiarlo. Una decina di anni fa Antonio Cenini, della Presidenza del Consiglio dei Ministri (ora in servizio alla Rappresentanza italiana presso l’Ue a Bruxelles) ha esaminato, per l’Europa allora a 15, cosa era effettivamente avvenuto tra il 1960 e il 2000. In effetti, si era verificata “convergenza” tra tutte le aree in ritardo di sviluppo e il resto dell’Ue , ma “divergenza” tra il Mezzogiorno e gli altri. Analisi statistiche più dettagliate mostrano che la svolta è stata attorno al 1975 quando l’alto livello di trasferimenti pubblici pro capite ha reso meno produttivo il capitale umano (postosi alla ricerca di finanziamenti pubblici non di idee imprenditoriali) e rafforzato la criminalità. Nel primo lustro del nuovo secolo, ci sono stati segni incoraggianti in quanto molte regioni del Sud avevano tassi di crescita maggiori di quelli del Centro-Nord. Nel secondo lustro, invece, la situazione è peggiorata. Precipitosamente.

In base a questo percorso di pensiero economico e a questa evidenza empirica, l’obiettivo del piano è quello di far “convergere” il Sud con il meglio d’Europa. Ciò comporta due sfide. Una per le pubbliche amministrazioni centrali e per le Regioni. L’altra per chi, come l’autore di questo articolo, è un meridionale (specificamente un siciliano etneo). Le amministrazioni e le Regioni (e quindi la politica che le guida) devono tornare ai principi del “Rapporto Amato” di circa dieci anni fa e troppo presto accantonato e coperto da una densa coltre di oblio. Scritto da Giuliano Amato con l’apporto dei maggiori centri di analisi e ricerca, concludeva che occorreva porre l’accento sulle politiche di contesto (scuola, legalità, ricerca, efficienza amministrativa), bloccare finanziamenti a pioggia (revocandoli se già deliberati) e concentrarsi su pochi grandi programmi di lungo periodo che attiveranno sì valore aggiunto e occupazione nella fase di cantiere, ma di cui, a regime, i maggiori beneficiari saranno le generazioni future. Chi si considera “uomo di Stato” non può non operare in vista del bene di chi verrà dopo. I meridionali devono “portare l’Europa”, ossia le prassi europee, nel Sud con la convinzione dell’irreversibilità dell’euro e dell’impossibilità di periodiche svalutazioni competitive come in passato e con la certezza che se non si cambiano atteggiamenti e modi di operare si affoga. Il Mezzogiorno deve metabolizzare l’unione monetaria come l’opportunità che lo costringe a “convergere”, ossia a cambiare comportamenti. Tutti: individui, famiglie, imprese, amministrazione, ceto politico. Per il bene suo e dei suoi figli e nipoti. Chi scrive non è di Sondrio ma di Acireale.   (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 26 Settembre 2012 18:33

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