l’analisi Più produttività? Sì, ma a queste condizioni
DI GIUSEPPE PENNISI N el negoziato in corso sul ruolo della Fiat in Italia, si intrecciano due aspetti solo apparentemente distinti: il futuro del mercato dell’auto in Europa e l’andamento sconfortante della produttività in Italia. Studi micro-economici hanno confermato che la produttività del lavoro negli stabilimenti Fiat del Mezzogiorno non è inferiore a quella del resto d’Europa. Tuttavia, la buona produttività di un singolo impianto o di un intero settore riceve nel lungo periodo una trazione avversa se il resto del sistema galleggia o declina.
Prendiamo il comparto europeo dell’auto, sulla base di un lavoro dell’Università di Pavia ( Department of Economics and Management Working Paper No.1) in corso di pubblicazione. Lo studio, curato da Marcella Nicolini, Carlo Scarpa e Paola Valbonesi, esamina gli aiuti diretti ed indiretti concessi dai vari Stati europei al settore nel 1992-2008: negli Anni Novanta e all’inizio di questo secolo, c’è stato, in barba alle grida di Bruxelles, un 'gioco dinamico' dei vari Stati a incentivare l’auto (ritenuta traino dell’economia) tramite sussidi alla ristrutturazione sino a quando non è parso chiaro che il nodo era dal lato della domanda. Le sovvenzioni miravano ad aumentare la capacità produttiva mentre in una popolazione sostanzialmente stagnante, con redditi disponibili stazionari o in diminuzione, la domanda di un bene di consumo durevole come l’auto non può che ridursi.
Rispetto al resto dell’Unione europea, l’Italia è un Paese fermo a ragione della bassissima crescita della produttività. Lunedì 24 settembre, il presidente del Consiglio Mario Monti ed il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria presenteranno a Roma il progresso delle riforme strutturali mirate ad aumentare la produttività: ci vorrà almeno un decennio per recuperare quello perduto e tornare al livello del Pil pro-capite che avevamo nel 1999 (la contrazione è stata di oltre dieci punti percentuali). Una politica per la produttività comporta diversi tasselli: una struttura della produzione maggiormente ancorata al manifatturiero (negli ultimi sette anni la quota della produzione del manifatturiero è diminuita in Italia dal 22% al 15% circa), un terziario ad alto valore aggiunto non a bassa tecnologia, un maggiore spazio alla contrattazione di secondo livello che incentivi aumenti di produttività, scuola e formazione più efficienti e più efficaci, una ricerca applicata non meramente diretta a trasferire in Italia scoperte ed innovazioni straniere. L’elenco è lungo. Numerosi fondazioni private (ad esempio, Astrid e la Fondazione Rosselli), centri di ricerca pubblici , università, dicasteri ed organi di rilievo costituzionale come il Cnel stanno riflettendo su questi temi e fornendo contributi. È, però, essenziale chiedersi come e perché l’Italia ha perso quella che è stata, per decenni, una delle sue caratteristiche – l’'efficienza adattiva' – e come recuperarla. L’efficienza adattiva è la capacità di adattarsi ai cambiamenti strutturali del contesto mondiale. Abbiamo mostrato di averne più di altri nel dopoguerra sino all’inizio degli Anni Settanta e di nuovo negli Anni Ottanta. A differenza di altri (Germania in prima luogo) non siamo riusciti ad «adattarci con efficienza» alla perdita del monopolio della tecnologia di cui hanno goduto Usa, Europa ed Australia per circa 200 anni e che non hanno più dalla fine degli Anni Novanta. A ragione di questa perdita un miliardo e mezzo di uomini e donne nel resto del mondo è uscito dalla povertà assoluta, ma l’esperienza di altri Paesi prova che avremmo potuto evitare di accusare la stagnazione prima e la contrazione poi della produttività. La cause forse stanno nel sistema politico-istituzionale più che nei teoremi economici.
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