PRODUTTIVITÀ IN EUROPA ED IN ITALIA
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Roma - Quasi
in parallelo, il 20 settembre Daniel Gros e Felix Roth del Centre for European
Policy Studies hanno diramato uno studio sulla strategia “Europa 2020” e la
Fondazione Astrid ha tenuto un seminario a porte chiuse, con la partecipazione
di alcuni componenti del Governo, sulle determinanti della crisi della
produttività in Italia e sulle possibile cure. Sempre il 20 settembre il
Consiglio dei Ministri ha approvato la documentazione di base a supporto della
Decisione di Finanza Pubblica (DFP); si prevede una contrazione del 2,4%
dell’anno scorso (non molto distante dal 3% previsto da Il Velino a fine 2010
per il 2011) ed una lenta ripresa sostanzialmente a partire dal 2014. In breve,
L’Italia avrà perso 12 punti percentuale di Pil dal 2008 al 2014; se ci saranno
politiche di crescita appropriate ed un contesto europeo ed internazionale
adeguato, nel 2020 circa torneremo ai livelli della metà del primo decennio di
questo secolo. Ma non ancora a quelli del 1999, anno dell’ingresso nell’euro:
da allora al 2010 il reddito pro capite si è contratto del 10%.
Dal lavoro del Centre for European Policy Studies si deriva che l’Europa non potrà farsi da traino. Anzi la crisi in atto dal 2007 ha messo in serie difficoltà la strategia “Europa 2020” lanciata dal Consiglio Europea nel marzo 2010 (a crisi già in corso) e mirata ad una “crescita intelligente, inclusiva e sostenibile”, basata su tecnologie dell’innovazione e della comunicazione, un uso più efficiente delle risorse e meglio compatibile con l’ambiente e più alti tassi d’occupazione unitamente ad una maggiore coesione territoriale. Gros e Roth suggeriscono alla Commissione Europea, ed indi al Consiglio, di rivedere non la strategia, in termini di grandi linee di politiche per la crescita, ma gli obiettivi- ormai chiaramente irraggiungibili, anche perché quello che è stato il motore dell’Europa continentale (la Germania) è in fase di rallentamento.
In questo quadro si situa l’Italia, la cui produttività ha ristagnato per un decennio ed ha perso 4 punti percentuali (in termini di produttività multifattoriale, ossia del lavoro e del capitale) negli ultimi cinque anni. Alcune delle riforme varate negli ultimi mesi (ma decreti e regolamenti attuativi sono frenati dalla ‘lentocrazia’) possono essere utili: scuola, apprendistato, contrattazione di secondo livello. Ma al di fuori di una politica industriale morderanno poco. Tanto più che le competenze per la politica industriale sono divise tra Stato e Regioni – tendenza che aggrava la frammentazione ed impedisce quella crescita delle dimensioni aziendali che ha consentito alla Germania (ed ad altri) di traversare la crisi senza perdita di reddito, di tenore di vita e di occupazione.
Occorre porsi un interrogativo più profondo. Perché l’Italia ha perso quella ‘efficienza adattiva’ (la capacità di adattarsi ai cambiamenti strutturali del contesto mondiale) che l’ha caratterizzata nel dopoguerra sino all’inizio degli Anni Settanta e di nuovo negli Anni Ottanta? La risposta sta nel contesto: il sistema politico, il sistema giudiziario, il sistema istituzionale e la sempre maggiore oppressione fiscale. Se non tocchiamo questi aspetti, ci limiteremo con il gingillarci. (ilVelino/AGV)
Dal lavoro del Centre for European Policy Studies si deriva che l’Europa non potrà farsi da traino. Anzi la crisi in atto dal 2007 ha messo in serie difficoltà la strategia “Europa 2020” lanciata dal Consiglio Europea nel marzo 2010 (a crisi già in corso) e mirata ad una “crescita intelligente, inclusiva e sostenibile”, basata su tecnologie dell’innovazione e della comunicazione, un uso più efficiente delle risorse e meglio compatibile con l’ambiente e più alti tassi d’occupazione unitamente ad una maggiore coesione territoriale. Gros e Roth suggeriscono alla Commissione Europea, ed indi al Consiglio, di rivedere non la strategia, in termini di grandi linee di politiche per la crescita, ma gli obiettivi- ormai chiaramente irraggiungibili, anche perché quello che è stato il motore dell’Europa continentale (la Germania) è in fase di rallentamento.
In questo quadro si situa l’Italia, la cui produttività ha ristagnato per un decennio ed ha perso 4 punti percentuali (in termini di produttività multifattoriale, ossia del lavoro e del capitale) negli ultimi cinque anni. Alcune delle riforme varate negli ultimi mesi (ma decreti e regolamenti attuativi sono frenati dalla ‘lentocrazia’) possono essere utili: scuola, apprendistato, contrattazione di secondo livello. Ma al di fuori di una politica industriale morderanno poco. Tanto più che le competenze per la politica industriale sono divise tra Stato e Regioni – tendenza che aggrava la frammentazione ed impedisce quella crescita delle dimensioni aziendali che ha consentito alla Germania (ed ad altri) di traversare la crisi senza perdita di reddito, di tenore di vita e di occupazione.
Occorre porsi un interrogativo più profondo. Perché l’Italia ha perso quella ‘efficienza adattiva’ (la capacità di adattarsi ai cambiamenti strutturali del contesto mondiale) che l’ha caratterizzata nel dopoguerra sino all’inizio degli Anni Settanta e di nuovo negli Anni Ottanta? La risposta sta nel contesto: il sistema politico, il sistema giudiziario, il sistema istituzionale e la sempre maggiore oppressione fiscale. Se non tocchiamo questi aspetti, ci limiteremo con il gingillarci. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 22 Settembre 2012 12:48
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