Lohengrin scalda gli animi
Regia
discussa all'inaugurazione della Scala
di Giuseppe
Pennisi
E infine arrivò il Lohengrin, di cui
si parlava da settimane sia per la scelta di Wagner come autore con cui iniziare
la stagione scaligera (nel 1813 sono nati sia Wagner sia Verdi) sia per la
lettura innovativa, e provocatoria, annunciata da Ronny Dietrich (drammaturgo)
e Claus Guth (regista).
In effetti, nonostante le ovazioni a Barenboim, all'orchestra, ai cantanti
e al coro (che in Lohengrin è protagonista), nel pubblico e ancor di più tra i
critici in sala, serpeggiavano forti perplessità sull'allestimento scenico e
sulla drammaturgia. Guth è un regista apprezzabile: è stata di alto livello la
sua trilogia Da Ponte-Mozart a Salisburgo (soprattutto Le nozze di Figaro) così
come la sua lettura nella scorsa stagione de La donna senz'ombra di Richard
Strauss alla Scala. Tuttavia questo è un Lohengrin per iniziati: pochi sanno,
per esempio, che la scena firmata da Christian Schmidt per i costumi
rappresenta il cortile di casa Wagner, denso di traumi e di rapporti familiari
molto tesi. La chiave di lettura, poi, si svela unicamente al terzo atto dopo
oltre tre ore in teatro: pone l'accento sulla psicoanalisi coeva della Donna
senz'ombra ma distante anni luce dalla poetica di Wagner. Per Guth e Dietrich,
Lohengrin ed Elsa sono due altèri o outsider in un mondo di capitalismo
nascente che essi non comprendono, che non li comprende e che porta alla
tragedia finale. La recitazione è accuratissima e ogni mossa è studiata,
sebbene sembri naturale. Nel complesso dunque la regia non è banale ma resta
oscura per molti spettatori.
Inoltre in Wagner Lohengrin non
tratta soltanto di rapporto di coppia. Nella «grande opera romantica in tre
atti», come venne sottotitolata dall'autore, Elsa e il Cavaliere del Cigno non
riescono a comunicare, fin dalla prima notte di nozze, poiché mancano di
reciproca fiducia. Altri due elementi fondanti sono il contesto storico
(l'alleanza dei popoli tedeschi per respingere invasioni dall'Est) e i primi
passi del cristianesimo in un mondo ancora pagano. Questi due aspetti vengono
ignorati da Guth e Dietrich ma non dalla partitura.
Di grande livello la parte musicale.
Fin dalle prime battute dell'ouverture Barenboim dà un'interpretazione lenta,
solenne, quasi mistica del lavoro che fa risaltare ancora di più l'inizio
''agitato'' del terzo atto (quando stringe i tempi per preparare la tragedia
finale). Jonas Kaufmann è un perfetto protagonista, costretto a equilibrismi
d'atleta (canta steso per terra l'aria iniziale, volgendo le spalle al pubblico
e alzandosi lentamente fino a guardare la platea), ha un legato dolcissimo, un
fraseggio da manuale e, nel racconto finale, sale lentamente dal ''pianissimo''
all'acuto. Unicamente Evelyn Herlitzius è alla sua altezza. Buoni i due soprano
che si alternano nel ruolo di Elsa, più dolce Ann Petersen e più sensuale Anja
Harteros. René Pape è ancora un efficace Re Enrico. Il cattivo Federico
Telramondo è un Tómas Tómasson agli scatti finali di una gloriosa carriera.
Merita elogi il coro scaligero che, guidato da Bruno Casoni, ha dato il meglio
di sé in un ruolo complesso, denso di passaggi impervi. (riproduzione
riservata)
Nessun commento:
Posta un commento