IL CASO/ Lo
"sgambetto" di Cina e India alle imprese italiane
martedì 18 dicembre 2012
Infophoto
Nel calendario cinese, il 2013 è “l’anno del
serpente”. Per i cinesi, il serpente non è un animale viscido e ingannatore, ma
un simbolo di calma relativa. I miei amici di Singapore, dove ho lavorato molti
anni fa e sono stato più volte anche in tempi non lontani, mi dicono che con
l’anno del serpente 2013 (nel calendario cinese i simboli di animali seguono un
ciclo di 12 anni) dal 10 febbraio si entrerà in una fase senza insuccessi ma
neanche grandi successi - il momento per rilassarsi e ricaricare le proprie
batterie. Nella seconda metà dell’anno, mentre ci si approssimerà al prossimo
dicembre, ci saranno segni, sempre più evidenti, di miglioramento.
Sono indicazioni che giungono anche dai principali
modelli econometrici dell’economia internazionale, specialmente da quelli che,
a differenza degli strumenti neo-keynesiani che hanno normalmente un’ottica di
due anni, guardano al lungo periodo. La conclusione principale è che nel 2030
il 40% circa del Pil mondiale sarà generato da India e Cina - una proporzione
analoga a quella stimata da Angus Maddison per il 1830 (l’anno più distante per
il quale il paziente storico economico era riuscito a ricostruire la
contabilità economica delle principali nazioni).
In altri termini, la fase in cui in piccolo gruppo di
paesi dell’Europa, del Nord America e del Pacifico (Australia, Nuova Zelanda)
hanno avuto il monopolio del progresso tecnologico è finita negli anni Novanta
del secolo scorso e i suoi effetti saranno in gran parte esauriti. Ciò comporta
un riassetto profondo, anche e soprattutto dei consumi. Prendiamo alcune cifre
da analisi recenti della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale e
del Centro Europa ricerche (Cer).
Fatto pari a 100 il Pil pro-capite Usa, quello dell’Italia
resterà attorno al 71-74% dal 2009 al 2050, ma quelli di Francia e Germania
potranno crescere nello stesso periodo rispettivamente dal 76% all’83% e dal 79
all’82% e quello del Regno Unito dall’81% all’87%. Mentre nell’area atlantica i
rapporti resteranno, quindi, sostanzialmente immutati, il Pil pro capite di
Cina e India (rispetto a quello degli Usa e, dunque, dei maggiori paesi
europei) passerà rispettivamente dal 14% e dal 7% circa al 45% e al 28%. Ci
sarà una rapida crescita dei ceti medi, più marcata in Cina e India che in
Brasile, Russia e altri paesi emergenti.
Tanto la politica quanto le imprese devono raccogliere
la sfida. Soffermiamoci in primo luogo sulle imprese. Di fronte a questo
scenario, chi non si internazionalizza muore: occorre difendere e rafforzare la
propria competitività non solo nei paesi più ricchi e più avanzati (che, come
si è visto, resteranno tali per diversi decenni), ma anche nei paesi emergenti
per soddisfare non solo le loro esigenze di investimenti in conto capitale (la
strategia di export di macchine utensili seguita per anni dalla Germania), ma
anche i loro crescenti consumi. Nei paesi emergenti, mentre una piccola fascia
della popolazione ricercherà il lusso dei comparti a più alto reddito dei paesi
Ocse, la grande maggioranza dei nuovi consumatori si indirizzerà a consumi più
frugali di quelli del Nord America e dell’Europa. Ma, specialmente in Europa,
anni di politiche di austerità spingeranno verso una frugalità maggiore di
quella del recente passato il ceto medio.
Negli Stati Uniti, l’Office of Social Innovation and
Civic Partecipation della Casa Bianca sta esaminando da tempo il fenomeno per
fornire, tramite il Department of Commerce, indicazioni utili alle imprese. In
Gran Bretagna, il National Endowment for Science, Technology and the Arts è
alle prese con progetti analoghi che riguardano principalmente comparti di
prima necessità come l’alimentazione, l’abbigliamento e i trasporti urbani.
Sarebbe auspicabile che la Commissione europea si ponesse obiettivi analoghi e
che, nel prossimo settennato, i Fondo strutturali europei finanziassero
progetti sperimentali nel campo del riassetto della produzione dei beni di
consumo; potranno essere utili sia al mercato interno, sia all’export.
L’alternativa è il soddisfacimento dei consumi più
frugali in quelli ancora chiamati “i paesi del benessere” facendo ricorso
all’import dai paesi emergenti. Seguendo il primo percorso, le imprese europee
si aggancerebbero alla ripresa mondiale e avrebbero spazio per espansione della
produzione e dell’occupazione. Seguendo il secondo, invece, avrebbero margini
sempre più ristretti e continuerebbero e perdere posti di lavoro.
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