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LOHENGRIN/ Giovani entusiasti: la trasparenza di Wagner non è
"oscura"
mercoledì 5 dicembre 2012
I giovani alla Scala
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Uscendo, dopo diverse ore di spettacolo,
dall’anteprima del Lohengrin scaligero del 4 dicembre non potevo non tornare
alla memoria alle mie prime esperienze con Wagner, chiamato ‘’oscuro’ nel
titolo un libro di successo di Mario Bortolotto. La prima volta che misi
piede in un teatro d’opera fu a Roma nel 1954 (avevo 12 anni) per Der Fliegende
Holländer, allora ancora chiamato Il Vascello Fantasma (secondo una prassi
francese) e rappresentato in tre atti (non, secondo l’intenzione dell’autore,
senza intervalli): dirigeva Karl Böhm. Un allestimento tradizionale di Camillo
Paravicini. Cantavano Leonie Rysanek, Ludwig Weber e Hans Hopf. Non c’erano
sovra titoli ma compresi ogni accento e ne restai incantato. Da allora l’opera
in generale, non solo quella di Wagner, diventò parte della mia vita. Pochi
anni dopo, vidi ed ascoltai, in diurna domenicale, senza sovra titoli, Tristan
und Isolde dirigeva Heinz Wallberg, regia di Friedrich Schramm, scene di Emil
Praetorius, e con Birgit Nilsson (Isotta), Rita Gorr (Brangania), Wolfgang
Windgassen, Gustav Neidlinger e Alfons Herwig. Infine, nel 1961, sempre a
Roma il Ring diretto da Lovro Mata I con un cast di altissimo livello (le
quattro opere spalmate su sei giorni) e con la regia di Wieland Wagner e,
subito dopo, Lohengrin cantato in italiano alle Terme di Caracalla, e con una
regia tradizionale e colossal (cavalli in scena al primo atto). Allora si
andava a teatro in autobus, lo spettacolo iniziava alle 21 e si tornava con il
“notturno” dopo le due del mattino. Stanchi ma lieti. Ciò che più mi
colpiva era la trasparenza rispetto al melodramma verdiano (a cui ero uso).
Un caso isolato? Nel 1992, non potendo lasciarlo a
casa, portammo a Spoleto nostro figlio quindicenne per una buona edizione di
Die Meistersinger von Nürnberg: l’opera è la più lunga di quelle di Wagner
(quattro ore e mezzo di musica). Lo spettacolo iniziava alle 16 e tra il
secondo e il terzo atto (due ore e venti minuti) si prevedeva un intervallo di
un’ora e mezza per la cena. Regia ancora una volta tradizionale. Sovra
titoli. Il ragazzo si divertì, rise e seguì il complesso intreccio. Ultimo esempio:
nel gennaio 2009 invitai tutta la famiglia (figlia, figlio con la sua compagna)
alla prima del Lohengrin al Teatro Massimo di Palermo. Inizio alle 18 con cena
dopo spettacolo, sovra titoli, allestimento efficace di Hugo de Ana. Rimasero
entusiasti. Anche in questo caso una produzione a basso costo (ad esempio senza
cavalli in scena) ma tradizionale in cui si individuavano bene i tre assi porta
della ‘grande opera romantica in tre atti’ (così la chiamò Wagner): a) il
contesto storico della chiamata a raccolta di regni e ducati germanici contro
l’invasione degli ungaro-finnici; b) il quadro religioso (Wagner era un
luterano praticante) dell’inizio del cristianesimo in un mondo in cui si
veneravano le divinità animiste; c) l’amore concepito come fiducia piena
nel partner, mancando la quale scatta la tragedia.
La sera del 4 dicembre il pubblico di
giovani è stato entusiasta e ha rivolto vere e proprie ovazioni all’orchestra e
agli interpreti. Parlando con alcuni di loro in metropolitana mi domando quanti
abbiano afferrato il complesso gioco psicanalitico della drammaturgia di Ronny
Dietrich e della regia di Claus Guth. Solo il terzo dei tre elementi indicati
(il rapporto d’amore) si percepisce a tutto tondo. Ne parleremo più a lungo in
sede di recensione. Ma allora perché tutti quei giovani si sono spellati le
mani applaudendo? Ha vinto ancora una volta la trasparenza della musica di
Wagner rispetto a drammaturgia e regia che diversi musicologi in sala
consideravano ‘oscure’.
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