IL CASO/ C'è
una "ricchezza" italiana che fugge verso l’estero
lunedì 3 dicembre 2012
Infophoto
Approfondisci
<
Il primo fine settimana di dicembre la stampa
quotidiana ha dato ampio spazio, tanto nei servizi quanto nei commenti, agli
ultimi drammatici dati sulla disoccupazione. Essi esprimono la percentuale, sul
totale della forza lavoro, di chi cerca attivamente un’occupazione senza trovarla.
I dati fanno davvero paura, perché, dal 2008, le forze di lavoro si stanno
restringendo a causa della recessione che spinge uomini e donne, disillusi
dalla mancanza d’opportunità, a lasciare il mercato del lavoro e a smettere di
cercare occupazione anche precaria. In Italia, dove cinque anni fa il tasso di
disoccupazione era meno dell’8% della forza lavoro, ora si è superato l’11% di
una forza lavoro che - lo ribadiamo - è diminuita. Entro l’estate prossima
potrebbe toccare il 12%.
Alcune testate hanno lanciato una polemica: i posti ci
sarebbero, ma o non li vogliamo o se li prendono gli extracomunitari a
condizioni che gli italiani non accetterebbero. I posti a cui si fa riferimento
sono quasi tutti a basso contenuto tecnologico e bassa qualifica professionale
(panettiere, operaio, bracciante, ecc.). Così si fa disinformazione e si
confondono idee e acque in chiacchiere da bar.
Cerchiamo di esaminare il problema sinteticamente, ma
con logica economica e statistiche ufficiali. In primo luogo, l’occupazione non
cresce e aumenta il tasso di coloro che cercano lavoro senza trovarlo perché
dal 2008 il Pil ha subito una contrazione del 12% e minaccia di contrarsi
ancora nei prossimi mesi per poi riprendersi a un tasso molto lento (0,33%
l’anno). Ciò dipende non solo dal contesto internazionale, ma soprattutto dalla
bassa crescita della produttività (si veda il grafico a fondo pagina).
Le ragioni sono molteplici. Dato che spesso studiando
il singolo albero si comprendono meglio le caratteristiche del bosco, soffermiamoci
su produttività e innovazione. Un lavoro Istat in fase di completamento
individua una determinante non secondaria dello scoraggiante andamento della
produttività in Italia nella scarsa diffusione della Information Communication
Technology (Ict) avvertendo che “da sola non basta; è necessario investire in
fattori complementari come il capitale umano e organizzativo”. Quindi in
politiche dell’innovazione.
L’Agenda digitale, che, peraltro, rischia di
impantanarsi in Parlamento e nei numerosi “tavoli tecnici”, viene riconosciuta
da tutti gli esperti e da tutto lo schieramento politico come insufficiente. Se
dalle politiche si va alle azioni concrete, è eloquente che la Scuola Superiore
della Pubblica Amministrazione, molto attiva sino al 2005-2006 nella formazione
per la digitalizzazione della funzione pubblica, abbia cessato di operare in
questo campo.
Scendendo più nel dettaglio, è banale affermare che
per fare innovazione in materia di Ict ci vogliono persone preparate a questo
compito. L’Indagine Excelsior 2012 dell’Unione delle Camere di Commercio è, in
materia, molto chiara: tra i venti settori dove c’è maggiore mismatching tra
domanda e offerta di lavoro tra laureati, i primi tre in termini sia di numeri
assoluti, sia di percentuali (di offerte di lavoro che non si riescono a
coprire) sono quelli in cui si richiede una laurea in ingegneria informatica:
quest’anno siamo riusciti a coprire l’84% delle offerte di lavoro per
progettisti di sistemi informatici facendo ricorso all’estero (Irlanda, India),
ma abbiamo coperto solo il 33% delle offerte per consulenti di software, il 30%
di quelli per analisti programmatori, il 29% di quelli per programmatore
informatico e il 22% di quelli per sviluppatore di software (la professionalità
che più incide sull’innovazione).
A conclusioni analoghe giunge un lavoro (in corso di
completamento) della Banca d’Italia: nel settore Ict siamo più o meno in linea
con il resto dell’Europa continentale, ma a livelli relativamente bassi in un
confronto mondiale, in termini di dimensioni d’impresa e di produttività.
Inoltre, abbiamo una struttura occupazionale in cui le basse qualifiche sono
più presenti che in atri paesi. Ci sono anche indicazioni di emigrazione di
ingegneri informatici italiani verso l’estero.
Non conosco studi dettagliati del fenomeno. C’è, però,
un indizio eloquente. La retribuzione mediana lorda di un ingegnere informatico
nel prime della sua età (35-40 anni) si aggira sui 40.000 euro
lordi l’anno (un netto in busta paga di circa 25.000 euro) mentre, secondo la
Banca d’Italia, la sua produttività annua è di circa 80.000 euro. Il Governo
“tecnico” non dovrebbe trattare questo problema nell’Agenda Digitale?
© Riproduzione Riservata.
Nessun commento:
Posta un commento