GEOFINANZA/
Il "mal francese" che mette a rischio Europa e Italia
lunedì 24 dicembre 2012
Francois Hollande (Infophoto)
Nel lessico perbenista, puritano e vagamente ipocrita
dei nostri nonni, il “mal francese” era una malattia venerea che, prima della
scoperta della penicillina, indeboliva il corpo e la mente; nel più noto dramma
di Ibsen, Spettri, portava a cecità e follia. Di “mal francese” si parla
poco in Francia, dove la stampa su carta è attagliata da una gravi crisi (solo
a Le Figaro 90 giornalisti perderanno il posto nei prossimi dodici mesi)
e attende provvidenze da Pantalone, mentre le televisioni sono sempre state
governative (quale che fosse l’inquilino dell’Eliseo e la maggioranza all’Assemblea
nazionale). In questi giorni di fine d’anno, però, il “mal francese” è uno dei
temi centrali di dibattito in Germania e alla Commissione europea. E nel mai
sopito ricordo della Guerra dei 100 anni, The Economist ha dedicato al
tema un supplemento speciale.
Andiamo con ordine: la perdita di competitività del
sistema economico francese è stata preconizzata dal “Rapport Beffa”, dal nome
dell’industriale Jean Louis Beffa, che per conto dell’allora Presidente della
Repubblica Jacques Chirac, aveva tracciato, nel 2005, un esame impietoso della
diminuzione progressiva del manifatturiero del Paese e lanciato una proposta
dirompente: rinunciare a puntare su “campioni nazionali” e cercare di
costruire, con i partner dell’Unione europea, “campioni europei” in grado di
fare fronte al nuovo contesto internazionale.
Il “Rapport Beffa” suscitò, allora, un animato
dibattito, anche in Italia, ma venne presto dimenticato a ragione dei moti
nelle banlieues, della campagna presidenziale che portò Nicolas Sarkozy
all’Eliseo e della crisi finanziaria scoppiata (Oltralpe) nell’estate 2007. Un
nuovo documento, “Il Rapport Gallois” - altro noto industriale ora a riposo - è
giunto sul tavolo di François Hollande, che lo ha commissionato lo scorso
ottobre: anche in quanto dal 2005 è stata somministrata unicamente aspirina, il
documento afferma che la Francia avrà difficoltà a far fronte alla competizione
mondiale (e forse pure a restare leader nell’eurozona) se non mette in atto una
“terapia shock”: liberalizzazione del mercato del lavoro, riassetto della
previdenza e della sanità, sgravi tributari ai settori produttivi, abbandono
dei veri o presunti “campioni nazionali” in favore di “campioni europei” e via
discorrendo.
Il rapporto sarebbe dovuto restare “segretato”, ma
anche all’Eliseo ci sono “spie”. Ne sono uscite alcune parti, scatenando
furore. Hollande ha allora proposto un “patto per la competitività” sotto
l’egida del Consiglio economico e sociale (il Cnel francese). Il ministro
dell’Economia e delle Finanze, Pierre Moscovici, ha aggiunto che «un patto è
sempre meglio di uno shock». Tuttavia, non tanto i sindacati quanto
l’iper-conservatore settore agricolo francese (ampiamente sussidiato dai
contribuenti europei) e parte del “patronat” (gli industriali) non vogliono sentire
parlare né di “shock”, né di “patto” e invitano Gallois a godersi pensione e
nipoti, diffidando i media di occuparsi troppo del documento.
Il quadro, non certo roseo, tracciato da Gallois è
sostanzialmente condiviso dagli economisti del Cesifo di Monaco: i principali
indicatori (Pil, occupazione, export) suggeriscono che la Francia sta entrando
in un rallentamento e in una recessione strutturale (non congiunturale) di cui
l’opinione pubblica (che accusa ancora la “bolla immobiliare” americana di cinque
anni fa) non vuole rendersi conto. Lars P. Feld, professore all’Università di
Friburgo e consigliere del Cancelliere, ci dice: «Se la Francia non riesce a
gestire il pericolo di una perdita progressiva di competitività, minaccia di
diventare “il grande ammalato d’Europa”, un “ammalato” più pericoloso
dell’Italia (per la tenuta dell’euro, ndr) a ragione e delle proprie dimensioni
e del proprio ruolo nella creazione dell’unione monetaria».
In altri termini, se il “mal francese” non viene
curato rapidamente ed efficacemente , l’area dell’euro è a serio rischio. Al
Fondo monetario internazionale (il cui Managing Director è
francese) si sottolinea che la sfera del settore pubblico (56% del Pil) deve
fare rapidamente marcia indietro, aggiungendo che i paesi nordici (Danimarca,
Finlandia) che hanno un intervento dello Stato (e degli enti locali) così
pervasivo hanno popolazioni e demografia ben diverse da quelle della Francia,
un’industria altamente tecnologica e un comparto agricolo ormai marginale e
tenuto in piedi principalmente per fini ambientali.
Interessante la diagnosi di Pascal Lamy, da sempre
iscritto al Partito socialista e ora Direttore generale dell’Organizzazione
mondiale del commercio: «In Francia, pochi capiscono il funzionamento del
mercato e che “competitività” non è una parolaccia; ancora di meno sono quelli
che credono che la creazione di valore è la funzione primaria di un’azienda».
In effetti, sposato da 45 anni con una francese proveniente da una Provincia
(la Borgogna) benestante grazie alla politica agricola comune europea, non
posso che condividere le affermazioni di Lamy.
In Francia l’intervento pubblico è pervasivo sin dai
tempi di Colbert, ministro delle Finanze di Luigi XIV. Non è “impiccione” e
“pasticcione” - come in un libro del lontano 1976 Giuliano Amato definì quello
italiano -, ma nella sua razionalità ed efficacia può fare più danni
all’economia di quello nostrano: “impicci” e “pasticci” lasciano spazi che la
ben addestrata tecnocrazia francese non permette. È arduo pensare in Francia a
privatizzazioni e liberalizzazioni, magari “impiccione” e “pasticcione” come
quelle effettuate in Italia nell’ultimo quarto di secolo. Al contrario, mentre
il “Rapporto Gallois” veniva filtrato alla stampa, una delle maggiori banche
veniva nazionalizzata e si minacciava l’intervento pubblico in un’industria
siderurgica ormai appartenente all’archeologia del settore.
L’Italia non deve rallegrarsi del “mal francese”. Se
con l’aggravarsi della situazione i Francia si smotta l’eurozona, noi siamo tra
le vittime designate.
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