OPERA/ Il doppio debutto
romano: si inizia con il “Simon Boccanegra” di Giuseppe Verdi
giovedì 29
novembre 2012
Un momento del Simon Boccanegra
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La sera del 27 novembre con “Simon Boccanegra”
di Giuseppe Verdi, alla Presenza del Presidente della Repubblica e del
Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché di vari Ministri e del Sindaco,
avrà luogo un doppio debutto al Teatro dell’Opera di Roma: da un lato una
stagione lirica con un cartellone che pone il teatro romano come rivale della
Scala, dall'altra Riccardo Muti che, a 71 anni, si cimenta nella concertazione
di una delle più complesse opere di Giuseppe Verdi. Un breve cenno all’opera,
dimenticata per diversi decenni sino a quando negli Anni Sessanta e Settanta
Gianandrea Gavazzeni e Claudio Abbado dimostrarono che è delle più importanti
del catalogo verdiano. Simon Boccanegra è il primo doge di Genova nel periodo
storico di transito dal Medioevo al Rinascimento.
L’opera è stata una delle più “maledette” tra le “opere maledette” di Verdi. Fu un tonfo alla “prima” alla Fenice nel 1857 e, rimaneggiata nel libretto e nella musica, ebbe esiti modesti nelle riprese a Reggio Emilia, Milano, Napoli e Firenze nel 1858-59. Ripensata, con l’aiuto di Arrigo Boito che rimise mano a parti essenziali del libretto, fu un successo di breve durata quando la versione, adesso corrente, raggiunse La Scala nel 1881. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, venne dimenticata. Gino Marinuzzi, consapevole che si trattasse di un capolavoro unico nel teatro verdiano ed europeo più in generale, tentò di rilanciarla, a Roma, nel 1934.
Da allora, “Boccanegra” ha ripreso un lento cammino, giungendo alla consacrazione internazionale vera e propria grazie a due edizioni eccellenti, ma molto differenti: quella di Gianandrea Gavazzeni, tragica, cupa, quasi infernale (ascoltabile in un mirabile cd della Rca, nettamente superiore a una versione sempre curata da Gavazzeni pochi anni prima), e quella di Claudio Abbado, invece, dolce, densa di colori chiari e di volumi leggeri (impareggiabili le evocazioni marine) che in un allestimento di Strehler e Frigerio ha viaggiato a Londra, Parigi, Mosca, Washington e Vienna ed è disponibile in cd e in dvd. Vidi la versione “Abbado” nel 1976 a Washington quando vi venne portata in tournée dalla Scala in occasione del bicentenario dell’indipendenza Usa. Ho anche visto, a Firenze, una seconda edizione “Abbado”, con la regia di Peter Stein, concepita per il Festival di Salisburgo del 2000. A differenza dell’edizione del 1971 in cui , in un gioco di luci, dominava la brezza marina, mentre oggi elementi scenici essenziali e la recitazione raffinata contrappuntano l’apologo del potere e dell’amore paterno nel viaggio di Simone verso la morte. Abbado dava all’opera una tinta soffusa, notturna, sofferente e commossa, priva forse delle evocazioni marine ma ancora più distante dalla lettura di Gavazzeni (o di quelle di Fabio Luisi e Bruno Bartoletti, ascoltate di recente). In breve, Muti gareggia con due giganti. Non includo nel novero Michele Mariotti che pochi anni fa, affrontò l’opera nel 2007 a Bologna a 28 anni, troppo giovane per carpirne i maturi segreti.
L’opera è stata una delle più “maledette” tra le “opere maledette” di Verdi. Fu un tonfo alla “prima” alla Fenice nel 1857 e, rimaneggiata nel libretto e nella musica, ebbe esiti modesti nelle riprese a Reggio Emilia, Milano, Napoli e Firenze nel 1858-59. Ripensata, con l’aiuto di Arrigo Boito che rimise mano a parti essenziali del libretto, fu un successo di breve durata quando la versione, adesso corrente, raggiunse La Scala nel 1881. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, venne dimenticata. Gino Marinuzzi, consapevole che si trattasse di un capolavoro unico nel teatro verdiano ed europeo più in generale, tentò di rilanciarla, a Roma, nel 1934.
Da allora, “Boccanegra” ha ripreso un lento cammino, giungendo alla consacrazione internazionale vera e propria grazie a due edizioni eccellenti, ma molto differenti: quella di Gianandrea Gavazzeni, tragica, cupa, quasi infernale (ascoltabile in un mirabile cd della Rca, nettamente superiore a una versione sempre curata da Gavazzeni pochi anni prima), e quella di Claudio Abbado, invece, dolce, densa di colori chiari e di volumi leggeri (impareggiabili le evocazioni marine) che in un allestimento di Strehler e Frigerio ha viaggiato a Londra, Parigi, Mosca, Washington e Vienna ed è disponibile in cd e in dvd. Vidi la versione “Abbado” nel 1976 a Washington quando vi venne portata in tournée dalla Scala in occasione del bicentenario dell’indipendenza Usa. Ho anche visto, a Firenze, una seconda edizione “Abbado”, con la regia di Peter Stein, concepita per il Festival di Salisburgo del 2000. A differenza dell’edizione del 1971 in cui , in un gioco di luci, dominava la brezza marina, mentre oggi elementi scenici essenziali e la recitazione raffinata contrappuntano l’apologo del potere e dell’amore paterno nel viaggio di Simone verso la morte. Abbado dava all’opera una tinta soffusa, notturna, sofferente e commossa, priva forse delle evocazioni marine ma ancora più distante dalla lettura di Gavazzeni (o di quelle di Fabio Luisi e Bruno Bartoletti, ascoltate di recente). In breve, Muti gareggia con due giganti. Non includo nel novero Michele Mariotti che pochi anni fa, affrontò l’opera nel 2007 a Bologna a 28 anni, troppo giovane per carpirne i maturi segreti.
È anche una delle opere più apertamente “politiche” di
Verdi. Le diverse versioni di “Boccanegra” e l’epistolario del maestro
di Busseto, rivelano come Verdi fosse un partecipante entusiasta al movimento
di unità nazionale, ma diventasse progressivamente deluso da una “politica
politicante”,come il protagonista del romanzo incompiuto “L’imperio” di
Federico De Roberto, sempre più distante dalla sua visione lungimirante. Nella
scena-chiave di “Boccanegra”, il doge fa proprio l’appello di Francesco
Petrarca di porre fine alle guerre tra le repubbliche di Genova e di Venezia
allo scopo di lavorare insieme per un’Italia libera, ma non è compreso né dai
patrizi né dai plebei. Ciò innesca l’intrigo che porta alla catarsi finale. “Boccanegra”
(i cui temi “politici” in parte verranno ripresi in “Don Carlo” e in “Otello”)
svela un rapporto tormentato con la politica analogo a quello con la religione:
la visione a lungo raggio della Politica con la “p” maiuscola e i programmi per
realizzarla vengono bloccati da una politica con la “p” minuscola ridotta a
intrighi.
Nell’edizione in scena a Roma, Muti offre un
‘Boccanegra’ per molti aspetti simile a quello che nel 2000 Abbado presentò a
Salisburgo . Una tinta orchestrale cupa ammorbidita dal richiamo alle onde del
mare, che per il protagonista vuole dire libertà. Ottimi i fiati e gli
ottoni. La regia di Adrian Noble, le scene rinascimentali di Dante
Ferretti, e la curata la recitazione rendono lo spettacolo di livello e
giustificano le vere e proprie ovazioni al calar del sipario. Il baritono
romeno George Petean è un Doge statuario con una vocalità ben distante da
quelle delle altre tra voci gravi - Quinn Kelsey, Riccardo
Zanellato e Dmitry Beloselskiy -, cuore della parte politica. Francesco Meli e
Maria Agresta sono efficaci e toccanti nella giovane coppia al centro della
parte privata. All’applausometro, Meli ed Agresta hanno trionfato sugli altri.
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