QUANDO LA DEMOCRAZIA FISCALE È
SOTTO CASA
Edizione
completa
Roma - Il vostro ‘chroniqueur’ è un
melomane; lo sanno tutti. Eppure è stata uno delle pochi voci ad apporsi quando
due anni fa, il Fondo Unico per lo Spettacolo (per il 50 per cento dedicato
alla musica lirica) è stato, dopo un appello del Maestro Riccardo Muti ad una
rappresentazione di Nabucco alla presenza del Presidente della Repubblica,
rimpinguato imponendo un’accisa ad hoc sulla benzina. Mi è parso un sopruso
fiscale. Molto differente dall’atto di democrazia fiscale assunto nel 1945 dal
Consiglio Comunale di Vienna che approvò un’imposta di scopo(rispondendone agli
elettori)per la ricostruzione della Staatsoper dopo che la Commissione del
Piano Marshall si era rifiutata di includere tale progetto tra le opere prioritarie.
In Italia, abbiamo da qualche anno le opportunità di democrazia fiscale sottocasa e non ce ne accorgiamo preferendo la strada borbonica dell’oppressione tributaria (i cui risultati sono sotto gli occhi tutti. E’ questa la riflessione che viene dalla lettura di un lavoro collettaneo dell’ISFOL (Il Cinque per Mille come strumento di partecipazione nel nuovo modello di welfare- Un’indagine sui contribuenti e sulle associazioni di promozione sociale) presentato il 31 ottobre scorso al CNEL.
Non è questa la sede per riassumere i contributi al volume. Né tanto meno per ricapitolare la normativa che dal 2005 ad oggi (ossia un periodo abbastanza breve) oltre 15 milioni di italiani abbiamo scelto consapevolmente a chi indirizzare una parte (pur piccolissima) delle loro tasse. Né tanto meno per fare un quadro dei circa 30 mila beneficiari. In questo contesto, preme sottolineare alcuni punti che riguardano il fisco, lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In primo luogo, a nessuno fa piacere tirare fuori dalle proprie tasche quattrini spesso sudati per darli all’Erario. Fa meno piacere se non si sa nulla sulla destinazione. Ho vissuto quindici anni negli Usa e sapevo che il gettito dell’IMU era convogliato alle scuole: quindi se abitavo in una casa con un alto reddito catastale (ed un elevato IMU) sapevo di potere contare su buone scuole pubbliche per i figli. Quando viaggiavo in auto, l’autostrada era contrassegnata da cartelli Your Highway Taxes at Work (i tuoi pedaggi autostradali al lavoro). Sapevo che potevo protestare (e giungere alla protesta fiscale) se le scuole erano di cattiva qualità o se il gestore manteneva male le autostrade. Sapevo anche che teatri e musei erano finanziati con matching grants (quanto più da il privato tanto più da l’erario). Il cinque per mille consente (nel suo piccolissimo) questa forma di democrazia fiscale: se non sono soddisfatto di quando da un potenziale beneficiario, mi rivolgo ad un altro od a nessuno.
In secondo luogo, tutti parlano, spesso a sproposito, di John Maynard Keynes ma pochi ricordano il discorso che fece a Madrid nel 1930 tratteggiando quale sarebbe stato il mondo nel 1960 (se non ci fosse stata una guerra mondiale). Grazie alla tecnologia, sarebbero bastate mediamente tre ore al giorno per soddisfare le esigenze di base. Da un lato, però, le esigenze sarebbero diventate più complesse (anche a ragione dell’invecchiamento). Da un altro, la macchina statale non sarebbe stata in grado di farvi fronte. Keynes preconizzava una Big Society organizzata in parte su lavoro volontario e semi-volontario. Quando 17 anni fa, riallacciandomi al discorso di Keynes, solo pochi economisti come Stefano Zamagni mi presero sul serio. Alla fine il saggio, respinto da riviste economiche a cui collaboravo frequentemente, è stato pubblicato dalla rivista dell’Istituto Sturzo. Oggi, però, proprio l’esperienza del cinque per mille documentata dall’ISFOL prova che questo è il tracciato della modernizzazione.
In terzo luogo, da circa due anni e mezzo sono componente del CNEL nella pattuglia di esperti nominati dal Capo dello Stato. Nei dibattiti in Commissione ed in Assemblea, noto che gli otto rappresentanti del Terzo Settore hanno maggiore contezza della società e delle sue esigenze di molti inviati a Villa Lubin perché pensionati e legati al mondo fordista - taylorista della loro giovinezza. Se chi difende l’esistente perde sempre, chi vive cercando di tornare al passato perde ancora di più.
(ilVelino/AGV)
In Italia, abbiamo da qualche anno le opportunità di democrazia fiscale sottocasa e non ce ne accorgiamo preferendo la strada borbonica dell’oppressione tributaria (i cui risultati sono sotto gli occhi tutti. E’ questa la riflessione che viene dalla lettura di un lavoro collettaneo dell’ISFOL (Il Cinque per Mille come strumento di partecipazione nel nuovo modello di welfare- Un’indagine sui contribuenti e sulle associazioni di promozione sociale) presentato il 31 ottobre scorso al CNEL.
Non è questa la sede per riassumere i contributi al volume. Né tanto meno per ricapitolare la normativa che dal 2005 ad oggi (ossia un periodo abbastanza breve) oltre 15 milioni di italiani abbiamo scelto consapevolmente a chi indirizzare una parte (pur piccolissima) delle loro tasse. Né tanto meno per fare un quadro dei circa 30 mila beneficiari. In questo contesto, preme sottolineare alcuni punti che riguardano il fisco, lo sviluppo e la lotta alla povertà.
In primo luogo, a nessuno fa piacere tirare fuori dalle proprie tasche quattrini spesso sudati per darli all’Erario. Fa meno piacere se non si sa nulla sulla destinazione. Ho vissuto quindici anni negli Usa e sapevo che il gettito dell’IMU era convogliato alle scuole: quindi se abitavo in una casa con un alto reddito catastale (ed un elevato IMU) sapevo di potere contare su buone scuole pubbliche per i figli. Quando viaggiavo in auto, l’autostrada era contrassegnata da cartelli Your Highway Taxes at Work (i tuoi pedaggi autostradali al lavoro). Sapevo che potevo protestare (e giungere alla protesta fiscale) se le scuole erano di cattiva qualità o se il gestore manteneva male le autostrade. Sapevo anche che teatri e musei erano finanziati con matching grants (quanto più da il privato tanto più da l’erario). Il cinque per mille consente (nel suo piccolissimo) questa forma di democrazia fiscale: se non sono soddisfatto di quando da un potenziale beneficiario, mi rivolgo ad un altro od a nessuno.
In secondo luogo, tutti parlano, spesso a sproposito, di John Maynard Keynes ma pochi ricordano il discorso che fece a Madrid nel 1930 tratteggiando quale sarebbe stato il mondo nel 1960 (se non ci fosse stata una guerra mondiale). Grazie alla tecnologia, sarebbero bastate mediamente tre ore al giorno per soddisfare le esigenze di base. Da un lato, però, le esigenze sarebbero diventate più complesse (anche a ragione dell’invecchiamento). Da un altro, la macchina statale non sarebbe stata in grado di farvi fronte. Keynes preconizzava una Big Society organizzata in parte su lavoro volontario e semi-volontario. Quando 17 anni fa, riallacciandomi al discorso di Keynes, solo pochi economisti come Stefano Zamagni mi presero sul serio. Alla fine il saggio, respinto da riviste economiche a cui collaboravo frequentemente, è stato pubblicato dalla rivista dell’Istituto Sturzo. Oggi, però, proprio l’esperienza del cinque per mille documentata dall’ISFOL prova che questo è il tracciato della modernizzazione.
In terzo luogo, da circa due anni e mezzo sono componente del CNEL nella pattuglia di esperti nominati dal Capo dello Stato. Nei dibattiti in Commissione ed in Assemblea, noto che gli otto rappresentanti del Terzo Settore hanno maggiore contezza della società e delle sue esigenze di molti inviati a Villa Lubin perché pensionati e legati al mondo fordista - taylorista della loro giovinezza. Se chi difende l’esistente perde sempre, chi vive cercando di tornare al passato perde ancora di più.
(ilVelino/AGV)
(Giuseppe
Pennisi) 02 Novembre 2012 19:42
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