giovedì 15 novembre 2012

Proviamo la libertà di essere autonomi? in Formiche novembre

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OEconomicus
di Giuseppe Pennisi
Consigliere del Cnel e docente
presso l’Università europea di Roma
Le previsioni per il futuro non sono
incoraggianti. A fine settembre,
il presidente del Consiglio, Mario
Monti, e diversi componenti
dell’esecutivo hanno dedicato una
giornata seminariale al rapporto
Ocse Dare slancio alla crescita
e alla produttività per presentare
l’amaro risultato degli esperti di
Château de la Muette (sede parigina
dell’organizzazione): nell’ipotesi
(ottimistica) che le riforme verranno
attuate secondo il calendario
stabilito, il Pil italiano, dopo una
contrazione di quattordici punti tra
il 2008 e il 2013, ne aumenterà
di quattro (ossia dello 0,34% l’anno)
dal 2014 al 2024. In breve
nel 2004 il reddito nazionale sarà
pari a quello del 1999. Molto più
fosco il quadro per il Mezzogiorno:
pochi giorni dopo il documento
Ocse è stato presentato il rapporto
annuale Svimez: collasso
della produzione, desertificazione
industriale, emigrazione dei più
istruiti e più capaci, riduzione della
popolazione. Le diagnosi di Ocse
e Svimez sono ineccepibili. Le
terapie lasciano perplessi. Tanto le
prime quanto le seconde preconizzano
maggiore (anche se migliore)
intervento pubblico. Il tema fondante
dell’Ocse è la “qualità della
regolazione”. Quello della Svimez
una nuova “politica industriale”.
E se provassimo invece la strada
(spesso promessa) della libertà?
Qualche piccolo progresso è stato
fatto. Nel 2012 il grado di apertura
dell’economia italiana rispetto
ai Paesi più liberalizzati d’Europa
vale il 52%, rispetto al 49% del
2011. Il 59% degli italiani ritiene
che le liberalizzazioni possano essere
utili o molto utili a superare la
crisi economica.
La strada della libertà, però, non
significa solo liberalizzare gli orari
dei negozi, le licenze dei taxi, i
mercati dei prodotti e dei servizi.
Un libro recente, The economics
of freedom (Cambridge University
Press, 2012, pp. 224), di due
professori di Economia a Palermo
e a Messina, Sebastiano Bavetta
e Pietro Navarra, offre un filo conduttore
agli studiosi (e ai politici)
che lo vogliano raccogliere. Innova
rispetto alle “libertà positive” e
“libertà negative” di Isaiah Berlin e
alla libertà come “capacitazione”
di Amartya Sen. Costruisce il concetto
di autonomy freedom (libertà
di essere autonomo). Sino a qui
siamo nel campo della filosofia,
che purtroppo non pare interessare
molto chi fa politica economica.
Tuttavia, Bavetta e Navarra sono
economisti usi a lavorare con statistiche.
Quindi, danno concretezza
al concetto per misurarlo con la
strumentazione esistente. Provano,
con una raffinata modellistica
econometrica, che le preferenze
individuali per la redistribuzione del
reddito e le differenze, ad esempio,
in spesa sociale nei Paesi
dell’Ocse dipendono dal grado di
autonomy freedom di cui godono
gli individui. Sin dalla premessa, il
libro vuole essere chiaramente di
parte: a favore di più ampie libertà
economiche e non solo. Quanto
più gli individui percepiscono di
fruire di maggiore autonomia,
tanto più sono convinti che i loro
risultati dipendano dal proprio
impegno piuttosto che dal destino
“cinico e baro”, dai privilegi, dalle
camarille. In questi Paesi, viene
preferito uno Stato sociale meno
pesante, perché la mobilità sociale
è vista come la dimostrazione di
opportunità a disposizione di chi le
sa cogliere. Nella parte finale del
libro si illustrano le caratteristiche
della “società buona” in cui si
massimizza l’autonomy freedom e
le stesse libertà esaltano le virtù
civili e civiche. Tuttavia, manca
l’indicazione su come far sì che un
numero crescente di individui (ed
elettori) apprezzi l’autonomy freedom.
Se l’Italia è ancora quella
descritta da Robert Putman in un
libro di un quarto di secolo fa, proprio
dove c’è esigenza di maggiore
libertà le prevenzioni contro l’autonomy
freedom sono così radicate
che è difficile tracciare il percorso
per farla crescere.
Proviamo la “libertà
di essere autonomy”?

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