FINANZA/ Obama vs. Romney: chi conviene all’Italia?
martedì 30 ottobre 2012
Mitt Romney
e Barack Obama (Infophoto)
Tra poco più di una settimana, gli americani andranno
alle urne per eleggere, in un unico giorno, l’inquilino della Casa Bianca per i
prossimi quattro anni, un terzo della Camera dei Rappresentanti, il Senato, e
una miriade di Governatori, Parlamenti di numerosi Stati dell’Unione e via via
sino agli School Boards che gestiscono la politica dell’istruzione a livello
delle singole Contee (equivalente delle nostre Regioni all’interno dei singoli
Stati dell’Unione). Il sistema è complesso; non è questa la sede per
riassumerlo. Meglio concentrarsi sugli esiti probabili delle elezioni per noi,
ossia per l’Europa.
Gran parte della stampa italiana considera Obama il
favorito. Ho vissuto circa vent’anni a Washington e vi ritorno periodicamente.
Posso assicurare i lettori che la stampa italiana non ha effetti
sull’eleggibilità attiva o passiva negli Stati Uniti. La stessa stampa
americana morde un po’ a livello locale (principalmente delle Contee), ma non a
quello federale. In una campagna in cui il voto popolare pare un testa a testa,
ma dove il Presidente viene eletto da “grandi elettori” definiti per ciascuno
degli Stati dell’Unione, ciò che conta è il risultato negli “swing States”,
quelli che per il loro peso (in termini di “grandi elettori”) determinano il
risultato della competizione per la Casa Bianca.
Nel lontano 1978, Ray Fair dell’Università di Yale ha
dimostrato che il ciclo economico incide molto di più dei dibattiti televisivi,
della propaganda e degli stessi finanziamenti a supporto di questo o quel
candidato: ciò è avvenuto in 21 delle ultime 24 presidenziali. Il Bureau of
Labor Statistics pubblica dati sull’andamento dell’occupazione (non del Pil)
dei singoli Stati. In 14 dei 18 “swing States” il tasso di disoccupazione
è aumentato in misura significativa - specialmente nel Michigan e nel
Wisconsin, roccaforti dell’elettorato di Obama nel 2008. La disoccupazione è
anche cresciuta in due Stati (South Carolina e Oregon) tradizionalmente
repubblicani (ma titolari di pochi “voti elettorali” - 16 rispetto ai 26 di
Michigan e Wisconsin).
Ci sono, però, segni di ripresa (nell’ultimo trimestre
il Pil nazionale ha riportato un tasso di aumento su base annua del 2%), come
sottolineato al seminario dell’Aspen Italia, tenuto il 27 ottobre all’Isola San
Marcello nella laguna di Venezia. Saranno più visibili e palpabili dopo il 6
novembre. A vantaggio di chi avrà la responsabilità di guidare gli Usa nei
prossimi quattro anni.
Insomma, al momento in cui scriviamo, la partita
è ancora tutta da giocare. I sondaggi danno un lieve vantaggio all’incumbent,
Obama, ma analisi più approfondite mostrano che bastano i risultati di pochi
Stati dell’Unione per rovesciare l’esito della corsa alla Casa Bianca. Più
difficile entrare nel resto della competizione, anche a ragione di differenze
dei sistemi elettorali.
Alcuni fatti, però, parlano chiaro: nei loro programmi
elettorali, nei discorsi e nei dibattiti televisivi, tanto Obama quanto Romney
hanno mostrato di curarsi piuttosto poco dell’Europa: a minor
nuisance (una piccola seccatura a ragione di una crisi del debito
sovrano che i 17 dell’eurozona non sembrano in grado di saper pilotare), ma non
molto di più. Tanto l’uno quanto l’altro guardano con maggiore attenzione all’Asia
e all’America Latina.
Sottolineata questa disattenzione (“benevola” o
“malevola” che sia), occorre chiedersi quali saranno le policies effettive
che verranno poste sul tappeto. Il quadriennio di Obama (lo abbiamo
sottolineato con grande ricchezza di dati) è stato un periodo piuttosto
negativo per l’economia americana: oggi gli Usa hanno un tasso di
disoccupazione dell’8% della forza lavoro, un disavanzo delle partite correnti
di 500 miliardi di dollari l’anno (pari a oltre il 3% del Pil), un saldo negativo
dei conti federali d’esercizio attorno al 7% del Pil e uno stock di debito (in
rapporto al Pil) in rapida crescita. Obama è riuscito a far approvare il quadro
di una legge sanitaria per estendere a tutti una copertura assicurativa. Ma le
sue promesse in materia di politica estera non sono state mantenute: c’è ancora
guerra in Iraq, Afghanistan e altre regioni, il carcere di Guantamano è sempre
là. In materia di politica economica internazionale non ha mosso un dito per la
liberalizzazione multilaterale degli scambi; ha, anzi, promosso accordi per la
frammentazione del commercio mondiale.
Romney propone una politica economica non molto
differente da quella della Prima Amministrazione Reagan: un drastico taglio
della pressione fiscale - oggi negli Usa sfiora il 30% del Pil, mentre in
Italia è attorno al 50% - e una strategia di rilancio dell’offerta. Negli anni
Ottanta, tutto sommato, funzionò anche se non fu Reagan a coglierne i frutti ma
i suoi successori, che godettero di vari anni di “vacche grasse”. Allora, però,
gli Usa non dovevano fare i conti con un disavanzo strutturale dei conti con
l’estero vasto come l’attuale, potevano contare su un’Europa (allora il 25% del
Pil mondiale) e un Giappone che tiravano e non erano alla mercé della Cina per
il finanziamento dei loro titoli di Stato. Con Romney è possibile che la
politica economica internazionale Usa sia rivolta all’Asia (il grande creditore
degli Usa) e all’America Latina (lo scalpitante vicino meridionale) ancora più
che con Obama.
C’è, però, una speranza che nessuno in Italia (e a
Bruxelles) pare notare: i repubblicani sono tradizionalmente liberisti in
materia di commercio internazionale e il programma approvato dalla Convezione
del GOP (Great Old Party, così amano definirsi) prevede la costituzione di una
vasta zona di libero scambio atlantica (Usa-Ue) e di una analoga con l’America
Latina, nonché di operare di concerto con l’Asean verso qualcosa di analogo nel
Bacino del Pacifico. Ciò bloccherebbe la dannosa frammentazione del commercio
mondiale e potrebbe essere la base per un negoziato multilaterale tra grandi
aree commerciali. La “piattaforma” di Obama è invece densa di impegni
protezionistici specialmente per la metalmeccanica e l’agricoltura. Lascio ai
lettori di tirarne le conseguenze.
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