OPERA/
Il viaggio de "La Gioconda" passa anche per Roma
sabato
27 ottobre 2012
Un
momento dello spettacolo
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Viaggiare fa bene agli allestimenti. Quando vidi questa
edizione di La Gioconda di Amilcare Ponchielli (su libretto di Arrigo
Boito) nell’estate 2005 all’Arena di Verona restai perplesso: il teatro era
mezzo vuoto, le voci si sentivano appena e soprattutto le scene e la regia di
Pierluigi Pizzi sembravano schiacciate del monumento. La produzione è ora
arrivata a Roma (dove si replica sino al 31 ottobre). Viaggia dal 2005 e, dopo
il debutto a Verona ha avuto tappe a Barcellona, Madrid, Bilbao, e
Monte Carlo, se ne prevedono altre. A Roma il truculento intreccio è reso
credibile da una recitazione sobria e una Venezia nebbiosa , macera e
decadente, senza Piazze San Marco e Cà d’Oro in cartapesta, stilizzata da
essere quasi atemporale, dove dominano varie tonalità di bianco e grigio ed
alcuni elementi di rosso. La Gioconda non ha nulla a che vedere con il
sorriso ambiguo del ritratto di Leonardo. E’ un grand-guignol tratto da un
drammone di Victor Hugo, nella Venezia di fine ‘500 (da cui, peraltro, già
Mercadante aveva tratto un’opera- addirittura con lieto fine). La Gioconda è una
cantante con mamma cieca a carico: si innamora del proscritto Ezio Grimaldo, a
sua volta spasimante (corrisposto) di Laura sposa del Capo dell’Inquisizione,
Alvise. La spia Barnaba desidera fare sesso con la cantante e a tal fine
esercita ogni pressione (accusando la cieca di stregoneria). Al termine di una
complicata vicenda dove vediamo il carnevale di Venezia, una festa (con
cadavere) nella Ca’ d’Oro, l’incendio di un brigantino, una morte apparente, un
tentativo di avvelenamento, un annegamento ed un suicidio, Laura ed Ezio
fuggono verso la libertà mentre tutti gli altri vengono sconfitti dal Fato o
dalla cattiveria umana. Per oltre un secolo, l’opera ha mandato il pubblico in
visibilio; è il miglior esempio di ‘grand-opéra” padano ossia dei tentativi a
fine ottocento di fondere il melodramma verdiano con il ‘grand-opéra’ francese
e con un pizzico di sinfonismo e leit-motiv wagneriani; ne furono esponenti
Rossi, Marchetti, Gobatti, Gomes, solo Ponchielli è rimasto in repertorio . Ciò
è merito di Ponchielli, non di Boito che, sotto falso nome (si vergognava lui
raffinatissimo di essere alle prese con un romanzaccio popolare) ne scrisse il
libretto. Il maestro cremonese era un fine orchestratore, culturalmente vicino
a quella “scapigliatura” milanese che voleva innovare rispetto al melodramma
verdiano. Il suo flusso orchestrale continuo risente anche di wagnerismo
cromatico ed intriso di leit-motif (alla polenta padana). La scrittura vocale
richiede sei grandi voci con registri in grado di spaziare dalle romanze”e
“concertati” tradizionali al declamato para-wagneriano.
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