IL CASO/ L’Europa non cresce per colpa di un "elettore"
martedì 2
ottobre 2012
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Venerdì
scorso, il ministro delle Finanze della Repubblica federale tedesca, Wolfgang
Schäuble, ha ricordato, nel corso di una riunione di un circolo internazionale
di riflessione, che è meglio non farsi illusioni: la Germania cresce ancora
(pur se a un tasso annuo solamente attorno all’1%), ma, una volta - chissà
quando - terminata la recessione, l’Europa in generale, e l’Eurozona in
particolare, sono destinate a una lunga fase di crescita lenta, con inevitabili
pressioni sul mercato del lavoro. In sintesi, le prospettive per i prossimi
dieci-quindici anni sono di aumenti del Pil molto prossimi alla stagnazione.
Abbiamo visto su queste pagine che, nello scenario in cui le riforme
verrebbero attuate come programmato, l’Italia potrà contare su una crescita
dello 0,33% per i dieci anni dal 2014 al 2024 ; se non si faranno le riforme, o
se saranno meno tempestive e meno incisive di quanto ora progettato, la
crescita sarà inferiore. Solo tre anni fa, la Banca centrale europea (Bce), la
Commissione europea (Ce), e il Fondo monetario internazionale (Fmi) ponevano
all’1,3% l’anno il “potenziale di crescita” dell’economia italiana - dato che
suscitò ironia tra alcuni giornalisti economici italiani, i quali, non si sa
bene con quale strumentazione, contrapposero un solido (e fantastico) 3%.
La situazione italiana non è peggiore di quella
di altri paesi dell’Unione europea (Ue). Grecia, Spagna, Portogallo e Malta
hanno prospettive più negative delle nostre. La Francia le ha più o meno come
le nostre. I “virtuosi” nordici crescerebbero meno dell’1% l’anno, con il
risultato di non potere neanche loro assorbire la crescente massa di nuova
forza lavoro con poche speranze di avere carriere e redditi analoghi a quelli
dei loro padri e nonni. Nei cassetti della Ce si sta rispolverando un programma
di alcuni anni fa, quello del “servizio civile europeo”: allora, si pensava a
un mero collegamento tra i “servizi” nazionali, adesso a qualcosa come il
rooseveltiano “esercito del lavoro”, il cui finanziamento richiederebbe, però,
seri emendamenti ai trattati che regolano l’eurozona.
Il problema ha radici profonde: l’Europa ha perso
il monopolio del progresso tecnologico proprio quando è iniziato un
inarrestabile invecchiamento della popolazione - fenomeno noto a demografi ed
economisti e su cui sono stati scritti diecine di volumi (per una sintesi si
veda il brillante paper di Francesco Giavazzi The risky game of “chicken”
between Eurozone governments and the ECB, pubblicato alcuni anni fa, ma ancora
freschissimo), ma a cui gran parte della politica ha prestato poca attenzione.
Anzi, spesso ne ha aggravato (e ne sta aggravando) gli effetti.
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