martedì 16 ottobre 2012

Il Secolo Breve di Richard Strauss in La Nuova Antologia Ottobre

anno 147°
Nuova Antologia
Rivista di lettere, scienze ed arti
Serie trimestrale fondata da
Giovanni Spadolini
Luglio-Settembre 2012
Vol. 609° - Fasc. 2263
Le Monnier – Firenze
ESTRATTO:
Giuseppe Pennisi, Il «secolo breve» di Richard Strauss
Premessa
Dopo una fase di relativo oblio nei Paesi dove non si parla il tedesco,
Richard Strauss (Monaco di Baviera, 11 giugno 1864 – Garmisch-Partenkirchen,
8 settembre 1949) è tornato ad essere uno dei compositori più
apprezzati e più eseguiti tanto nelle sale di concerto quanto nei teatri d’opera;
inoltre, le sue partiture sono spesso saccheggiate per musica da film (si
pensi ad Odissea nello spazio di Stanley Kubrick). Statistiche recenti indicano
che tra i compositori del Novecento, nel solo comparto del teatro in
musica, Strauss è il secondo compositore più eseguito dopo Puccini e prima
di Britten e Janácˇek, i quali, nelle statistiche, lo distanziano, però, in misura
notevole. Anche in Italia, sino ad una trentina di anni fa, Strauss era
conosciuto da un pubblico fidelizzato ma non numeroso; ad esempio, la sua
opera più popolare «la commedia in musica» Der Rosenkavalier non è
stata messa in scena, a Roma, dal 1973 al 2008, e dopo la Seconda guerra
mondiale aveva avuto, nella capitale, unicamente tre allestimenti (di cui
uno interamente importato), rispetto ai cinque del Teatro alla Scala; inoltre,
pochi musicologi (in primo luogo, Franco Serpa e Quirino Principe) sembravano
interessarsi ai suoi lavori; infine, rarissimi coloro che si soffermavano
sui nessi tra colui che negli ultimi anni dell’Ottocento e nella prima
metà del Novecento era stato uno dei direttori d’orchestra e dei compositori
più noti, da un lato, ed il contesto economico, politico e sociale in cui
operava, dall’altro.
Nell’ultimo quarto di secolo il quadro è nettamente cambiato pure in
Italia. Der Rosenkavalier, Salome e Elektra (le sue opere più note) sono
state rappresentate in tutti i maggiori teatri italiani, spesso in produzioni
il «secolo breve»
di richard strauss
222 Giuseppe Pennisi
innovative, ed anche in quelli considerati «minori». Nel 2010, Elektra (non
certo un lavoro facile da allestire) si è vista anche a Bolzano, Catania, Ferrara,
Modena, Piacenza – teatri «di tradizione» che non fanno parte del
«circuito primario» delle fondazioni liriche. In effetti, a mia memoria, delle
principali opere di Strauss solo Die schweigsame Frau («La donna silenziosa
») manca all’appello (almeno negli ultimi trent’anni e forse dalle poche
rappresentazioni alla Scala nel 1936), probabilmente perché è una commedia
comica che alterna numeri musicali con parti parlate in cui i giochi di
parole possono essere gustati unicamente se si ha una conoscenza approfondita
della lingua. La stessa «commedia per adulti» Die ägyptische Helena
(«Elena egizia») ha avuto la sua prima italiana solo nel 2000 al Teatro
Lirico di Cagliari e non è stata, da allora, ripresa. Sono stati recuperati lavori
minori giovanili, come Guntram e Feuersnot, intrisi di gotico tardo
romantico, che lo stesso autore aveva, in pratica, ripudiato. Inoltre, nel 1993
è apparsa l’edizione integrale italiana dell’epistolario tra il compositore ed
il suo preferito autore di testi Hugo von Hoffmannsthal, ben 800 pagine a
stampa fitta e, nel 2007, Mario Bortolotto ha pubblicato un saggio fondamentale
«sulla musica di Richard Strauss» chiamato dal Kaiser tedesco
Hofbusenschlange («la serpe in seno») per la capacità di accattivare pubblico
e critici, ora blandendoli ora irridendone il perbenismo.
Non è questa la sede per tornare sul relativo oblio – dovuto, in parte,
al non avere voluto fare parte di nessuna «avanguardia musicale» del Novecento
ed, in parte, all’accusa, rivelatesi del tutto immotivata nelle inchieste
che seguirono la Seconda guerra mondiale, di essere stato condiscendente
nei confronti del regime nazista. In questa riflessione, invece, preme
sottolineare il ruolo di Strauss come protagonista ed interprete visionario
di quello che lo storico britannico marxista Eric J. Hobsbawm ha chiamato
il «secolo breve». Mentre il lavoro di Hobsbawm riguarda il periodo
1914-1991 e tratta essenzialmente di un secolo breve in quanto contrassegnato
dall’ascesa e del crollo del comunismo, il «secolo breve» di Strauss,
che era già un direttore d’orchestra di grandissimo successo alla fine del
XIX secolo ma che morì poco prima della metà del XX secolo, copre tutto
l’arco del Novecento. Fu l’ultimo poeta e cantore della centralità dell’Europa
nel contesto mondiale e quello che più di altri nel suo ultimo lavoro
per la scena, per l’appunto una «conversazione in musica» di circa due ore
e mezzo senza interruzione, ne presagì la fine. Prima di molti politologi,
storici e politici.
La riflessione è divisa in sei paragrafi. Dopo questa premessa, prendendo
spunto da alcuni poemi sinfonici e dai due suoi primi capolavori per la
scena (Salome e Elektra) tratteggio i nessi con la cultura europea dei primi
Il «secolo breve» di Richard Strauss 223
decenni del secolo scorso. Nel terzo, mi soffermo sull’evocazione della
centralità dell’Europa alla vigilia del primo conflitto mondiale. Nel quarto,
sull’Amor Europae che pregna i due capolavori scritti durante il conflitto.
Nel quinto e nel sesto, sull’interludio tra le due guerre e sulla visione del
futuro maturata durante la Seconda guerra mondiale.
Questa riflessione si distingue nettamente da quella fatta da Paolo Isotta
e da Francesco Maria Colombo. Quando, vent’anni fa, venne pubblicato
l’epistolario Strauss-von Hofmannsthal, sostennero che tanto il musicista
quanto il drammaturgo-poeta vivevano in un loro mondo di artisti, un
mondo distante dagli avvenimenti politici, economici e sociali attorno a
loro. A mio avviso, non solo vivevano tali avvenimenti ma ne avvertivano
significato e conseguenze meglio di molti altri.
Nasce il «secolo breve»
Proveniente da famiglia agiata (per parte di madre) e dotato da un
grande talento, Richard Strauss era una bacchetta di grido già a 22 anni
quando sostituì uno dei direttori d’orchestra favoriti da Richard Wagner,
Hans von Bülow, alla guida della Meininger Staatskapelle, uno dei più antichi
e più prestigiosi complessi sinfonici europei (era stato creato nel 1690).
Era già un giovane compositore affermato, in una vastissima produzione
cameristica peraltro poco nota in Italia (ora disponibile nel cofanetto di 35
CD Strauss Edition della Brilliant Classics, una raccolta che esclude gran
parte dei lavori per il teatro ma include quasi tutta la cameristica e la sinfonica).
Strauss aveva seguito principalmente Schumann e Brahms. L’esperienza
a Meiningen lo avvicinò a Wagner a cui furono saldamente ancorate
le sue prime due opere, Guntram e Feuersnot – un ancoraggio inoltre al
wagnerismo minore e più incardinato nell’opera romantica tedesca, rivolto,
quindi, all’Ottocento più che al Novecento. Differente la produzione dei
poemi sinfonici nel 1886-1898 (Aus Italien, Macbeth, Don Juan, Tod und
Verklärung, Till Eulenspiegels lustige Streiche, Also sprach Zarathustra,
Don Quixote, Ein Heldenleben) seguiti alcuni anni dopo da Symphonia
Domestica e Eine Alpensymphonie. La forma stessa della «musica a programma
», di cui il «poema sinfonico» è una delle più complete espressioni,
contiene anticipi e presagi del nuovo secolo che sta per avvicinarsi. Erede
della corrente neotedesca di Wagner e Liszt, Strauss non considera una finalizzazione
«pura» della musica (e per questo si oppone alle correnti più
marcatamente «moderniste» del Novecento – dalla dodecafonia alle varie
forme di costruttivismo musicale) ed insiste sulla necessità di dare alla
224 Giuseppe Pennisi
composizione un contenuto programmatico, letterario e comunque preferibilmente
narrativo che lo integrasse e chiarisse.
Utile a questo punto ricordare che il vostro chroniqueur si è avvicinato
a Strauss principalmente tramite i poemi sinfonici, regolarmente eseguiti
negli anni Cinquanta e nella prima parte degli anni Sessanta, nei programmi
dell’orchestra sinfonica della Rai e in quelli dell’Accademia di Santa
Cecilia, specialmente in quelli estivi, a prezzi popolari, alla Basilica di Massenzio.
A tali concerti si poteva avere accesso con una tessera dal prezzo
nominale di 300 lire per l’intera stagione (due concerti a settimana). Il lavoro
di Strauss più frequentemente eseguito era Till Eulenspiegels lustige
Streiche anche a ragione di un film di cassetta del 1956 diretto ed interpretato
da Gérard Philippe (e con Jean Vilar come deuteragonista); il film non
utilizzava neanche una nota di Strauss nella colonna sonora ma, pur in
costume e nella tradizione del cinema «di cappa e spada», leggeva le leggende
fiamminghe su Till Eulenspiegel in una chiave molto giovanile e
fortemente libertaria, quasi in contrasto con il clima dell’epoca. Strauss non
abbandonava né la tradizione né, soprattutto, la tonalità ma il colore, il
ritmo e l’accento fortemente timbrico di Till Eulenspiegels lustige Streiche
erano segnali di mutamento. Ancora più marcati in Tod und Verklärung e
Also sprach Zarathustra, il cui inizio venne ripreso quasi un secolo più
tardi da un autore cinematografico colto e raffinato come Kubrick per la
sequenza introduttiva di Odissea nello spazio.
Il «secolo breve» di Strauss nasce con due opere Salome del 1905 e
Elektra del 1909 che hanno nel teatro in musica tedesco un effetto rivoluzionario
analogo a quello che il 19 gennaio 1900 aveva avuto, sul melodramma
italiano e sul «grand opéra padano», la prima di Tosca di Giacomo
Puccini. Con Salome e con Elektra, Strauss non faceva una scelta analoga
a quella della «scuola viennese» (Schönberg, Berg) di abbandonare la tonalità,
ma restava nelle «regole del gioco» postwagneriano pur mutandole
dall’interno: ai canonici tre atti, venivano sostituiti atti unici, di durata
molto lunga, il sinfonismo intrecciava le singole scene in un continuo senza
interruzione, i Leitmotive diventavano centrali ad una scrittura complessa,
esplodevano dissonanze in una sonorità mai ascoltata prima di allora e,
soprattutto, drammi antichi tratti dalla Bibbia e dalla tragedia greca venivano
fortemente innescati ai temi dell’Europa del secolo che si apriva: eros,
psicoanalisi, lotte di potere in un quadro di conflitti sempre più forti.
Salome è il primo vero successo di pubblico di Richard Strauss come
compositore operistico; la critica, invece, restò piuttosto fredda nonostante,
dopo la prima rappresentazione a Dresda il 9 dicembre 1905, l’opera mietesse
applausi ed anche ovazioni in tutti i teatri europei. Negli Stati Uniti,
Il «secolo breve» di Richard Strauss 225
l’opera veniva vietata (sino al 1920 o giù di lì) dopo solamente poche rappresentazioni
al Metropolitan poiché non una ma numerose confessioni
religiose la accusarono di oscenità. Per quanto basato su un atto unico di
Oscar Wilde – Strauss e Hedwig Lachmann (traduttore in tedesco del lavoro
di Wilde) limarono il testo eliminando dibattiti a carattere filosofico e
personaggi minori – i due lavori sono profondamente differenti. Soffermarsi
sulle differenze di fondo tra le due Salome, quella di Wilde e quella di
Strauss, permette di comprendere la chiave interpretativa per una rappresentazione
scenica. L’atto unico di Oscar Wilde è simbolista: il Battista è la
nuova etica del futuro, Erode e la sua corte sono la corruzione del passato,
Salomé è lo strumento perché i due mondi comunichino. Per il gay Wilde,
inoltre, la sedicenne Salomé rispecchiava il sedicenne Alfred Douglas, di
cui era innamorato e per il quale finì in prigione. In breve, in Wilde siamo
in quell’ambiente britannico di inizio Novecento che stava dando vita al
gruppo di Bloomsbury – intellettuali, artisti, pure economisti come John
Maynard Keynes dalle tendenze sessuali variegate, molto attratti dall’Europa
meridionale e dal bacino del Mediterraneo. In un saggio sull’opera,
Stephan Kohler racconta come Strauss restò piuttosto freddo ad una rappresentazione
del lavoro di Wilde (nonostante la regia di Max Reinhardt),
ma si decise a comporre l’opera ammirando un quadro di Gustave Moreau,
maestro del decadentismo visionario.
Quindi, Strauss guarda più a tale decadentismo visionario che alla sfida
tra il mondo di Erode (e della depravata Erodiade), da un lato, e il mondo
del Battista. Salomé non è più il raccordo tra due universi l’uno all’altro
impenetrabile, ma una figura altamente tragica: aspira inutilmente a liberarsi
da una perversione a lei connaturata come il peccato originale per
scivolare nella degradazione più abietta, quella della necrofilia. Siamo
nell’anticamera di Sigmund Freud con una nevrosi così patologica che
l’unico sbocco è l’omicidio e la morte. Lo scandalo (nel 1905) non era
soltanto sulla scena ma nella rivoluzione musicale tanto nel golfo mistico
quanto nella vocalità: fortemente tonale (con qualche sprazzo di bitonalità),
stratificazione di diversi livelli armonici, ampliamento della tonalità verso
la politonalità, uso estremo delle dissonanze e abili impasti tra le voci (che
dal declamato scivolano nel cantabile) ed un organico orchestrale di circa
110 elementi, nonché maestria nella scrittura per i singoli strumenti o gruppi
di strumenti (si pensi ai sì bemolle acutissimi del contrabbasso che accompagnano
gli spasimi erotici di Salomé durante l’esecuzione del Battista).
Nonostante Salome sia sempre stata una delle opere più rappresentate
di Strauss, non è facile trovare una chiave interpretativa per la sua messa
in scena ed un soprano che sappia giungere a tonalità estreme e sia in gra-
226 Giuseppe Pennisi
do, al tempo stesso, di danzare togliendosi i sette veli e restando nuda in
scena. Anche per questo motivo sono frequenti le edizioni in forma di concerto
(l’Accademia di Santa Cecilia ne ha offerte di memorabili). Negli
anni Settanta, il direttore d’orchestra d’origine viennese Julius Rudel trovò,
alla New York City Opera, l’interprete ideale in Maralin Niska che la rappresentò
in calzamaglia in varie tournée. Nel 1988, il Teatro dell’Opera di
Roma si rivolse, invece, alla consulenza di uno scrittore di libri «gay», Aldo
Busi, per dare un tono sufficientemente peccaminoso all’allestimento (senza
peraltro riuscirvi). In un’edizione curata da Robert Carsen per il Teatro
Regio di Torino (ma vista, successivamente, a Firenze ed altri teatri), l’affascinante
Nicole Beller Carbone è guatata da anziani (anzi vecchi) completamente
nudi – in molte regie di Carsen abbondano le comparse di genere
maschile senza neanche la biancheria intima addosso; a mio parere,
l’idea non aggiungeva eros allo spettacolo ma toglieva parte di quello sprigionato
dall’orchestra. Nel complesso, si rivaluta l’allestimento curato da
Giorgio Albertazzi a Roma nel 2007 (con la direzione musicale di Gianluigi
Gelmetti): la vicenda viene collocata nel visivo di Gustave Moreau, una
scelta forse datata ma filologicamente corretta e distante da molte interpretazioni
correnti (che stilizzano azione e impianto scenico). La regia puntava
sull’erotico (filtrato attraverso la memoria di un ottantottenne – Albertazzi).
Tuttavia, l’efficace recitazione dei protagonisti veniva intralciata da
un numero eccessivo di personaggi minori e comparse e anche da fin troppi
movimenti sul palcoscenico. Ad esempio, perché quattro ballerine attorniano
la protagonista nella danza dei sette veli quando dovrebbe essere
solo lei a ballare ed eccitare Erode? Manca quella sobrietà richiesta dallo
stesso Strauss nelle sue note per le rappresentazioni sceniche. A Roma nel
2007 Günter Neuhold è stato chiamato, quasi alla vigilia della prova generale,
a sostituire Alain Lombard (ammalato); è un concertatore puntuale e
preciso che mette in valore la maturità raggiunta dall’orchestra. Tuttavia,
mancava del fuoco (e della lussuria) che dovrebbe pervadere Salome. Francesca
Patané è stata la regina della serata, soprano drammatico dal registro
vasto (specialmente nei spericolati «do» e negli acuti), ma con qualche
difficoltà nelle tonalità gravi, è anche in grado di danzare togliendosi tutti
i sette veli e restando nuda in scena. Quindi, entusiasma il pubblico. Sotto
il profilo tecnico, occorre elogiare la maestria di Reiner Goldberg che, nonostante
la non giovane età, era ancora un Erode di grande rilievo. Anooshah
Golesorkhi (Giovanni Battista) è un baritono dal volume generoso e dalla
forte presenza scenica. Deludenti invece la Erodiade di Graciela Araya (per
il poco spessore) ed il Narraboth di Marco Zeffiri (privo di tenuta drammatica
e con un volume non in grado di fondersi con un’orchestra dalle dimen-
Il «secolo breve» di Richard Strauss 227
sioni straussiane). Coglie molto bene i complessi aspetti del lavoro l’allestimento
presentato nel 2011 al Festival di Baden Baden (e disponibile in un
DvD) con Angela Denoke come protagonista, la regia di Nikolaus Lehnhoff
e la direzione musicale di Stefan Soltesz.
Salome, pur rappresentando il vero ingresso di Strauss nel «secolo breve
», ha, per molti aspetti, la struttura di un poema sinfonico, come sottolinea
acutamente David Murray. È un poema sinfonico dilatato ed a cui sono aggiunte
le voci ed un libretto in prosa (aspetto del tutto inconsueto per l’epoca).
Tuttavia, a differenza anche del più novecentesco dei precedenti poemi
sinfonici – Also sprach Zarathustra, apertamente ispirato a Friedrich Nietzsche
– è animato dalla forte innovazione culturale (psicoanalisi in medicina,
eclettismo della secessione nel visivo, chimica nell’industria) che caratterizzava
la Vienna di quel periodo. In effetti, con un’analogia con il visivo, si
può dire che Salome è il nesso tra il decadentismo visionario di Gustav Moreau
e l’espressionismo deliberatamente osceno di Egon Schiele. Due volti
per indicare che, con il «secolo breve», in Europa tutto cambia.
Per significativa che sia Salome, l’effettiva rottura musicale e drammaturgica
avviene con Elektra, che l’attuale sovrintendente e direttore Artistico
del Teatro alla Scala, Stéphane Lissner, considera il capolavoro assoluto
del Novecento. Il vostro chroniqueur deve ammettere che quando era poco
più che adolescente Salome non lo emozionò più di tanto (anche forse
perché appena reduce della «battaglia» tra favorevoli e contrari di Boulevard
Solitude di Hans Werner Henze – l’ultima volta forse che in un teatro d’opera
italiano il pubblico venne alle mani). In effetti, non solamente Elektra
era il frutto di un’intensa preparazione e di stretto lavoro con uno dei maggiori
poeti di lingua tedesca, Hugo von Hofmannsthal, di cui conoscevo
Jedermann, ma vi giungevo preparato avendo tradotto in terza liceo classico
la tragedia di Sofocle ed avendo letto la pièce di Jean Giraudoux.
Elektra segue di pochi anni Salome. Nel catalogo delle sette opere
Strauss-Hofmannsthal, è uno dei lavori rappresentati con maggiore frequenza
in Italia ma anche più fraintesi: negli ultimi anni si è visto alla Scala
(almeno due volte), all’Opera di Roma (almeno due volte), al Maggio Musicale
Fiorentino, al Massimo Bellini di Catania, al Teatro Filarmonico di
Verona, a Bolzano, Modena, a Piacenza a Ferrara nonché nei Festival di
Taormina, Macerata, Pompei e Spoleto. Nelle messe in scene all’aperto,
unicamente quella al Teatro Grande di Pompei (peraltro concertata da
Wolfgang Sawallisch), veniva realizzata in condizioni acustiche accettabili.
Nel commentare le due edizioni di Elektra in programma nell’inverno
2010 in vari teatri ritenuti «minori» della Penisola (una a Bolzano, Piacenza,
Modena e Ferrara e l’altra a Catania), ricordai che quando il dramma-
228 Giuseppe Pennisi
turgo Eugene O’Neill nel 1931 adattò la tragedia greca in un drammone di
nove ore ambientato ai tempi dellaguerra di Secessione americana, decise
di intitolare il lavoro Il lutto si addice ad Elettra a ragione del vasto numero
di morti che costellavano le tre parti dell’opera. O’Neill si basò sulla
trilogia di Eschilo. Nel 1903, invece, Hugo von Hofmannsthal scrisse Elektra
traendola dalla tragedia di Sofocle, peraltro con una differenza: in Sofocle
la tragedia è la seconda di una trilogia le cui conclusione è essenzialmente
serena non solo ottimistica (come nella pièce di Giraudoux costruita su
misura per Louis Jouvet) mentre in Hoffmannsthal (e Strauss) la conclusione
non da adito a speranza. Il lavoro di Hofmannsthal, lanciato a Berlino
da Gertrud Eysoldt (la Duse tedesca dell’epoca), ebbe un immenso successo
tanto che nel 1904 venne messo in scena da 22 teatri nel mondo di lingua
germanica. Interpretava a pennello gli umori più tragici del secolo che si
apriva. La tragedia fu successivamente adattata (leggermente accorciata per
adeguarla ai tempi della musica) come libretto per l’opera di Strauss, rappresentata
nel 1909. La tragedia in musica in un atto di Strauss dura poco
meno di due ore. Sono, però, due ore di tensione assoluta.
Elektra è il primo incontro della fatale «coppia d’assi» Strauss-Hofmannsthal;
l’incontro avvenne per caso in un teatro di Berlino dove si
rappresentava la tragedia di Sofocle nell’adattamento fattone dallo scrittore
e poeta austriaco, considerato uno dei maggiori esponenti del simbolismo.
Dopo Salome (allora in fase avanzata di stesura), Strauss (a cui non dispiaceva
la vita salottiera) avrebbe voluto affrontare un argomento «leggero»,
forse «comico», ma venne attratto dalla tragedia di Hofmannsthal e dalla
opportunità di fare seguire allo «scarlatto e viola» di Salome il contrasto
abbagliante tra «buio e luce» di Elektra.
Elektra è spesso fraintesa (al pari di Salome) perché le messe in scena
del capolavoro di solito traggono spunto dall’anno del suo debutto (1909)
con gli sviluppi delle teorie freudiane per porre l’accento principalmente
sulla situazione psicologicamente patologica delle tre protagoniste (Elettra,
sua sorella minore Crisotemide e la loro madre Clitennestra). Non mancano
certo riferimenti alle teorie freudiane ed alla allora nascente psicoanalisi. In
effetti, nonostante Hofmannsthal vivesse nel clima culturale di una Vienna
in cui si respirava aria freudiana (che aveva già pervaso Salome), calcando
unicamente su questi aspetti, però, si ignora che l’idea di fondo sia del poeta
sia del compositore era di ritrovare «la grecità demoniaca», lontana dalle
copie romane del Winckelmann e dagli addolcimenti umanistici nella seconda
parte del Faust di Goethe. Hofmannsthal, poi, era cattolico credente e
praticante con particolare rigore. Lo stesso Strauss, per quanto apparisse
distaccato dalla religione, era cresciuto in un ambiente cattolico, si era spo-
Il «secolo breve» di Richard Strauss 229
sato secondo il rito di Santa Romana Chiesa e, quel che più conta, insistette
perché, nel 1924, il loro figlio Franz si sposasse in Chiesa con un’ebrea.
L’epicentro della tragedia in musica, quindi, è, da un lato, nella crisi e
nelle ossessioni, anche sessuali, delle tre protagoniste: Elettra «sola» e tesa
alla vendetta, Clitennestra insoddisfatta da Egisto (ed in precedenza da
Agamennone) e tormentata dai rimorsi, Crisotemide disperatamente rivolta
alla ricerca di un uomo che la faccia sua. Da un altro lato, tema fondante
è quello, cristianissimo, del perdono: Clitennestra lo chiede ad Elettra ed
al resto del mondo, Crisotemide lo invoca per porre termine al sangue nella
reggia degli Atridi. Elettra, che non sa e non vuole perdonare, si autodistrugge
in una danza infernale, «la grecità demoniaca» di quella che Mario
Bortolotto ha acutamente definito «una partitura di pietra arcaica».
In produzioni più recenti, come quella del Nikolaus Lehnhoff presentata
nel 2010 a Salisburgo e nel 2011 a Roma (ed ora in repertorio a Vienna)
si mostra questa dimensione del perdono in una Reggia degli Atridi
situata in quello che può essere un caseggiato popolare in rovina ai giorni
nostri (le scene sono di Raimund Bauer, i costumi di Andrea Schimdt-Futurerer)
e si da alla tragedia una dimensione intimistica. Analogamente in
un fortunato allestimento di Henning Brockhaus, visto due volte a Roma
ma anche a Catania ed in altri teatri, la reggia degli Atridi era il foyer del
Teatro La Fenice distrutto dall’incendio alla fine degli anni Novanta. In
altri ancora, a Napoli ed a Verona, si riprendono le rovine di pietra immaginate
da Alfred Roller per la prima rappresentazione a Dresda. In breve,
forti tensioni psicologiche (con esito tragico) in un mondo in distruzione
– quasi il presagio di quanto, soltanto pochi anni dopo, sarebbe avvenuto
a Sarajevo: un arciduca ed un’arciduchessa d’Austria sarebbero stati uccisi
da un irredentista serbo (con indubbi squilibri mentali) innescando un
conflitto in cui sarebbero morti otto milioni di giovani europei. Si è ricordato
0’Neill ed il suo Il lutto si addice ad Elettra scritto durante la Grande
Depressione; riportato in scena in Italia nel 1997 da Luca Ronconi in
un’edizione sfrondata (dalla durata di sei ore), mostra come anche esso
contenesse presagi di quella che meno di dieci anni dopo sarebbe stata la
Seconda guerra mondiale.
Elektra è un prodigio, al tempo stesso, di complementarità e di contrasto
tra il testo di Hofmannsthal e la partitura di Strauss; circolare il primo
(con il proprio epicentro nel confronto-scontro tra Elettra e Clitennestra,
interamente dedicato al significato del perdono e dove dominano il re bemolle
ed il sì naturale per la protagonista ed, invece, il si minore ed il fa
minore per la regina madre); vettoriale il secondo sino all’orgia sonora in
do maggiore del finale. Sia l’azione sia la musica hanno una struttura ad
230 Giuseppe Pennisi
ellisse; un’introduzione quasi contrappuntistica (il dialogo delle ancelle per
preparare al monologo di Elettra) si snoda in una vasta parte centrale in cui
il confronto tra Elettra e Clitennestra (colmo di disperazione proprio per il
diniego del perdono da parte della prima) è inserito tra due altri confronti
– quelli tra Elettra e Crisotemide (rispettivamente sul significato della vita
come azione e della morte come ricordo, nonché sul valore della vendetta);
in tutta questa parte centrale si sovrappongono due tonalità musicali molto
differenti per unificarsi nella scena del ritorno di Oreste e del duplice assassinio
e predisporre, quindi, il do maggiore della danza macabra finale.
Data la potenza dell’orchestra (con dissonanze mai prima di allora
udite) il maestro concertatore è alle prese con la sfida di non oscurare le
voci (ciascuna parola è densa di significato). Elektra è il canto estremo di
un mondo che, inconsapevolmente, sta andando verso l’autodistruzione.
L’omaggio alla «Europa felix»
Se venisse effettuato un sondaggio sulla «commedia in musica» del XX
secolo preferita dal pubblico europeo (e forse più rappresentata nel Vecchio
Continente) probabilmente vincerebbe Der Rosenkavalier («Il Cavaliere
della Rosa»), per l’appunto Komödie für Musik, di Richard Strauss e di
Hugo von Hofmannsthal, sulla base di un’idea dell’europeissimo Graf
(Conte) Harry Kessler, nato a Parigi da padre tedesco e madre irlandese,
ma cresciuto tra Gran Bretagna, Francia e Germania. Dopo essere discesi
nelle bolge infernali di Elektra, Strauss e Hofmannsthal erano alla ricerca
di qualcosa di «leggero» e, al tempo stesso, da «cassetta». Il progetto di
Kessler faceva il caso loro: era una curiosa «contaminatio» di commedie di
Molière, dei libretti scritti da Da Ponte per Mozart (in particolare Le Nozze
di Figaro), di capitoli del Wilhelm Meister Lehrjahre di Goethe, di spunti
dal Die Meistersinger von Nürnberg di Wagner, nonché di intrecci tipici
del teatro italiano (soprattutto Goldoni e Machiavelli). Nata con ambizioni
puramente commerciali, rappresentata per la prima volta a Dresda il 27
gennaio 1911 e, nel giro di pochi mesi, sulle scene di tutti i maggiori teatri
europei, trasformata in un film di successo nel 1925, Der Rosenkavalier
avrebbe cantato la «Finis Europae» in tutte e due le guerre mondiali. Tanto
nel 1914-1918 quanto nel 1939-1945, i giovani Jules e Jim, tedeschi e francesi,
di un bel film di François Truffaut, fischiettavano, in trincea, il tempo
di valzer che accompagna gran parte della «commedia in musica» (specialmente
le ultime scene del secondo atto), un valzer che è stato prontamente
rielaborato dallo stesso Richard Strauss in una «suite» orecchiabile per
Il «secolo breve» di Richard Strauss 231
orchestra leggera, nonché in versioni ancor più semplici per pianoforte ed
anche per pianola meccanica.
In questi ultimi anni, dopo una lunga assenza, nonostante gli alti costi
di produzione che comporta, Der Rosenkavalier si è visto a Milano (in due
differenti allestimenti), a Bologna, a Firenze (ancora in due allestimenti), a
Trieste, a Roma, a Napoli, a Palermo, a Catania ed a Spoleto. Ha indubbiamente
contribuito la diffusione dei sovratitoli, che per Der Rosenkavalier
devono essere particolarmente accurati in quanto nel libretto si alterna la
forma colloquiale (il Tu) con quella formale (il Lei), il tedesco «universale»
con il dialetto viennese ed anche con le inflessioni croate.
Der Rosenkavalier può essere interpretato a vari livelli. Vediamone
almeno tre: a) una «commedia per adulti» (dietro la maschera superficiale
di una pochade con un occhio al botteghino); b) una «rievocazione in
musica» che ha la sua realtà più vera proprio nell’essere smaccatamente
finta (anche sotto il profilo musicale); c) un messaggio politico alto e
forte sulla transizione (Verwandlung) che ha un ruolo fondante nella cultura
non solo tedesca ma europea nella seconda parte del XIX e nella
prima del XX secolo.
Andiamo, innanzitutto, alla «commedia per adulti» ricordando i punti
salienti dell’intreccio. Siamo nella Vienna della metà del Settecento. Il «cavaliere
» (con la minuscola) è un giovane aristocratico biondo e snello,
Octavian, che, a 17 anni e due mesi, tutto sa sull’eros e sul sesso ma nulla
sull’amore: la breve e concitata ouverture ne rappresenta l’orgasmo e il
primo atto si apre, dopo una notte di passione, con uno slancio di tenerezze
(frammisto ad orgoglio per la propria prestazione) del ragazzo alla trentatreenne
«Marescialla», Marie-Thérèse Principessa Werdenberg. Colto sul
fatto – o più precisamente nel letto – e costretto ad indossare i panni femminili
della cameriera di Marie-Thérèse, attira, con la sua avvenenza qual
che sia la guisa, le attenzioni del Barone Ochs, volgare signorotto di provincia
e cugino della «Marescialla». Ochs è giunto improvvisamente in visita
di prima mattina alla ricerca di un paggio che, secondo il costume
dell’epoca, porti come pegno d’amore e di fidanzamento una rosa d’argento
alla quattordicenne Sophie Faninal, figlia di un ricco commerciante
borghese, insignito, di recente, di un titolo nobiliare di quart’ordine: in tal
modo, il barone risolverebbe due problemi – nozze con prole e ripiano dei
debiti. La «Marescialla», un po’ per celia un po’ perché già consapevole che
«oggi, domani od un altro giorno» il biondo e snello giovanotto, a cui tutto
ha insegnato, la lascerà per qualche altra donna, designa Octavian per l’incombenza.
Al primo sguardo con la pupattola Sophie, il «cavaliere» prova
l’amore (o, almeno, crede di provarlo), perde l’innocenza (se mai ne ha
232 Giuseppe Pennisi
avuta), assolda furfanti (tra cui alcuni «pentiti di professione» quali Valzacchi
definito, nel libretto, «intrigante italiano» e Annina «sua compagna»)
per screditare Ochs e far sì che le progettate nozze saltino all’aria. È, quindi,
in scena l’intera Europa, non solo la mitica «Austria felix» ma anche
l’Italia, la Croazia e la colonia da dove viene «Cioccolattino». Dopo altri
travestimenti, imbrogli, visite a locande di malaffare ed anche un duello,
sbeffeggiato Ochs e reso soddisfatto e canzonato il ricco Faninal, sarà
Marie-Thérèse in persona a «consegnare» a Sophie un Octavian scaltritosi
nel giro di due giorni; mentre «Cioccolattino» (nomignolo del paggetto
negro della «Marescialla») raccoglie un fazzoletto di pizzo intriso da una
lacrima, una sola, di Sophie, si scorgono già all’orizzonte, dapontiamente
parlando, «i giuramenti di quel labbro menzogner».
Nell’impostazione iniziale, il lavoro sarebbe dovuto essere una farsa incentrata
sulle peripezie buffonesche del Barone Ochs. Successivamente,
nella saggistica e negli allestimenti in teatro, l’attenzione si è sempre più
spostata sul personaggio della «Marescialla» (un ruolo difficilissimo sotto il
profilo scenico e vocale); l’accento viene posto, in particolare sulla lucida
consapevolezza di Marie-Thérèse del «tempo-che-passa» e sulla sua «rinuncia»
ad Octavian – analoga a quella del quarantacinquenne Hans Sachs che nel
Die Meistersinger getta la pur adorata ventenne Eva nelle braccia del ventitreenne
Walter von Stolzing (altro «cavaliere», questa volta di Franconia,
finito in un mondo borghese). A una lettura più accorta, tuttavia, il perno
della «commedia per adulti» trova proprio il suo fulcro nella «maturazione»
di Octavian, il solo personaggio quasi sempre in scena, anche se in abiti ora
maschili ed ora femminili. Una Bildungsoper, un’opera sulla formazione e
crescita di un giovane dalla adolescenza alla maturità, quindi, nel solco della
tradizione tedesca, ed europea, del Bildungsroman – per questo i riferimenti
con il Wilhelm Meister goethiano e l’uso esplicito dell’eros. L’eros, di cui
Der Rosenkavalier è impregnato dall’inizio alla fine, è centrale alla Bildungsopertedesca:
si pensi al lungo amplesso con cui si conclude, con l’iniziazione del
protagonista, il Siegfried di Wagner. Proprio in quel periodo, invece, con il
melodramma romantico, l’eros scompare dall’opera italiana: tra il rossiniano
Conte Ory del 1828 (ultima opera erotica prima del romanticismo) alla pucciniana
Manon Lescaut del 1893 (prima opera con carica erotica), in Italia
nel teatro lirico, l’eros non è più in scena. A titolo di raffronto, ai 45 minuti
dell’amplesso del giovane Siegfried, corrispondono i due del rapporto mercenario
tra il Duca di Mantova e Maddalena nel Rigoletto ed i tre minuti e
mezzo della «grande scena d’amore» tra Alvaro e Leonora ne La Forza del
Destino. L’eros è centrale alla prima metà del «secolo breve» e diventa liberazione
sessuale della seconda.
Il «secolo breve» di Richard Strauss 233
Der Rosenkavalier, però, è una Bildungsoper che per essere «vera»
deve essere spudoratamente falsa. La «cerimonia della rosa» centrale all’intreccio
non è mai stata parte delle tradizioni della Vienna né del Settecento
né di altri secoli. Nell’Impero austriaco, il cambiamento sociale – la decadenza
dell’aristocrazia di provincia ed il sorgere in particolare di una borghesia
mercantile arricchita – si verifica anch’esso in un’epoca distinta e
distante da quella della metà del XVIII secolo. Infine, il valzer il cui tempo
– si è già ricordato – scandisce momenti salienti della «commedia» (ed è
entrato prepotentemente nella «vulgata» sul Der Rosenkavalier) è stato
inventato diversi decenni dopo il periodo in cui si svolge la vicenda raccontata
da Hofmannsthal e messa in musica da Strauss. La «rievocazione in
musica» sceglie il valzer, piuttosto che, ad esempio, la gavotta, proprio per
accentuare l’irrealismo della stessa musica con cui si dà vita ad una «commedia
» il cui testo e note di accompagnamento sono puntualissimi e precisissimi
nell’indicare i dettagli (come i colori dei broccati dei costumi dei
protagonisti ed i fiori della messa in scena), purché l’insieme non abbia
nulla di realistico. Tra le numerose messe in scena, quella che meglio coglie
questo aspetto si deve a Otto Schenk, che si replica a Vienna ed a Monaco
(i due teatri ne hanno il copyright) dal 1968 e che si può ammirare in un
DvD in cui la direzione musicale è affidata a Carlos Kleiber.
Ancora più marcato verso un irrealismo eclettico e, quindi, atemporale,
il cammino di Hofmannsthal e Strauss nel percorso musicale dell’opera.
Der Rosenkavalier è il loro secondo lavoro, dopo Elektra, di una strada che
condurranno assieme sino alla morte prematura, e tragica, di Hofmannsthal
nel 1929. In Elektra il dramma aveva scavato negli anfratti più segreti della
psicoanalisi e della isteria, e la musica era giunta a cromatismi e dissonanze
sino ad allora mai tentati, nonché tali da preludere alla dodecafonia,
peraltro mai apprezzata da Strauss. In Der Rosenkavalier, la grande orchestra
ed il sinfonismo wagneriano vengono impiegati per fondere Mozart,
l’operetta francese ed austriaca, il polifonismo e la vocalità italiana in unità
ancora oggi singolarissima e nuovissima. Un passo indietro oppure un passo
avanti rispetto a Elektra? Domanda trivial (banale) per utilizzare l’aggettivo
con cui Richard Strauss chiude, nel 1942, Capriccio, la sua ultima
opera – o meglio la sua ein Konversationsstuck für Musik in einem Aufzug,
«una conversazione in musica in un atto». È un percorso che Strauss scolpisce
a tutto tondo, anche e soprattutto sotto il profilo musicale; perché si
comprendano le verità del Der Rosenkavalier, infatti, tutto deve essere
sfacciatamente finto. Proprio come nel sicilianissimo Enrico IV di Pirandello
ed in molti capitoli del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Nulla, però,
deve essere ipocrita.
234 Giuseppe Pennisi
Per queste ragioni di sostanza drammatica e musicale, lasciano insoddisfatti
allestimenti – quale quello proposto nel 1995 a Bologna o nel 2004
a Salisburgo – in cui si cerca di rendere «vera» la commedia, attualizzandola
e trasferendone l’ambientazione in decadenti ed intristiti anni Venti o
anche ai tempi della Seconda guerra mondiale. Oppure ancora un’edizione
spoletina del 2000 in cui ogni atto era in un’epoca differente. Il Der Rosenkavalier
richiede, al contrario, una Vienna piena di lustrini, camere nuziali
(e letti) smisurati, palazzi di nouveaux riches caricatissimi di stucchi rococò,
taverne troppo palesemente equivoche per essere prese sul serio (e
scoraggiarne l’accesso a bambolette ingenue come Sophie). Proprio come
nella versione di Schenk del 1968. Al Metropolitan ed alla City Opera di
New York (pur con differenze di mezzi) si segue la stessa strada. Analoga,
anche se «povera», la produzione «didascalica» realizzata da Michael
Hampton
a Colonia nel 1987 ed a Firenze nel 1989 e quella, leggermente
più fastosa, messa in scena da Graham Vick al San Carlo di Napoli nel 1993.
Nell’allestimento creato da Pier Luigi Pizzi per l’inaugurazione della stagione
del Carlo Felice di Genova del 1996-1997 e visto due volte a Genova
oltre che a Palermo, a Milano ed in altre città, la finzione è chiara (anche
se non tanto spudorata e sfacciata quanto la si desidererebbe); quindi, con
carte in regola per trasmettere il messaggio del Der Rosenkavalier. Così
come in quello di Nicolas Joel visto a Roma nel 2010 e nella recente riproposta
alla Scala dell’allestimento curato da Herbert Wernicke (deceduto nel
2002) nel 1995 per Salisburgo ripreso da Alejandro Stadler.
Quale è questo messaggio? Per Richard Strauss, e per Hugo von Hofmannsthal,
nato dieci anni dopo e morto venti prima del suo sodale, il
senso profondo di questo e di altri lavori comuni è l’inarrestabilità della
trasformazione e della modernizzazione. Marie-Thérèse «dà» Octavian a
Sophie perché sa che chi difende l’esistente perde sempre. Analogamente,
il flusso inarrestabile della sinfonia wagneriana si fonde con i terzetti
mozartiani, la polifonia, la vocalità italiana ed il teatro «leggero» alla ricerca
di qualcosa che superi gli stessi primi approcci di dodecafonia perché,
anche nella composizione e nella «commedia in musica», chi difende
l’esistente perde sempre.
È evidente, anche se implicito, il raccordo con un’altra grande «commedia
in musica» – Die Meistersinger – piuttosto che con le Nozze di Figaro che
Strauss e Hofmannsthal si erano proposti di «rifare». Mentre, però, nel Die
Meistersinger della Norimberga della borghesia in ascesa, alle cui regole si
piega il «cavaliere» di Franconia, il messaggio viene lanciato a tempo di marcia
con un grande coro finale, nel Der Rosenkavalier viene raccolto da «Cioccolattino
», in un diminuendo timbrico, nella lacrima del fazzoletto.
Il «secolo breve» di Richard Strauss 235
L’inarrestabilità della trasformazione è coniugata con il ricordo melanconico
di una passata epoca più felice. A riguardo, è interessante il Der
Rosenkavalier, prodotto per il Maggio Musicale Fiorentino del 2012 in cui
ha debuttato, a 76 anni, Zubin Mehta nella concertazione della splendida
partitura. La regia e la drammaturgia firmate da Eike Gramms, professore
al Mozarteum e noto principalmente per i suoi lavori di prosa e di cinema.
La concertazione è intrisa di nostalgia e melanconia, anche nei momenti
più apertamente comici per un mondo bellissimo ma ormai finito, la «felix
Austria» letta come «Felix Europae» che esiste solo nei ricordi. Mehta dilata
i tempi, contiene il ritmo dei valzer e accentua i diminuendo dei tre finali
d’atto. Inclusi i due intervalli, «la commedia per musica» dura circa cinque
ore, che il 4 maggio sono stati salutati da venti minuti di ovazioni. Eike
Gramms (con Hans Schavernoch, scene, e Catherine Voeffray, costumi)
propone un unico impianto scenico e giochi di specchi e proiezioni in un
quadro atemporale che spazia dal Settecento all’inizio del Novecento. Struggente
il finale: il fondo scena si apre e si vede albeggiare una gigantografia
di Vienna inizio Novecento.
In breve, un omaggio ad un’Europa che si prepara a morire con due
colpi di pistola a Sarajevo.
Otto milioni di giovani morti
Come si è accennato in premessa, nella vulgata (ed anche tra coloro che
un tempo venivano chiamate «le persone colte») vige la leggenda di un
Richard Strauss «impolitico» per il quale il «secolo breve», pur contrassegnato
da due guerre mondiali e da tragedie immani, come il comunismo ed
il nazismo, sarebbe trascorso solo alla luce degli sviluppi della musica e del
teatro in musica: la Prima e la Seconda guerra mondiale, il «Finis Europae»,
il nazismo sarebbero stati per il compositore e per il suo librettista preferito,
Hugo von Hoffmannsthal, unicamente brusii a cui badare solo in quanto
inquinavano le partiture o le loro esecuzioni. In Italia, la ha accreditata,
anni fa, anche l’analisi fatta da Francesco Maria Colombo del carteggio tra
Strauss e Hofmannsthal. È vero che Richard Strauss viveva e componeva
restando distinto e distante dalla politica attiva, «per lasciarne le cure a chi
se ne interessa» (come lui stesso scrisse). È anche vero che la presentazione
di Strauss «impolitico» venne utilizzata nel processo di denazificazione: era
stato presidente dell’Associazione dei Musici Tedeschi nella Germania di
Hitler e pochi sapevano quanto da quello scranno (offertogli in quanto
considerato il maggiore compositore tedesco dell’epoca), si fosse adopera-
236 Giuseppe Pennisi
to per tentare, al meglio, di salvare intellettuali, soprattutto ebrei (come
Stefan Zweig) perseguitati dal regime.
Tuttavia, proprio le opere composte, o ricomposte, durante le due
guerre mondiali provano quanto fossero «politici» e il suo pensiero e la sua
musica. Durante la Prima guerra mondiale vennero concepite la seconda
edizione di Ariadne auf Naxos e Die Frau ohne Schatten («La donna senz’ombra
»). La prima edizione di Ariadne auf Naxos era parte integrante di un
macchinoso spettacolo di Max Reinhardt in cui l’opera veniva presentata
al posto del balletto (nel Settecento musicato da Lully) nell’ultimo atto de
Le Bourgeois Gentilhomme di Molière; lo spettacolo, prodotto inizialmente
a Stoccarda, ebbe poco successo anche a ragione della durata (viene riproposto
di rado; ha inaugurato il Festival di Salisburgo 2012) e, quindi,
venne riscritto in un lavoro composto da un prologo ed un atto.
In apparenza, Ariadne auf Naxos è un mero divertissement intellettuale.
La prima versione, del 1912, è un’acuta satira dei nouveaux riches,
unitamente ad un’ironica parodia di 300 anni di teatro in musica (dalla
commedia dell’arte all’opera comica, dalla tragédie lyrique al «bel canto»,
dal melodramma al teatro totale wagneriano e postwagneriano). Nella seconda,
quella del 1916 (comunemente rappresentata), la parodia resta, ma
la satira alla borghesia ricca (e cafona) passa in secondo piano e il vero
elemento fondante del gioco a cerchi concentrici è la vittoria di Eros su
Thanatos. Viene capovolto l’assunto classico e romantico della stretta congiunzione
tra Eros e Thanatos (e della vittoria del secondo sul primo) proprio
mentre in un’Europa trasformata in trincea Thanatos distrugge almeno
una giovane generazione di Eros. In Ariadne, l’uomo più ricco di Vienna
decide di fare rappresentare l’opera tragica, da lui stesso commissionata ad
un giovane compositore, sul dramma di Arianna abbandonata da Teseo
unitamente ad uno spettacolo di commedia dell’arte. Tale decisione getta il
compositore, naturalmente, nello sconforto più pieno in quanto ciò minaccia
di distruggere il suo lavoro. Inoltre, nell’«opera», mista a commedia
dell’arte, Arianna viene convinta da Zerbinetta (che ha quattro amanti in
parallelo) a darsi al primo uomo che passa nel suo cammino. Eros è omnivoro;
nel «prologo» sconfigge anche la «Dea Musica» (con il giovane compositore
sedotto da Zerbinetta e quasi pronto a buttare a mare il proprio
lavoro); nell’«opera» Eros vince su tutti i fronti trascinando la virtuosa ed
inconsolabile Arianna tra le braccia di Bacco, sulla scia del grande rondò
di Zerbinetta in cui si esalta l’amore più libero, e più promiscuo.
In questi ultimi vent’anni, nonostante possa sembrare uno spettacolo
molto distante dalla nostra sensibilità, Ariadne auf Naxos è stata messo in
scena frequentemente in Italia in varie produzioni, a Roma, alla Scala, a
Il «secolo breve» di Richard Strauss 237
Catania, a Spoleto, in circuiti di teatri di tradizione ed anche al piccolo ma
dinamico Festival di Montepulciano.
Nell’edizione proposta alla Scala nel 2000 e nel 2006 , il nesso tra Eros
e Thanatos è molto forte: la scena dell’opera era ispirata alla «Isola dei
morti» del pittore simbolista di fine Ottocento Arnold Böcklin (la regia è di
Luca Ronconi), mentre l’orchestra, guidata da Giuseppe Sinopoli nel 2000
e da Jeffrey Tate nel 2006, era languida e saudente.
A Venezia, Ariadne è arrivata, dopo un’attesa di 90 anni, nel prezioso
Teatro Malibran, piccolo e con le dimensioni adatte per un lavoro in cui
l’organico orchestrale è stato voluto da Strauss ristretto ma in grado di alternare
una scrittura mozartiana con una wagneriana; le voci non si debbono
sforzare (specialmente nel grande rondò e nel duetto finale); l’allestimento
poteva quasi fondersi con gli eleganti palchetti e le due balconate che
incorniciano la piccola platea. L’attracco in laguna è stato di lusso. In primo
luogo, Marcello Viotti ha diretto con voluttà; e l’orchestra ha risposto voluttuosamente,
come si addice in un lavoro dove Eros è centrale. In secondo
luogo, Paul Curran ha dimostrato di essere un regista di classe ed immaginazione;
nelle scene semplici, eleganti e, soprattutto, facilmente trasportabili
(da un palcoscenico all’altro) di Kevin Knight, il «prologo» è portato ai
giorni nostri e l’«opera» in uno spazio atemporale dal barocco al cabaret.
Interessante, l’allestimento di Laurent Pelly e Chantal Thomas che ha
avuto più riprese all’Opéra Bastille, pur se pensato inizialmente per il più
raccolto Palais Garnier con la sua grande scalinata ed i palchetti incorniciati
in ori e stucchi – funziona per l’abilità di portare la vicenda ai giorni
d’oggi. Il «prologo» si dipana in un grandioso villone da palazzinaro arricchito.
L’«opera» in un teatro povero di periferia di qualsiasi grande città
europea. Ancora una volta, un inno alla vita ed all’eros mentre otto milioni
di giovani morivano in trincea.
Ha un valore politico soprattutto Die Frau ohne Schatten («La donna
senz’ombra»), raramente eseguita in Italia (a ragione dell’enorme sforzo
produttivo che comporta). Elemento centrale del cartellone scaligero 2011-
2012, è coprodotto con la Royal Opera House di Londra dove si vedrà nel
2013. La produzione ha la regia di Claus Guth, uno dei più apprezzati
metteurs en scène tedeschi che ha di recente trionfato nella dissacrante
edizione della trilogia Mozart-Da Ponte realizzata al Festival di Salisburgo.
La direzione musicale è di Marc Albrecht, direttore stabile sia dell’opera e
della sinfonica olandese e che ha già diretto Die Frau ohne Schatten nel
tempio straussiano della Semperoper di Dresda. Cast di altissimo livello:
Johan Botha, Emily Magee, Michaela Schuster, Samuel Youn, Mandy Fredrich,
Maria Radner.
238 Giuseppe Pennisi
Die Frau ohne Schatten è una delle opere più importanti del Novecento
ed il lavoro più amato dallo stesso Richard Strauss che avrebbe voluto dirigerla
in tarda età, quando si scherniva alle frequenti offerte di dirigere Der
Rosenkavalier dicendo che, a 78 anni, era troppo lunga e faticosa, ma suggerendo
che avrebbe ben preso la bacchetta per Die Frau (che dura venti
minuti di più di Der Rosenkavalier). In cento anni è la quarta volta che è
approdata alla Scala (dove si è visto due volte lo stesso allestimento, negli
anni Ottanta e Novanta, curato da Jean Pierre Ponnelle). In Italia, che io ricordi,
negli ultimi trent’anni è stata messa in scena solamente a Firenze, oltre
che a Milano; l’allestimento scaligero di Ponnelle all’inizio degli anni Novanta
ed uno per la regia di Yannis Kokkos nel 2010. La regia è uno dei nodi più
difficili dell’opera. Non che sia facile l’esecuzione musicale: una partitura
sontuosa che richiede un doppio coro, un coro di voci bianche e 15 solisti.
Il libretto è una favola che può sembrare molto complicata. Per comprenderla
non è necessario addentrarsi nelle molteplici fonti e nei simboli dei numerosi
personaggi, di cui uno solo ha un nome (Barack, il tintore) mentre gli
altri sono indicati per la loro funzione o per una loro caratteristica (L’Imperatore,
l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano
del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via). L’apologo è, però,
lineare: un uomo e una donna non sono tali se non hanno figli – i quali, a loro
volta, sono il nesso tra passato e futuro. Senza figli, l’amore è unicamente
sesso e la coppia resta un eterno presente senza significato (e senza storia). La
vera gioia si ha, però, unicamente al termine di uno percorso iniziatico pieno
di dolori. Paternità e maternità, da un canto, e gioia grazie alla sofferenza,
dall’altro, colpiscono tutti i personaggi del lavoro.
Le due coppie al centro della vicenda sono, da un lato, il giovane e
bell’Imperatore e la giovane e bella Imperatrice, e, dall’altro, un povero tintore
con tre fratelli disabili e la di lui donna. La prima coppia non può generare
perché l’Imperatrice non ha un’ombra (quindi non è una donna completa);
la seconda perché troppo stanca e stressata dalle fatiche quotidiane.
L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggeritole dalla sua mefistofelica
nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, creando, però, a quest’ultima ed al
suo Barack sofferenze ancora più gravi di quelle che avevano nella loro condizione
precedente. La truffa – dell’ombra – non salva neanche la coppia
imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza viene dalla comprensione
del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna senz’ombra
e dal tentativo di aiutare Barack e sua moglie. La compassione dei Cieli a
questo punto non può non intervenire: risolvere i problemi di ambedue le
coppie e trasformare il coro dei bambini non nati con cui termina il primo
atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale.
Il «secolo breve» di Richard Strauss 239
Tutto avviene in un mondo mitico che richiede nel primo e nel terzo
atto frequenti cambiamenti di scena a sipario aperto o solo leggermente
abbassato mentre in orchestra si avvicendando (tra un quadro e l’altro)
sette interludi, tutti differenti pur se tutti sulla stessa cellula musicale. Non
solo, è necessario un palcoscenico a due livelli e nel terzo atto, nei rapidi
avvicendamenti, ci vorrebbe anche una cascata, un bosco e via discorrendo.
Ho visto Die Frau ohne Schatten più volte. La prima volta fu nel 1967
(ero studente; anzi ero «studente e povero» per usare un noto verso di un’aria
verdiana, del Rigoletto, ma riuscivo sempre ad andare al loggione) in quello
che allora era il «nuovo» Teatro dell’Opera di Francoforte, struttura
modernissima. Non conoscevo l’opera che per averne sentito qualche sezione
in disco. La messa in scena era tradizionale: palcoscenico a due livelli
e scene dipinte. Oggi sembrerebbe semplice e forse goffa, ma trasmise il
grande fascino del lavoro. Negli anni Settanta, il Metropolitan Opera di
York sfoggiava un allestimento grandioso con cui metteva in mostra tutta
la tecnologia allora disponibile.
Molto differenti tra loro le ultime edizioni. Ho visto a Firenze quella
firmata da Ponnelle (presentata due volte alla Scala ma nata a Colonia): una
scena unica minimalista da teatro cinese, valida grazie al grande supporto
della direzione musicale, dell’orchestra, dei cori e dei cantanti. Grandiosa
nel maggio 2010, sempre nella città del Giglio, la produzione di Yannis
Kokkos, di cui a causa degli scioperi ci sono state due sole recite; una grande
festa di immagini e di colori. Così grandiosa da essere una delle determinanti
del dissesto del teatro. Totalmente differente, la messa in scena di
Christof Loy al Festival di Salisburgo: siamo nella leggendaria Sofiensaal di
Vienna (ormai distrutta) dove nel 1955 Karl Böhm ed un cast stellare registrano
l’opera e, man mano che il lavoro procede, gli interpreti in abiti
anni Cinquanta di fronte a microfoni e leggii, e seduti su semplici sedie
quando non è il loro turno di cantare, entrano nei personaggi sino a soffrire
e gioire per loro. Cosa fanno, nella ultima produzione presentata alla
Scala in collaborazione con la Royal Opera House (dove sarà in scena nel
2013), Claus Guth e Ronny Dietrich (la scenografa)? Prima che inizi la
musica, vediamo una bella giovane donna (l’Imperatrice) ed il marito (l’Imperatore)
ed un medico, in una clinica. La donna ha chiaramente disturbi
mentali e la vicenda si dipana come un suo sogno. Non manca né una parola
del testo né una nota; ci sono anche gli animali (il falco, la gazzella, il
cervo); ma tutto diventa plausibile – un segno, al tempo stesso, erotico ed
etico con un allestimento facilmente trasportabile da teatro a teatro. A
supporto del disegno generale di Guth, ci sono le scene ed i costumi di
Christian Schmidt, le luci di Olaf Winter ed i video di Andi Müller.
240 Giuseppe Pennisi
Qual è il messaggio politico che si trae? In primo luogo, come si è detto,
quello della gioia dopo la sofferenza, della necessità della paternità e della
maternità per essere completi, dei figli come legame essenziale tra passato e
presente. In secondo luogo, quello dell’amore coniugale che in quegli anni,
come vedremo più tardi, Strauss esaltava in due opere messe in scena una
sola volta in Italia: Die ägyptische Helena e Intermezzo. In terzo luogo – ma
è il più importante –, quello di guardare in modo positivo al futuro, con la
certezza di superare gli ostacoli. L’epistolario rivela che Die Frau ohne
Schatten era stata completata nel 1917, ma Strauss e Hofmannsthal vollero
che andasse in scena dopo la fine del conflitto, quale che ne fosse stato l’esito.
Gli Imperi centrali – lo sappiamo – persero la guerra, ma Strauss e Hofmannsthal
lanciarono lo stesso dall’Opera di Vienna il loro messaggio di
speranza e fiducia nell’umanità. Un gesto più «politico» di questo?
Interludio tra due guerre
Ad una lettura superficiale unicamente Friedenstag («Giorno di pace»),
la cui prima avvenne a Monaco nel luglio 1938, può sembrare un lavoro
con una caratura decisamente politica. In Italia, che io ricordi, è stato rappresentato
una volta sola a Catania nel 1991. È ancora più politico in
quanto basato su un’idea e forse su un testo del poeta e scrittore ebreo
Stefan Zweig, nonostante il libretto sia firmato da Joseph Gregor (grande
amico sia di Strauss sia di Zweig). È una commedia drammatica in musica
in un atto: la difesa della guarnigione di una città cattolica assediata dalle
truppe protestanti il 24 ottobre 1648, ultimo giorno della guerra dei Trent’Anni.
Ed infatti, dopo un intreccio complesso di amore coniugale (la moglie
del comandante entra nella guarnigione nonostante l’esplicito divieto postole
dal marito impegnato a difendere la postazione sino all’ultima goccia
di sangue), arriva l’armistizio e l’annuncio della tanto desiderata pace dopo
tre decenni di guerra. È un lavoro affascinante che meriterebbe di essere
rappresentato più spesso e che, al pari di Capriccio del 1942, mostra come
l’ormai ultrasettantenne Presidente della Camera dei musicisti del Reich
non fosse così lontano dai rulli di tamburo che nell’estate del 1938 cominciavano
a sentirsi in varie parti del «secolo breve» – era appena terminata
«la guerra d’Africa», era in corso «la guerra di Spagna», diventano sempre
più forti le richieste tedesche nei confronti della Cecoslovacchia e della
Polonia. Solamente poche settimane dopo la «prima» di Friedenstag, sempre
a Monaco, Mussolini sarebbe stato il «mediatore» di quella che si sarebbe
rivelata una pace di breve durata. Comporre e mettere in scena, in questo
Il «secolo breve» di Richard Strauss 241
contesto, un’opera interamente dedicata alla pace ed intitolata «Giorno di
pace» rappresentava una chiara presa di posizione anche perché, per di più,
veniva da un’idea di uno scrittore considerato entartete (ossia «degenerato»)
poiché di sangue ebreo.
In effetti, dei lavori per il teatro del periodo comunemente chiamato
«tra le due guerre», solo Intermezzo, del 1924, può essere considerato
avulso dal contesto storico-politico. È un’opera strettamente familiare di
cui Strauss scrisse direttamente il libretto, senza rivolgersi a Hofmannsthal,
nonostante quelli fossero proprio gli anni della loro collaborazione più
stretta, più profonda e più feconda. In Intermezzo, «commedia borghese
con interludi sinfonici in due atti», rappresentato a Bologna nel 1990 in
traduzione ritmica italiana, Strauss parla di un episodio della propria vita
coniugale. Compositore e direttore d’orchestra avvenente ed elegante, oltre
che di successo, ha una moglie che lo ama ma teme sempre di essere tradita
con qualche cantante o attrice oppure ammiratrice. La commedia ruota
proprio attorno ad una moglie gelosa per un tradimento mai avvenuto. C’è
un pizzico di Freud in un’atmosfera elegante e raffinata con una scrittura
vocale ed orchestrale di lusso tale da interessare anche al di fuori della
cerchia della famiglia Strauss e di esser ancora oggi sulle scene dei teatri
del mondo tedesco. È improbabile che un teatro italiano progetti una ripresa:
la si può gustare in una bella incisione diretta da Wolfgang Sawallisch.
Indiretto ma non meno forte il contenuto politico e sociale delle due
ultime opere su testo di Hofmannsthal: Die ägyptische Helena del 1928 e
Arabella del 1933 (l’anno dell’ascesa al potere di Hitler). Die ägyptische
Helena ha avuto un unico allestimento in Italia a Cagliari nel 2000, con
regia, scene e costumi di Denis Krief, e Gérard Korsten alla guida dell’orchestra.
Ho pure avuto la fortuna di vederla nel 2009 a Berlino in una
produzione firmata da un regista svizzero relativamente giovane (Marco
Arturo Marelli). In breve, dopo la guerra di Troia, Menelao vuole passare
a vie di fatto con Elena (che lo ha tradito con Paride – e non solo). La trova
in Egitto, dove viene persuaso che a Troia era giunto un simulacro (oggi
si direbbe un clone) della bella, la quale invece lo avrebbe atteso da dieci
anni castamente. Dopo una travolgente notte d’amore, Elena riprende le
vecchie abitudini; mentre Menelao sonnecchia, lo tradisce con un beduino.
Nuova ira dello sposo, che viene convinto di avere fatto (lui) un sogno
erotico; si riappacifica con la moglie alla vista della loro dodicenne figliola
(concepita prima della guerra di Troia). Naturalmente, c’è più di un pizzico
di Freud e molta ironia sul perbenismo borghese alla vigilia della Grande
Depressione. Il dialogo è scintillante, la partitura lussureggiante. Denis Krief
si ispirava a The Sheltering Sky di Paul Bowles e, quindi, al Tè nel Deserto
242 Giuseppe Pennisi
di Bernardo Bertolucci). Marco Arturo Marelli trasporta la vicenda alla fine
degli anni Venti in una «maison de plaisir» al Cairo. Andrew Litton dà una
lettura briosa della partitura. Robert Chalin (Menelao) è un tenorone eroico
che prende in giro i vezzi dei tenori wagneriani, tanto robusto (nel canto
e nell’aspetto) quando credulone. La giovane Ricarda Merberth è una
Elena sensuale e dal vasto registro vocale. Eccezionale Laura Aikin (di casa
alla Scala ed al Maggio Fiorentino) per come è transitata da soprano di
coloratura a soprano lirico puro con un fraseggio chiarissimo in un ruolo
terrificante per durata e equilibrismi vocali. Il significato: la guerra è finita
(o pare essere finita), ma la classe dirigente è in pieno declino e si rifugia
in acrobazie erotiche o nel simulacro della famiglia. In breve, una black
comedy più che una pièce borghese.
Arabella è una commedia lirica con «il bazar sublime d’ogni possibile
ed impossibile impegno vocale» (lo scrisse Fedele D’Amico) di uno Strauss
quasi settantenne. Una famiglia sull’orlo della bancarotta che, nella Vienna
sconfitta degli anni immediatamente successivi alla guerra austro-prussiana,
gioca le ultime carte puntando su di un buon matrimonio della figlia
Arabella. Per questa ragione la sorella più giovane, in attesa che un ricco
cavaliere si presenti, è costretta a vivere travestita da ragazzo. Nasce in
questo modo un equivoco sul quale si fonda l’intreccio che si conclude con
un lieto fine e con una musica del tutto innovativa: un organico ristretto,
addio per sempre ai wagnerismi, nessuna concessione alla dodecafonia,
una scrittura (scrive Mario Bortolotto) fatta di «schegge e tessere sonore»
che «scorrono, riapparendo in momenti del tutto imprevedibili» in cui
anche i ritmi di danza hanno una funzione importante. Come «commedia
lirica» la si è vista per anni a Monaco in un allestimento di Peter Beauvais
che nel 1992 ha visitato per alcuni giorni La Scala (dove una nuova produzione
pare in programma per il 2014) in un allestimento di lusso con
Wolfgang Sawallisch, con i complessi dell’Opera di Monaco, in buca e
Felicity Lott, Bernd Weikl e Alfred Kuhn nei ruoli principali. È possibile
che mentre la Germania stava profondamente cambiando, Strauss e Hofmannsthal
si rifugiassero in una evasione?
Che così non fosse lo mostra un allestimento in scena da circa un lustro
a Francoforte (coprodotto con il Teatro Reale di Göteborg in Svezia): la
vicenda è trasferita ai giorni d’oggi, la crisi è quella finanziaria, il mondo che
sta sparendo è quello della finanza à go-go. Una scena unica con pareti mobili.
Il bianco e nero è di rigore; si staglia sul resto il magnifico abito da sera
azzurro della protagonista. Una regia efficace di Christof Loy. Una direzione
musicale cesellata di Sebastian Weigle. Un cast giovane con voci stupende;
Anne Schwanewilms è un Arabella di grande avvenenza fisica e vasta esten-
Il «secolo breve» di Richard Strauss 243
sione vocale; Robert Hayward (Mandryka) un vero baritono di agilità; Alfred
Reiter e Helena Döse i genitori decaduti della protagonista e di sua sorella.
Una commedia, quindi, piena di provocazioni: la crisi postbellica del 1866
era in effetti una parafasi di quella finanziaria austro-tedesca del 1931 che
aprì la strada alla vittoria di Hitler. La produzione diretta da Loy ammonisce
dei pericoli politici e sociali della crisi che l’Europa attraversa oggi.
C’è un messaggio politico anche in Die schweigsame Frau («La donna
silenziosa») del 1935, il cui testo è firmato da Stefan Zweig, pochi mesi
prima che, da ebreo entartete dovette scappare in America Latina, dove si
tolse la vita. È «un’opera comica in tre atti» e dell’opéra comique segue
tutte le convenzioni, anche l’alternanza tra numeri musicali e sezioni parlate.
Tratta da una farsa elisabettiana di Ben Johnson (Volpone), è un’esaltazione
della giovinezza (Strauss era settantenne) e della gioia di vivere (proprio
mentre la Germania diventaa sempre più cupa) con una partitura non
solo tecnicamente perfetta ma che si riallaccia – per la prima volta nei lavori
di Strauss – a Gioacchino Rossini, specialmente nei vertiginosi concertati.
Nel 1938, quasi contemporaneamente a Friedenstag, viene prodotta
Daphne un atto unico di 75 minuti, sempre su libretto di Joseph Gregor.
Ripresa alcun anni fa a La Fenice, mescola elementi tratti da Le baccanti
di Euripide con il mito di Apollo e Dafne da Le metamorfosi di Ovidio. Un
mero rifugio nella mitologia mentre si avvicina la Seconda guerra mondiale?
Partitura smagliante, vocalità ardite, ma soprattutto un appello alla
verità della natura in un mondo pieno di finzioni.
Finis Europae
Sembra un rifugio nel mondo mitico per tenersi distante dalla contemporaneità
(e soprattutto dalla guerra) anche Die Liebe der Danae, penultima
opera di Strauss, scritta nel 1940, inserita nel cartellone del Festival di
Salisburgo del 1944 (dove venne anche data una prova generale), ma soppressa,
con il resto del Festival, in seguito al fallito attentato a Hitler, e
rappresentata solo postuma, nel 1952. Nata su un’idea di Hugo von Hofmannstal,
ma su libretto di Joseph Gregor, mescola diversi miti in forma di
commedia narrando l’ultima avventura amorosa del vecchio Giove, invaghitosi
di Danae, figlia del re di Eos, Pollux, un re così spiantato che gli
vengono pignorati tutti i beni. Ma al dio, Danae preferisce il giovane asinaio
Mida, di cui è innamorata, rinunciando lei al sogno di una pioggia d’oro
e all’immortalità, lui al potere di trasformare in oro tutto ciò che tocca.
Nonostante il tono leggero, e il testo un po’ disorganico, quest’opera de-
244 Giuseppe Pennisi
nuncia anche la perdita di valori generata dalla brama di denaro, contrapposta
a un mondo di verità e sincerità dove regna l’amore. Ho avuto modo
di ascoltare una versione da concerto all’auditorium della Rai di Roma
negli anni Ottanta; senza regia, scene e costumi, però, la resa non è completa
perché Strauss la aveva concepita per il teatro. In una produzione
messa in scena alla Deutsche Oper nel marzo 2011 (e di cui esiste un buon
DvD), la regia di Kristen Harms gioca proprio sui significati simbolici e
allegorici dell’opera, a partire da un pianoforte che viene issato in alto e
incombe, capovolto, sul palcoscenico, facendo cadere non una pioggia d’oro,
ma di pagine di musica (simbolo dell’unica, autentica bellezza). L’ambientazione,
un po’ Jugendstil, sfoggia costumi moderni con venature grecizzanti,
e scene immerse in una magica luce blu o illuminate dal colore dell’oro.
Opera complessa e di difficile esecuzione (anche per questo è una delle
opere di Strauss meno rappresentate, tanto che si contano solo sedici produzioni
in circa 60 anni) è diretta con intelligenza da Andrew Litton, che
mette in risalto la brillante scrittura orchestrale, cogliendone non solo gli
aspetti fiammeggianti, ma anche i risvolti sensuali, quelli malinconici e
contemplativi, i tocchi wagneriani, i giochi arguti e gli arabeschi sonori.
Ottimo il cast, dominato dal soprano Manuela Uhl, nei panni di Danae,
appena un po’ appannata vocalmente rispetto a una precedente incisione
del 2003. Se la cavano con buon mestiere anche Mark Delavan, nel difficile
ruolo di Giove, e Thomas Blondelle, in quello di Mercurio. Delizioso il
quartetto delle parenti di Pollux, amate da Giove (Hila Fahima, Martina
Welschenbach, Julia Benzinger, Katarina Bradic). Al di là del valore musicale
del lavoro (mai eseguito, credo, in forma scenica in Italia e meritevole
di attenzione in una fase come questa di revival di Strauss), occorre chiedersi
cosa Die Liebe der Danae significa nel contesto storico-politico dell’epoca.
Mera divagazione in un flusso musicale di grande ricchezza? La parabola
può essere letta sotto differenti aspetti: da un lato, la rinuncia all’oro
ed al potere proprio mentre oro (del mondo capitalista) e potere bruto (del
nazismo) si confrontavano per la dominazione dell’Europa e del mondo; da
un altro, Pollux rappresenta l’Europa spiantata e pignorata anche se crede
ancora di essere un dio onnipotente. Ambedue queste letture presentano,
nel 1940 e nella preparazione per il Festival di Salisburgo del 1944, ambiguità:
Strauss vuole e non vuole svelare il proprio pensiero rispetto al percorso
preso dal «secolo breve».
Esplicito, invece, il messaggio dell’opera o meglio Ein Konversationsstuck
für Musik in einem Aufzug, «una conversazione in musica in un atto» di
circa due ore e mezzo senza intervallo) che, secondo Strauss allora settantottenne
sarebbe stato il suo testamento: Capriccio, presentato il 28 ottobre 1942
Il «secolo breve» di Richard Strauss 245
al Teatro Nazionale di Monaco, già in parte danneggiato dai bombardamenti.
L’Europa era in guerra da tre anni. Capriccio è il «ritratto in un interno»
di un intero mondo, basato su un’idea di Stephen Zweig (che si era suicidato
a Pétropolis, in Brasile, nel febbraio dello stesso anno). A sua volta, Zweig
aveva preso l’idea da un testo dell’Abate Giovanni Battista Casti (Prima la
musica, poi le parole) messo in musica nel 1787 da Antonio Salieri, e rappresentato
alcuni anni fa nel delizioso Teatro Torti di Bevagna in Umbria.
Strauss tentò di scrivere da solo il libretto, sulla base di appunti di Zweig, ma
si affidò, infine, alla collaborazione del direttore d’orchestra Clemens Krauss.
In questi ultimi anni, Capriccio ha avuto allestimenti memorabili a Firenze,
Napoli, Catania, Bologna, Parma, Venezia, Torino e Napoli, nonostante, ad
una lettura superficiale, sembri un puro divertimento intellettualistico.
L’azione si svolge in un castello poco distante da Parigi nel 1775, quando
infuriava la querelle des bouffons (tra gluckiani e piccinniani/pergolesiani)
e pochi annusavano la Rivoluzione francese nell’aria. Ci si appresta
a celebrare il ventisettesimo compleanno della Contessa Madeleine (vedova,
molto esperta e di mondo e di letto), inventando un’opera. Per questo sono
a castello un anziano capocomico (La Roche), un poeta (Olivier) ed un
musicista (Flamand). Olivier ha appena terminato una relazione (più sessuale
che sentimentale) con la bella attrice Clairon (con cui adesso brama
di dividere il letto il venticinquenne Conte, fratello di Madeleine). I due
«fraterni avversari», Flamand ed Olivier, si contendono le grazie della Contessa,
nonché la priorità relativa della parola e della musica nel teatro in
musica. Tra una cioccolata ed una danza, la contesa va avanti nella forma
libera, per l’appunto, di un «capriccio» – dallo splendido sestetto d’archi
iniziale al grande pezzo concertato a otto voci, a citazioni da tutta la storia
della musica, a contrappunti di rara maestria. La «conversazione» parte
dall’estetica; i corteggiamenti hanno presto il sopravvento. Eros trionfa su
Thanatos come in Ariadne auf Naxos, ma Strauss ormai quasi ottuagenario
lo colora di un’intesa meditazione sull’essenza dell’avventura umana (l’arioso
di La Roche). Quando il gioco sembra terminato – il Conte va verso
Parigi con Clairon, Flamand ha un appuntamento con Madeleine, non è più
necessario inventarsi un’opera – il colpo di scena finale: Madeleine, rimasta
sola a cena, si rammenta, quasi per caso, di avere, alla stessa ora e nello
stesso luogo dell’incontro con Flamand, un appuntamento con Olivier; si
mette all’arpa, di fronte allo specchio, per meditare sulla «banalità di scegliere
» (in amore, in politica, in tutto). Una «banalità» su cui scende il sipario,
mentre dall’orchestra si ascolta un indimenticabile re bemolle maggiore.
Il «finale» resta «aperto»: la Contessa avrà sia il poeta sia il musicista,
oppure nessuno dei due, ma non cadrà nella «banalità di scegliere».
246 Giuseppe Pennisi
Il lavoro è chiaramente una summa raffinata e problematica della vita
di Strauss come artista e di un messaggio lanciato ai compositori di teatro
in musica: organici scarni e fusione perfetta tra parole e musica. Ma è ancora
di più la presa di posizione dell’intellettuale di «decidere di non decidere»
quando il proprio mondo sta crollando – nell’arco di due decenni in Francia
si sarebbe passati dalla querelle des bouffons al Terrore dei giacobini – unitamente
al rimpianto struggente pur se elegantissimo di cosa l’umanità sta
perdendo. Per Strauss, la Seconda guerra mondiale che pur si combatté e in
gran misura si vinse sul Pacifico (con la distruzione della flotta giapponese
nella battaglia di Midway), rappresentava la fine dell’Europa o quanto meno
di quella Europa da lui tanto amata. Nel 2002, a Torino, la regia di Jonathan
Miller terminava con i bombardamenti su Monaco. Interessante l’evoluzione
della concezione registica di Luca Ronconi che quando ha proposto Capriccio
a Cagliari dello spettacolo di Bologna del 1987 e del 1991 ha mantenuto
solo l’idea delle grandi specchiere riprese nella scena di Margherita Palli;
l’azione è invece trasportata nel 1930 (o giù di lì) – mentre ci si avvicina,
quindi, al suicidio dell’Europa. A Cagliari, l’accento era su una recitazione
accuratissima, in cui i movimenti (il nervosismo di Olivier, l’ansia adolescenziale
di Flamand, la raffinatezza di Madeleine) muovevano una «conversazione
» che potrebbe esser definita statica. La bacchetta di Rafael Frübeck
de Burgos dava un’interpretazione limpidissima della difficile scrittura, allungando
leggermente i tempi con risultati superbi nell’abbandono orchestrale
«al chiarore di luna» che precede il finale, perdendo, però, vivacità
nell’ottetto. Madeleine era la bellissima Dagmar Schellemberger con fraseggio
accuratissimo. Giuseppe Filianoti era, senza dubbio, il Flamand migliore
su piazza, un risultato straordinario per il giovane cantante italiano.
Marcus Werba confermava di essere un ottimo Olivier. Jan-Hendrik Rootering
un La Roche di grande classe. Ottimi Doris Soffel (Clairon) e Wolfgang
Holzmair (il Conte) nelle loro schermaglie erotiche.
Strauss ebbe vita oltre la fine della Seconda guerra mondiale e prima di
morire riuscì a lasciare un testamento personalissimo (ma attinente ai propri
affetti ed alle proprie emozioni più che al «secolo breve») negli «ultimi quattro
lieder». Capriccio non restò, però, la sua ultima parola sulla fine dell’Europa.
Nella primavera del 1945 (esattamente tra il 13 marzo ed il 15 aprile,
mentre infuriava la battaglia di Berlino) Strauss compose a Garmisch un
poema sinfonico, Metamorphosen, dietro richiesta di Paul Sacher e del suo
Collegium Musicum zurighese. Allora, era ancora forte in lui lo sgomento
per il bombardamento, avvenuto nel febbraio di quell’anno, di Dresda, sua
città d’elezione. L’idea del pezzo risaliva però a qualche tempo prima, pre-
Il «secolo breve» di Richard Strauss 247
cisamente alla fine del 1943: Monaco, l’altra città tedesca a cui Strauss era
strettamente legato, era stata distrutta il 2 ottobre 1943; sulla spinta di questa
emozione il compositore aveva abbozzato allora un tema con l’appunto
Trauer um München, ossia «lutto per Monaco». Questo spunto iniziale si
sarebbe trasformato in uno dei temi principali delle Metamorphosen, evidenziando,
con una citazione a poche battute dalla fine accompagnata dalla
nota «In memoriam!», affidata ai violoncelli nella tonalità di do minore, la
sua coincidenza con il tema della Marcia funebre dell’Eroica di Beethoven:
coincidenza che Strauss riconobbe solo in un secondo momento ma che
giudicò altamente simbolica. Come ha scritto correttamente Sergio Sablich,
nella sua visione tragica filtrano i riflessi della catastrofe della guerra e del
destino votato all’annientamento. Ma, come aggiunge Quirino Principe,
essa «non è tanto una tragedia ‘nella’ musica quanto una tragedia ‘della’
musica, e il lugubre messaggio dell’ottantunenne Strauss non ha altri referenti
se non la tradizione musicale tedesca».
Viene frequentemente eseguita un’edizione per 23 archi (dieci violini,
cinque viole, cinque violoncelli, tre contrabbassi) della partitura stampata
da Boosey & Hawkes a Londra nel 1946 (stesso anno della prima esecuzione,
avvenuta a Zurigo il 25 gennaio). Di recente è stata rinvenuta una prima
stesura per un organico di soli sette archi: due violini, due viole, due violoncelli
e contrabbasso. Ciò vuol dire che Strauss, pur ottantunenne, continuò
a lavorare al progetto, che per lui rivestiva dunque speciale, significativa
importanza. Al di là di aspetti tecnico-musicologici, Metamorphosen
è una grave ma non cupa meditazione di questo requiem senza illusioni,
reso ancor più straziante da un severo distacco. Tra le tante metamorfosi
del titolo – è sempre Sablich a sottolinearlo – è già contenuta anche quella
di una ricerca della verità sfuggente alle soglie dell’oscurità.
Conclusione
In breve, Strauss attraversa tutto il «secolo breve» dell’Europa (l’unico
mondo che conosce a differenza di musicisti del Novecento Storico come
Respighi, Puccini e Stravinskij già «atlantici» in quanto a cavallo tra la
cultura europea ed americana) dalla Vienna di Freud centro della cultura
europea dell’epoca alla contemplazione, dal suo rifugio a Garmisch, della
fine della centralità dell’Europa. Senza la quale, la ricerca della verità sfuggente
non è più possibile.
Giuseppe Pennisi

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