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FINANZA/ Le tre zavorre che
mandano a fondo l’Italia
martedì 16
ottobre 2012
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Nell’immaginario degli italiani (soprattutto dei
politici), il Fondo monetario internazionale (Fmi) è guidato da un gruppo di
arcigni signori che considerano l’austerità come la più importante delle virtù.
Ho lavorato per 18 anni in Banca mondiale e posso assicurare che i dirimpettai
e “cugini” del Fmi non sono mai stati “arcigni” e hanno considerato l’austerità
principalmente come uno strumento per rimettere la casa in ordine e avviare un
sano processo di crescita. Specialmente negli ultimi quarant’anni, la missione
di Fondo (nato per tornare alla convertibilità e a un sistema monetario
internazionale sano ed efficace) e di Banca (pensata per la ricostruzione
dell’Europa dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale) è mutata.
Oggi il compito principale del Fondo è la “crescita
inclusiva” e quello della Banca la lotta alla povertà. Questi obiettivi mal si
conciliano con un’”austerità” declinata nel senso di fare diventare l’eurozona
uno dei freni dell’economia internazionale e di innescare nel suo ambito forti
tensioni sociali. Quindi era da aspettarsi che dall’assemblea generale di Fondo
e Banca, appena conclusasi a Tokio, scaturisse un forte invito alla
crescita e un appello alla cautela nei confronti di misure di “austerità”.
Ricerche condotte dal servizio studi del Fondo,
diretto da Olivier Blanchard, mostrano che il “moltiplicatore fiscale”
(il cambio di passo nella crescita del Pil risultante da modifiche strutturali
del bilancio pubblico) è molto più forte di quanto si ritenesse in passato: si
aggirerebbe non sullo 0,5% (come generalmente ritenuto), ma in un range
che va dallo 0,9% all’1,7%. Si è certamente ecceduto con l’aumento della
pressione fiscale e forse anche con alcuni tagli alla spesa. Per tornare a
crescere, restando nelle regole dell’eurozona, ci vorrebbero un’iniezione di
fiducia, un obiettivo condiviso in cui credere, una liberalizzazione dei
mercati protetti, un miglioramento della qualità delle risorse umane - gli ingredienti
che fanno crescere competitività e produttività e, quindi, “efficienza adattiva”.
Invece, liberarsi dai vincoli dell’unione monetaria e
ritrovare la “sovranità monetaria”, porterebbe a una drastica svalutazione -
stime della Commissione europea pongono al 30% la fiscal devaluation dell’Italia
- che diffonderebbe sfiducia, non fiducia. Aggravando la situazione, non
migliorandola. In questo contesto, poi, una scossa alla Reagan (ossia
una drastica riduzione della pressione fiscale accompagnata da una manovra
espansionistica del bilancio pubblico), pur avvocata da un’associazione di
imprenditori e docenti universitari tra i 35 e i 45 anni e risultante come la
misura più votata all’ultimo sondaggio del Club dell’Economia, potrebbe avere
effetti devastanti dato che l’economia italiana non gode della fiducia da
“ultima spiaggia” di cui fruisce l’economia americana e dato che l’euro (ove ci
fosse concesso di restare nell’unione monetaria in piena flagranza di
violazione dei trattati) non ha la funzione di signoraggio di cui gode il
dollaro degli Stati Uniti.
Una strategia possibile consiste nel mirare sia
al breve, sia al lungo periodo. Nel breve termine, prima delle prossime
elezioni, occorre completare i provvedimenti iniziati per rendere il mercato
interno dell’Italia più competitivo. Secondo le analisi di Mediobanca, l’anno
scorso il margine operativo netto in percentuale del valore aggiunto (un buon
indicatore di redditività) è stato del 43% nel settore dell’energia, del 33%
nei servizi, del 17% nel manifatturiero. Ciò vuol dire che il manifatturiero
(più esposto dell’energia e dei servizi alla concorrenza internazionale) riesce
ancora a competere sul mercato mondiale, ma con margini molto ridotti rispetto
ai quelli di settori protetti che estraggono cospicue rendite a spese di
consumatori e degli altri comparti e incidono sulla fiscal devaluation.
Le rendite vengono ripartite a seconda dei rapporti di forza tra imprese e tra
quelli degli imprenditori e dei loro dipendenti: non per nulla settori protetti
come i trasporti pubblici e gli elettrici sono i più forti (anche nella
contrattazione: il salario medio di un elettrico si aggira sui 40.000 euro
mentre quello di un lavoratore nel manifatturiero tocca i 22.000 euro).
Come portare a termine l'opera? Dato che i settori
“forti” saranno tanto più agguerriti quanto più si avvicina la campagna
elettorale, la strada immediata per un Governo tecnico consiste nel recepire
nella legge annuale per il mercato e la concorrenza la settantina di misure
indicate dall’Autorità per la concorrenza e il mercato per garantire la
concorrenza e tutelare i consumatori. Molte di queste misure riguardano
interessi specifici come gli organi professionali, la contendibilità delle
banche popolari, gli sconti sui prezzi di copertina dei libri, le restrizioni
ai prezzi dei carburanti. Il varo di un decreto legge, sostenuto da una buona
campagna di informazione e comunicazione, fornirebbe indicazioni molto utili
agli elettori per comprendere chi opera in favore di una maggiore o di una
minore “efficienza adattiva” dell’Italia. Naturalmente, ciò andrebbe realizzato
senza rallentare ma anzi accelerando l’attuazione (decreti applicativi,
circolari) delle misure volte ad aumentare la concorrenza approvate dal
Parlamento mesi or sono, ma ancora in gran misura non operative.
Per il lungo periodo, utili spunti si possono trarre
da proposte presentate in questi mesi da varie fondazioni più o meno contigue a
schieramenti politico-culturali. Un primo gruppo di proposte riguarda come
ridurre il fardello del debito pubblico che, di per se stesso, frena di un
punto percentuale la crescita economica dell’Italia (e spiega come l’aumento
potenziale annuo del Pil sia passato dall’1,3% stimato verso il 2005 da
Commissione europea, Bce, e Fmi allo 0,3% delle ultime stime Ocse). Anche se un
lavoro molto recente del Fmi (incluso nell’ultima edizione del World
Economic Outlook) mostra scetticismo nei confronti della solidità e
durevolezza di misure straordinarie per ridurre il debito pubblico, un
seminario al Cnel ha messo in confronto una dozzina di proposte che vanno dal
“vendere, vendere, vendere” a prestiti forzosi, a strumenti finanziari per
riscattare il debito in essere (diminuendo l’interesse medio ed allungando le
scadenze).
Il secondo punto chiave riguarda la politica
industrial-manufatturiera. È, e continuerà a essere, l’asse portante di un
Paese privo di risorse naturale (e quindi trasformatore) e in cui i servizi
sono composti o da mini-imprese marginali o da comparti protetti. Alcune
analisi (ad esempio, quelle della fondazione Edison) suggeriscono che le
piccole e medie imprese hanno dato prova, di fronte alla crisi, di un buon
grado di “efficienza adattiva”. La fondazione Agenda pone l’accento sul
miglioramento del contesto, dalla difesa del suolo ai servizi reali. Solo
l’Arel pare affrontare, almeno in parte, il problema centrale: le dimensioni
d’impresa; le nostre sono minute nel contesto europeo e ancor più in quello
mondiale, non in grado quindi di fare altra innovazione che quella “adattiva” -
ossia applicare all’Italia i risultati di ricerche di base straniere.
Occorre, a mio avviso, studiare con attenzione il
programma elaborato in Germania e attuato dagli anni Ottanta per aumentare le
dimensioni delle loro “piccole imprese” (che corrispondono a grandi imprese
italiane) e farle diventare i giganti oggi alla conquista del mercato mondiale.
Ciò comporta nuove regole di governance imprenditoriale, di selezione del
management, di formazione e governo delle risorse umane, nonché incentivi a
fusioni e concentrazioni.
Il nodo centrale resta come avviare, portare avanti e
realizzare questo cambiamento di un percorso che, alla Douglas C. North, sembra
“predefinito”. Il requisito di base è inevitabilmente politico: i cittadini
devono ritrovare fiducia nel ceto politico - ciò comporta riduzione del numero
dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, adeguamento di indennità almeno
a quelle del Parlamento europeo, un sistema elettorale che consenta contatti
tra elettori ed eletti e monitoraggio dei primi nei confronti dei secondi,
eliminazione di alcuni livelli intermedi di governo, e via discorrendo.
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