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FINANZA/ I numeri per dare il via alla "rimonta" italiana
martedì 9 ottobre 2012
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Tra pochi giorni (il 18-19 ottobre), i Capi di Stato e
di Governo dell’Ue si riuniranno a Bruxelles per discutere del futuro
dell’integrazione europea sulla base del “rapporto Van Rompuy” ora all’esame
dei loro sherpa. Il Governo italiano ha predisposto il Documento di
economia e finanza (Def) e prima del vertice di Bruxelles saranno varati gli
ultimi provvedimenti su finanza pubblica e crescita. Sono, poi, alle porte
elezioni di vario livello - due grandi Regioni prima (e tra non molto anche le
altre), importanti Comuni e Province, il rinnovo della Camera e del Senato (ma
ancora non si sa come verranno contati i voti - l’obiettivo principale di
qualsiasi legge elettorale) e il nuovo Capo dello Stato.
Nel dibattito in preparazione del Consiglio europeo,
l’Italia potrebbe avere un ruolo importante nel mediare su temi specifici (ad
esempio, le differenze tra Francia e Germania in materia di mercato del lavoro
e di vigilanza bancaria), ma anche e soprattutto sul più vasto argomento di
quale Europa predisporre per il futuro: se una che vada progressivamente verso
il federalismo o una a cerchi concentrici di varie forme e gradi di
cooperazioni intergovernative.
Per avere questo ruolo e, ancor più, per trasmettere
l’immagine a se stessa e agli altri nelle prossime contese elettorali, occorre
uscire da discussioni sul breve periodo - short termism per utilizzare
una parola inglese ormai diventata di uso comune anche nel nostro Paese - e dai
giochetti personalistici di potere. Occorre chiedersi quale sarà il futuro a
medio e soprattutto lungo termine del Paese e se c’è un tracciato per
cambiarlo.
Il quadro non è rassicurante. Su questa pagine, circa
due settimane, abbiamo riportate le stime Ocse: una contrazione del Pil di 14
punti percentuali tra il 2008 e il 2014 a cui seguirebbero (se le riforme
vengono effettuate nei modi e nei tempi previsti) dieci anni con un aumento
complessivo del Pil di 4 punti percentuali (ossia dello 0,33% l’anno). Ho verificato
le stime del modello econometrico dell’Ocse con quelle degli strumenti del
Fondo monetario e dell’Università di Oxford: il quadro è ancora più fosco.
Nel contempo, la contrazione 2008-2014 ha distrutto
parte importante del principale settore produttivo di un Paese a vocazione
manifatturiera come il nostro, in quanto privo di risorse naturali, con
un’agricoltura poco competitiva e con servizi finanziari non innovativi: la
produzione industriale è passata dal 22% al 15% del Pil in sette anni e nel
Mezzogiorno, secondo l’ultimo Rapporto Svimez, siamo alle prese con una vera e
propria “desertificazione industriale”. In questo contesto si pone il problema
occupazionale, all’origine anche dei moti studenteschi di questi giorni.
Oggi il tasso di disoccupazione è l’11% delle forze
lavoro. Nell’Europa a 27, gli “occupati in attività dipendenti” dell’Italia
sono i penultimi in termini di orari settimanali effettivi di lavoro. Secondo
stime mai smentite, su base annua un “occupato” italiano lavora un numero di
ore di lavoro inferiore al 40% di quelle effettivamente lavorate da un
“occupato” americano.
Inoltre, l’invecchiamento della popolazione, in parte
dovuto alla mancanza di una politica per la famiglia, l’età mediana (quella
attorno alla quale si addensa la maggior parte di uomini e donne) degli
elettori italiani sta raggiungendo i 50 anni - quando moltissimi contano gli
anni che li separano dalla pensione, non investono guardando al lungo periodo
(specialmente se non hanno figli), non innovano e tanto meno si dedicano al venture
capital o simili. Le prospettive sono di una società grigia e sempre più
povera di reddito e - ciò che è più grave - di idee.
Questo percorso sembra irrevocabilmente segnato. Le
tendenze demografiche richiedono tempi lunghi perché se ne tocchino con mano
gli effetti: un programma volto a ridurre il tasso d’invecchiamento avrebbe i
suoi primi effetti verso il 2040 - dopo due generazioni di precariato alla
ricerca del lavoro che i migliori andranno a trovare all’estero.
Tuttavia, un “dibattito proibito”, per riprendere il
titolo di un libro di Jean Paul Fitoussi, su questi temi, fa solo danno. È
urgente aprirlo e approfondirlo. Al fine di esaminare come cambiare tracciato.
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