In Italia l’opera è in crisi.
Chiedetene le ragioni ai registi
Le 13 fondazioni liriche italiane hanno accumulato un
debito di 300 milioni di euro, hanno un pubblico anziano (e in via di
estinzione). Secondo le statistiche europee, l’Italia – dove l’opera è nata e
ha avuto un ruolo fondante nella storia nazionale – è tra i 27 Paesi
dell’Unione Europea quello con il più basso numero di spettatori paganti in
rapporto alla popolazione.
Scritto da Giuseppe
Pennisi | lunedì, 1 ottobre 2012 · 1 commento
Ole Aners
Tandberg – L’Incoronazione di Poppea
Una delle
ragioni dell’inarrestabile declino dell’opera in Italia è la presentazione di
spettacoli polverosi. Le fondazioni liriche italiane non conoscono la funzione
del “dramaturg”, tipica di teatri di altri Paesi.
Non solo. Una “scuola” di regia di opera lirica ha dominato la scena italiana per decenni: quella delle regie sontuose e accurate ma tradizionali di Visconti, Samaritani, Zeffirelli, Pizzi, Ronconi (nomi di grande livello apprezzati anche all’estero) e dei loro allievi. Tale scuola ha, sotto molto aspetti, frenato tendenze differenti che avvicinavano l’opera ad altri generi di spettacolo dal vivo aperti alla sperimentazione.
La critica musicale, particolarmente quella della stampa generalista, ma anche quella delle cinque riviste specializzate, non ha agevolato il rinnovamento perché è rimasta legata, soprattutto in temi di regia e drammaturgia, a impostazioni tradizionali. Ad esempio, spettacoli recenti importanti nella stessa Milano, come la messa in scena di Die Frau ohne Schatten di Richard Strauss in un nuovo allestimento di Claus Guth o di Tosca firmata da Luc Bondy sono stati duramente criticati dai maggiori quotidiani. Analogamente, a Roma, un allestimento innovativo di Tosca curato da Franco Ripa di Meana, un regista emergente e innovativo, è stato tolto dalla programmazione dopo poche sere.
Di conseguenza, alle nuove generazioni l’opera appare spesso come un reperto museale, lontano, ove non avulso, dalla loro realtà, spesso polveroso e dominato da intrighi di amministratori e “prime donne” d’antan . Ciò spiega la flessione e l’invecchiamento del pubblico agli spettacoli dal vivo. In effetti, si è verificato quello che gli economisti chiamano “un oligopolio collusivo” tra la “vecchia guardia” delle regie liriche e i loro allievi (le cui possibilità di lavoro dipendono in gran misura dalla capacità dei loro “maestri” di aprire porte) e una critica musicale ancorata anch’essa a vecchie tradizioni e sovente priva di una vera esperienza internazionale.
Non solo. Una “scuola” di regia di opera lirica ha dominato la scena italiana per decenni: quella delle regie sontuose e accurate ma tradizionali di Visconti, Samaritani, Zeffirelli, Pizzi, Ronconi (nomi di grande livello apprezzati anche all’estero) e dei loro allievi. Tale scuola ha, sotto molto aspetti, frenato tendenze differenti che avvicinavano l’opera ad altri generi di spettacolo dal vivo aperti alla sperimentazione.
La critica musicale, particolarmente quella della stampa generalista, ma anche quella delle cinque riviste specializzate, non ha agevolato il rinnovamento perché è rimasta legata, soprattutto in temi di regia e drammaturgia, a impostazioni tradizionali. Ad esempio, spettacoli recenti importanti nella stessa Milano, come la messa in scena di Die Frau ohne Schatten di Richard Strauss in un nuovo allestimento di Claus Guth o di Tosca firmata da Luc Bondy sono stati duramente criticati dai maggiori quotidiani. Analogamente, a Roma, un allestimento innovativo di Tosca curato da Franco Ripa di Meana, un regista emergente e innovativo, è stato tolto dalla programmazione dopo poche sere.
Di conseguenza, alle nuove generazioni l’opera appare spesso come un reperto museale, lontano, ove non avulso, dalla loro realtà, spesso polveroso e dominato da intrighi di amministratori e “prime donne” d’antan . Ciò spiega la flessione e l’invecchiamento del pubblico agli spettacoli dal vivo. In effetti, si è verificato quello che gli economisti chiamano “un oligopolio collusivo” tra la “vecchia guardia” delle regie liriche e i loro allievi (le cui possibilità di lavoro dipendono in gran misura dalla capacità dei loro “maestri” di aprire porte) e una critica musicale ancorata anch’essa a vecchie tradizioni e sovente priva di una vera esperienza internazionale.
Ole Aners
Tandberg – L’Incoronazione di Poppea
Non mancano
giovani registi (Damiano Michieletto, Francesco Micheli,
Lorenzo Mariani, Leo Muscato) che stanno portando un’aria nuova. Ma
chi oserebbe mettere in scena L’Incoronazione di Poppea di Claudio
Monteverdi come ha fatto Ole Aners Tandberg all’Opera di Oslo (scene
di Erlend Bikeland, costumi di Mario Geber) che si può osservare
in un dvd della EuroArts appena arrivato in Italia?
Non c’è nulla del finto colossal hollywoodiano che ha caratterizzato messe in scena recenti in Italia. Monteverdi e il suo giovane librettista avvocato Gian Francesco Busenello guardavano alla corruzione dello Stato Pontificio nella metà del Seicento come una vicenda di potere, sesso e sangue (a sfondo morale) ma non troppo diversa di un film di Kim Ki-duk. La vicenda si svolge ai tempi d’oggi in costumi moderni. Unico elemento scenico: una piattaforma inclinata con al centro un pozzo rotondo dove fare defluire il sangue. Poppea (Birgitte Christensen) è assetata più di potere che di sesso; la asseconda la nutrice Arnalta (Emiliano Gonzalez-Toro). Poco importa che Nerone (il controtenore Jaceck Laszczkowski) è bisessuale e ha un rapporto anale con Lucano (il tenore Magnus Staveland) quasi sul cadavere di Seneca (il basso Giovanni Battista Parodi) che è stato fatto “suicidare” per non ostacolare l’ascesa al trono di Poppea. Vengo trucidati anche il marito di Poppea (un giovane e splendido controtenore britannico, Tim Mead) e la moglie dell’Imperatore (Patricia Bardon). Su questo massacro per il potere veglia Amore (Amelie Aldenheim).
Non c’è nulla del finto colossal hollywoodiano che ha caratterizzato messe in scena recenti in Italia. Monteverdi e il suo giovane librettista avvocato Gian Francesco Busenello guardavano alla corruzione dello Stato Pontificio nella metà del Seicento come una vicenda di potere, sesso e sangue (a sfondo morale) ma non troppo diversa di un film di Kim Ki-duk. La vicenda si svolge ai tempi d’oggi in costumi moderni. Unico elemento scenico: una piattaforma inclinata con al centro un pozzo rotondo dove fare defluire il sangue. Poppea (Birgitte Christensen) è assetata più di potere che di sesso; la asseconda la nutrice Arnalta (Emiliano Gonzalez-Toro). Poco importa che Nerone (il controtenore Jaceck Laszczkowski) è bisessuale e ha un rapporto anale con Lucano (il tenore Magnus Staveland) quasi sul cadavere di Seneca (il basso Giovanni Battista Parodi) che è stato fatto “suicidare” per non ostacolare l’ascesa al trono di Poppea. Vengo trucidati anche il marito di Poppea (un giovane e splendido controtenore britannico, Tim Mead) e la moglie dell’Imperatore (Patricia Bardon). Su questo massacro per il potere veglia Amore (Amelie Aldenheim).
Ole Aners
Tandberg – L’Incoronazione di Poppea
Il lascivo
duetto finale viene cantato in un lago di sangue. Il direttore musicale,
l’italiano Alessandro De Marchi (raramente chiamato dalle nostre
fondazioni liriche) riapre tutti i tagli “di tradizioni”. Per tre ore di musica
(senza contare intervalli) si resta inchiodati. L’allestimento è stato visto e
ascoltato dal vivo in vari teatri europei (tra cui l’English National Opera,
l’Opéra National di Lione e il nuovo teatro dell’Opera di Digione). Nessuna
fondazione italiana lo ha accolto.
In compenso, l’anno scorso il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ci ha propinato un noioso e vetusto allestimento di Pier Luigi Pizzi e Alan Curtis. A ciascuno il suo.
In compenso, l’anno scorso il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ci ha propinato un noioso e vetusto allestimento di Pier Luigi Pizzi e Alan Curtis. A ciascuno il suo.
Giuseppe
Pennisi
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