Una nuova insolvenza greca costerebbe
all’Italia 20 miliardi
Quali le implicazioni della nuova crisi greca per l’Italia?
Un’analisi deve tenere conto di analogie, differenze e rischi di contagio.
Partiamo dalle prime.
Quando, a fine 2009, l’allora primo ministro greco George
Papandreu paventò l’insolvenza, il debito della Repubblica Ellenica era pari al
133% del Pil, il livello toccato dal debito pubblico italiano a fine 2014. Le
agenzie di rating ne avevano declassato la qualità così come hanno declassato,
nelle ultime settimane, quella del debito pubblico italiano. Ma ci sono
importanti differenze: il debito greco allora era al 70% in mano di operatori
stranieri (principalmente banche tedesche, francesi e britanniche), mentre il
50% del debito italiano, pari a 3.800 miliardi di euro, è finanziato dai
risparmi delle famiglie italiane. Ciò ha aspetti sia positivi sia negativi. Da
un lato, le famiglie italiane possono essere chiamate a 'internalizzare' una
quota maggiore del debito e (secondo alcuni piani di rientro) a ridurne il
peso. Da un altro, nel biennio 2009-2010 i maggiori azionisti della Ue e della
Bce avevano un interesse specifico a che un’insolvenza greca non penalizzasse
le loro banche.
E veniamo alla situazione di oggi, perché negli ultimi anni
il quadro è radicalmente mutato. Da un lato, l’80% del debito greco non è più
detenuto da banche, ma da direttamente o indirettamente da Stati europei
(tramite il Fondo Salva Stati), dalla Bce e dal Fondo monetario. Una nuova
insolvenza greca causerebbe perciò una perdita netta di 20 miliardi di euro
all’Italia. In secondo luogo, l’ampliamento dell’Eurozona (e il recente
cambiamento delle regole di voto negli organi di governo Bce) aumenta il peso
dei cosiddetti 'falchi' nel cuore della politica monetaria europea. Pochi hanno
riflettuto sulle garanzie (stabilità dei prezzi, rigore in eventuali
interventi) chieste dalla Lituania (ed ottenute) per entrare nell’euro.
Eccoci allora alle implicazioni immediate. Le misure di
espansione monetaria (dagli Abs al Quantitative easing) parrebbe non essere più
all’immediato ordine del giorno degli organi di governo Bce, con conseguenze
non positive per le banche e le imprese italiane che speravano di beneficiarne
già dal prossimo febbraio. Se il 25 gennaio in Grecia i partiti euroscettici
avranno successo e si profilerà una ristrutturazione unilaterale del debito,
tale operazione vorrebbe dire perdite forse ingenti per la Bce e il fondo
Salva-Stati (e quindi per l’Italia). Il nostro Paese verrebbe visto come il
tassello più importante di un vasto e pernicioso contagio tale da mettere a
repentaglio la fascia meridionale dell’Eurozona. La situazione di breve e medio
periodo non cambierebbe però se la Grecia uscisse dall’euro. Anzi, la
speculazione potrebbe spostare la propria attenzione sull’Italia e sulla
Francia. i 'rimandati' a marzo per la verifica dei conti pubblici.
Giuseppe Pennisi
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